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mercoledì 30 gennaio 2008

Gli Abati di Laura Mancinelli (parte prima)

Penso che il romanzo della Mancinelli I dodici abati di Challant si presti a letture storiche, teologico-filosofiche e naturalmente anche letterarie. Inoltre è raro imbattersi in romanzi d’ambientazione medievale che trattino la materia in modo così fresco ed interessante. Spesso certe opere (forse ovvio il riferimento al Nome della rosa di Eco) sono intrise di un’erudizione anche pesante, sembrano più che altro dei saggi mascherati da romanzo. Così se a me frequenti e tecnici riferimenti ad antichità classica, monachesimo, vicenda di Abelardo ed Eloisa, S. Bernardo di Clairvaux ecc. esaltano, quello è un “problema” mio. Come dicevano gli allievi dei miei corsi: “Proffe, tu sei guasto!”
Ma un romanzo d’ambientazione medievale, fatte salve certo le scelte dell’A., dovrebbe (come ogni romanzo) trattare la materia in modo più libero. Del resto, chi col Medioevo abbia una certa familiarità e scelga appunto questo approccio libero, può mantenere un certo equilibrio tra rigore storico ed invenzione fantastica. Dicendo questo penso ad un altro bel libro come per esempio La stanza delle signore della Pernoud.
Tornando agli Abati, la freschezza cui accennavo è data da immagini e descrizioni che hanno il fascino di una poesia immediata, spontanea. In un sereno tramonto d’ottobre ecco che la marchesa di Challant esce a cavallo col suo seguito, il duca e l’erborista-filosofo Venafro. Quando scesero da cavallo: “La marchesa sedette su una roccia e la sua tunica indaco-rosata si sparse sull’erba come un grande fiore d’autunno. Il duca sedette ai suoi piedi sull’erba, e la guardava.”
Qui poche parole racchiudono tutto un insieme di fatti, simboli e sentimenti.; sembra che la marchesa sia appunto un fiore ed emani bellezza, ecco che il duca la contempla, forse la desidera eppure a me pare che in quel “la guardava” vi sia anche del dubbio, se non timore. La donna fiore: l’Elena di Eschilo era fiore di desiderio che tormenta i cuori. La donna tentatrice: vascello del Demonio, come sarà bollata da tanti predicatori… non nel solo Medioevo; quindi anche la donna fuoco e peccato.
Senza però moltiplicare le interpretazioni, ricondurrei la poesia del romanzo a quel che disse Socrate nell’Apologia… un poeta compone per immagini, non per deduzioni logiche.
Non che negli Abati quelle manchino, ma sono inserite all’interno di un tessuto narrativo molto scorrevole, come quando al castello arriva un seguace di Abelardo, le cui complesse teorie espone con grande senso della sintesi e non privo di spregiudicatezza.
Inoltre, l’opera contiene riflessioni sull’evoluzione della tecnologia e della società: penso all’inventore Enrico da Morazzone, che prevede la centralità che in futuro avranno “le macchine” e gli opifici. Ci imbattiamo in Goffredo di Salerno, in odore di eresia perché contro i maestri dell’omonima scuola sosteneva la liceità morale, non solo la possibilità tecnica di trapiantare nell’uomo organi d’animale.

venerdì 25 gennaio 2008

Luoghi e culture

Questa nuova etichetta (davvero una brava ragazza, potete credermi) cercherà di collegare la geografia a mentalità, usi, costumi ecc.
Infatti, ho sempre pensato che non si debba ridurre la geografia a fatto puramente morfologico: a meno che non la si voglia identificare con la semplice (benché necessaria) toponomastica.
Ma per me, la geografia è bella soprattutto quando parla delle persone che abitano i suoi luoghi; gli uomini e le donne in carne ed ossa, conferiscono un carattere all’ambiente.
Certo, lo stesso ambiente influisce sul carattere dei suoi… inquilini. Io penso (so di non dire proprio niente di nuovo) che tra ambiente ed esseri umani esista un rapporto di influenza reciproca.
Inoltre, tenterò di parlare soprattutto di luoghi e persone solitamente trascurati; di New York, Parigi, Tokyo, Londra ecc. si parla sempre, o quasi. Dell’area Molise-Basilicata (tanto per fare un esempio) mai… o quasi.
Tuttavia, nella mia pressoché infinita bontà, concederò anche alle metropoli il diritto di… ingombrare questa nuova etichetta. Solo, sceglierò delle chiavi inconsuete.
Col mio grande amico Maurizio, autentico blood brother (fratello di sangue) tra una birra e l’altra reinventavamo le città. Dicevamo: “Ti immagini i mulini a vento in riva all’Hudson?” Poi, dopo esserci documentati sul passato di Nuova York scoprimmo che fu una tranquilla città olandese
Perché non parlare di quella New York? Storia, geografia e rimescolio spaziotemporale potrebbero rendere Luoghi e culture più interessante.
Comunque, sempre che sia d’accordo con me stesso, nel prossimo post di questa nuova etichetta parlerò della Basilicata.
Ma in effetti, perché non potrei parlare della Parigi medievale o della Londra settecentesca?
Chi me lo impedisce, famigerato me stesso a parte?

mercoledì 23 gennaio 2008

Una città quasi particolare

Stamattina il sole, quel simpaticone che avrei inventato io se non ci avesse già pensato Dio (come “rimo” io…) cerca di farsi largo tra le nuvole.
Di mattina presto, o come diciamo da ‘ste parti early in the morning, Cagliari può sembrare una città medievale.
Le cloudsnuvole gravano sul colle di S. Michele, certi viali sono spazzati (o almeno spazzolati) dal vento, un’insistente nebbiolina filtra tra i rami degli alberi.
Una folla di neri, zingari, persone senza occupazione né fissa dimora, mendicanti, ladruncoli, frati, prostitute, suonatori e venditori ambulanti appare sulle strade principali e si perde nell’intrico di vicoli della città vecchia. Forse io sono uno di loro.
Una pioggerella fitta e sottile si riversa silenziosa sulle campagne alle porte della città… e si avvicina.
Viale Trieste, che adesso scoppia di negozi, uffici, martkets, bar, ristoranti ecc, all’inizio del ‘900 era una strada di campagna. A pochi metri da 1 market resiste ancora la chiesetta dedicata a S. Pietro: patrono, credo, dei pescatori.
Pochi metri più in là ecco piazza del Carmine, che sempre ad inizio ‘900 (o anche oltre) era uno sterrato o uno spiazzo adibito alla vendita del bestiame. Un personaggio di 1 racconto che devo ancora scrivere mi assicura, strillando, che là di notte galoppano i fantasmi di certi cavalli. Torna in fondo alla penna, marsh! Vediamo di non passare coi frequentatori del blog (magari qualc1 non casteddaiu, cagliaritano) per i soliti, sguaiati buzzurri.
In viale Trieste, comunque, ecco un negozio di interni dal bellissimo nome: Spazio e tempo. Devo entrarci, prima o poi: che vendano macchine del tempo? Un megapplauso, in ogni caso, a chi ha dato al negozio quel nome.
Sì, perché a Cagliari 1 bar che sorga vicino ad un colle te lo chiamano Bar Il vecchio colle, o al massimo Caffè la collinetta. Un negozio di articoli musicali, diventa La chitarra. Vendi materiale idraulico? Il tuo locale si chiamerà Il lavandino.
Perciò cari miei, lo Spazio e tempo, poiché in esso si vendono interni e sta in viale Trieste, magari rischiava di chiamarsi La cassapanca triestina.
Se poi penso che per molto tempo in qual viale lavoravano le prostitute, per carità di patria (o di città) non vi dirò come rischierebbe di chiamarsi un negozio di biancheria intima…

martedì 15 gennaio 2008

Spazio ai Lettori - n° 1 del 2008


Brani tratti da commenti particolarmente significativi o che si prestano ad ulteriori interventi da parte di coloro i quali vorranno interagire e approfondire i temi trattati. Un click sul titolo dell’articolo Vi condurrà ai testi integrali e Vi consentirà di inserire il Vostro pensiero.

Grazie a tutti Voi.

venerdì 16 novembre 2007
Autunno mio (l’autunno a Cagliari)

Anonimo ha detto...
Andando a caccia di suggestioni e colori, nel nostro piccolo, anche Cagliari (e dintorni) si difende molto bene!
Che dire dei colori che ritroviamo per esempio nella distesa fantastica delle saline e dello spettacolo rosa che ci offrono i fenicotteri che popolano questo specchio d'acqua e che troviamo anche nello stagno di Molentargius?
Ho avuto modo di viaggiare e ogni volta , amo e apprezzo sempre di più la mia città , il mio mare ed i suoi colori, il clima, i venti!

martedì 8 gennaio 2008
Simpatico sfogo contro i chitarristi solisti

C.Dotti ha detto...
Malinconia e nostalgia non sono un abominevole peccato; il danno viene dal restarne intrappolati e odiarli per questo.

Vero Rocker ha detto...
…..rock è libertà e ribellione, è uscire dagli schemi, è liberazione catartica….

Bruno ha detto...
….il rock non si è fermato agli anni '70.

sabato 12 gennaio 2008

Biondillo’s rock (Per sempre giovane)

Gli scrittori italiani mi fanno ululare. Mi piacciono solo Santucci, Benni, Castellaneta e Carlotto. Certo, dovendo scrivere un testo di critica letteraria non sarei così lupomannarico. Potrei “pensionare” (per limitarci agli scrittori italiani del ‘900) Gadda, Moravia, (certe cose di) Pasolini ecc.?
Ma quando si tratta di simpatia bisogna accantonare rigore critico & scrupoli filologici e delirare. Poi, il delirio in questione non sarebbe davvero tale: simpatia (greco sympatheia, latino sympathia) significa anche conformità di sentire. I Greci, col verbo sympatheo designavano anche una tendenza a “sentire o soffrire insieme.” Perciò non parlo di una simpatia del tipo: uè, Biondillo! Dài, vieni a bere a con noi! Parlo di una consonanza di pensieri e sentimenti: quel che ho trovato nel romanzo Per sempre giovane.
Magari, benché abbia suonicchiato anch’io all’età delle protagoniste (tra i 17 ed i 20 anni ma anche dopo) ho 1 po’ stentato a capire certi dettagli relativi a basso e batteria. Limite mio, ok. Però Biondillo mi ha fatto tornare voglia di suonare. Mi vedo già ad infliggere mails di reunion da Cagliari ad Olbia, da Olbia a Milano.
A parte questo, trovo il romanzo molto bello e caldo quando ci presenta le protagoniste, le milanesi del gruppo Le Viceversa. Biondillo dipinge delle ragazze confuse, nervose, anche spaventate ma autentiche. Sebbene per alcune di loro la musica sia fondamentale, la loro umanità non si esaurisce in essa. Attraversano buona parte del Paese (da Milano ad Alcoli, per un concorso musicale): tipico rito di iniziazione… on the road, naturalmente. Ma in questo viaggio forgeranno un’amicizia che resisterà a divorzi (Francesca, per gli amici Fra’), lotta per amori diversi (Paola), malattie ( il tumore di Daniela), caduta di Muri ecc.
In fondo, quando entri in 1 gruppo rock pensi solo a far casino, rompere gli schemi e perché no?, anche a rimorchiare. Ma non credo di passare per vomitevole sentimentale se dico che l’essenza del rock, per Biondillo ed anche per me, è l’amicizia che crea e mantiene… simpatia (nel senso che ho cercato di illustrare) tra i membri di una band.
Ultima cosa poi stop, o mi commuovo come 1 vecchio barbagianni. Sulla via del ritorno le ragazze sentono alla radio Forever young, appunto “per sempre giovane” di Dylan. Fra’ traduce questo grande pezzo, che non parla del mito dell’eterna giovinezza; Biondillo capisce bene che Dylan intendeva altro.
Infatti, forse è questa la chiave di brano e romanzo: “Possa tu avere una base solida quando il vento/ dei cambiamenti soffia.”
Quella base è costituita dall’amicizia e dal rimanere fedeli non ad 1 sogno alla Peter Pan, ma a tutto un insieme anche complesso di sentimenti e di modi di essere che escludono freddezza e tendenza all’autoisolamento… questo anche quando la vita ti separa dalle persone che per te rappresentavano tanto. Benché Biondillo non citi quei versi di Dylan, trovo che sia quello il senso del suo romanzo.
Bè, dovrò aggiungere l’uomo di Quarto Oggiaro alla scarna lista dei miei scrittori italiani preferiti…

martedì 8 gennaio 2008

Simpatico sfogo contro i chitarristi solisti

Se conoscete qualche componente della setta dei chitarristi solisti, quei particolarissimi esseri che (come diceva John Lennon) frequentano solo loro simili, ecco 2 consigli. 1) Con loro non parlate mai di chitarre perché quelli attaccano a dissertare sulle particolarità tecniche del loro strumento-feticcio, poi si ostinano (con pedante gentilezza) ad eseguirvi 29 o 31 canzoni, una di seguito all’altra. 2) Non parlate mai loro di blues: poiché posseggono una tecnica che usano a scopo intimidatorio, considerano il blues roba da buzzurri. Non riescono perciò a capire che anche una tecnica sopraffina deve essere messa al servizio di una musica effettivamente povera come la musica del Diavolo.
E’ proprio questo, del resto, il punto: i chitarristi solisti non distinguono tra l’esibizione del loro maleodorante io e la prestazione musicale, che deve intendersi come un porsi il musicista al servizio di brano e gruppo. Per loro, se Shakespeare fosse stato un musicista, col suo “essere o non essere” si sarebbe dimostrato un analfabeta. Non poteva aggiungere più verbi, aggettivi, giocare un po’ col linguaggio ecc.? Non poteva mettere più note?
Con irritante regolarità, quando chiedo ad un solista di suonarmi del blues, il Narciso della 6 corde mi suona… 1 boogie-woogie! Ma allora, oltre che 1 cicisbeo della musica, sei anche un ignorante! Oppure, il raffinato asinaccio mi suona Sweet home Chicago: nella versione che secondo lui sarebbe quella dei Blues Brothers. Ora, i B.B. eseguirono una grande cover del pezzo di Robert Johnson; niente da dire. Ma quella che esegue il guitar hero in modo ben poco eroico, è solo una parente svergognata e delirante del brano di Johnson; al massimo potrebbe intitolarsi Sweet home myself (dolce casa me stesso).
Certo, questo discorso non riguarda Eric Clapton, B.B. King, John Lee Hooker; tranquilli, piccioccus (boys), non ce l’ho con voi. Né il discorso riguarda i miei amici Gianni Zanata e Max Manca. A propòs, Max, anche se ora vivi a Milàn potresti farti sentire…
Comunque, Eric, B.B., John Lee, Gianni e Max sono dei grandi chitarristi non solo perché hanno una notevole tecnica, ma soprattutto perché a loro piace suonare anche la chitarra ritmica. Io penso che dalla ritmica nasca una visione più completa di blues, rock-blues, rock, hard-rock e perfino del metal: perché la ritmica contiene il riff ed il senso del riff e del tempo. Perciò, quando torni alla solista sei + solido, inoltre in te ci sono + varietà e fantasia. Del resto, tra i miei guitar heroes c’è anche Steve Ray Vaughan (benché esecutore talvolta esibizionista); né posso dimenticare Keith Richards: l’unico gioiso vampiro in salsa rock a partire da Chuck Berry, se non dallo stesso Dracula.
Ma ad ogni chitarrista solista (equivalente degli odiosissimi biondini) dico: prendi la tua chitarra e suonala; ma tieni il tuo inutile io lontano da quelle corde!

venerdì 4 gennaio 2008

Il mondo dei conquistadores (parte terza)

Requerimiento è termine tipicamente giuridico, significa ingiunzione, intimazione. Il procedimento di ingiunzione è una procedura volta a soddisfare le richieste di un creditore, attraverso certe forme abbreviate. L’ingiunzione viene emessa da un’autorità e possiede valore normativo. Ergo un’ingiunzione è un ordine e chi la ignora o rifiuta, incorre in una sanzione. Tale discorso è sul piano formale e del diritto, inattaccabile.
Ma il Requerimiento notificato agli indios dagli spagnoli partiva da una falsa premessa da cui, sul piano logico, scaturivano tante altre. Era infatti del tutto falso considerare gli indios debitori degli spagnoli, poiché i primi erano legittimi proprietari delle loro terre; non dovevano niente a nessuno. Perciò gli spagnoli non potevano avanzare alcun diritto su quelle terre e relative ricchezze, né richiedere prestazioni di tipo lavorativo; tantomeno, potevano fondare tali “diritti” sulla coercizione. La pretesa era, sul piano giuridico come su quello morale, nulla.
Qui abbiamo un caso evidente di arroganza: dal punto di vista etimologico e pratico, arrogare significa attribuirsi qualcosa senza averne il diritto. L’arrogante non è quindi soltanto una persona superba o boriosa, ma come ci dimostrano la storia e l’attualità, qualcuno che vuol impossessarsi (con la forza o con l’inganno) di beni materiali altrui, ma anche appropriarsi di un diritto, un titolo, un merito. E’ arrogante chi si ritiene investito di missioni superiori, di cui pensa di non dover rendere conto a nessuno. E’ il caso di militari, politici, uomini dei servizi segreti ecc., che nei loro stessi Paesi si sono macchiati di stragi, ma che hanno rifiutato di contribuire all’accertamento delle loro responsabilità.
Ma chi è responsabile deve render ragione delle proprie azioni: responsabile, dal latino responsus, participio passato di respondere, rispondere. Spesso l’arrogante è anche reticente: come Caino si sente in diritto di uccidere Abele ma poi dà a Dio una non risposta: “Sono forse io il guardiano di mio fratello?” (Gen., 4,9). Certo, la reticenza può nascere anche da paura o da senso di colpa... ma anche dal non ritenersi legati alla vera dimensione dialogica, perché in essa si dovrebbe riconoscere all’altro pari dignità; dignità che invece si nega. Una volta che ci si ritenga all’altro superiori e sul piano morale e giuridico legibus soluti, sciolti dalle leggi, ciò rende quindi possibile ogni atrocità.
Il Requerimiento, ben definito dal Greenblatt “strano miscuglio di rituale, cinismo, finzione legale, e perverso idealismo”, doveva giustificare un brutale dominio. Iniziava con una storia dell’umanità che trovava il suo zenith nella nascita di Cristo. Proclamava quindi la trasmissione-successione del potere di Cristo a S. Pietro e da lui a tutti i papi fino a quello all’epoca regnante: Alessandro VI Borgia. Il papa, come possessore ed erede delle “chiavi” del regno dei cieli cioè del diritto conferito da Cristo a Pietro di legare e di sciogliere anche in terra (Mt., 16,19) era illegittimamente ritenuto superiore anche all’autorità civile: ecco spiegata la pretesa d’assegnare agli spagnoli terre non loro; certo, per evangelizzarle

sabato 29 dicembre 2007

I miei vecchi capodanni e l’attuale

Sono nato in Italia nel 1962 ed in fondo mi è andata anche bene: se fossi nato nel 1896 (come mio nonno) o nel 1921 (come mio padre) avrei rischiato in guerra la mia kalaritan skin, questa pellaccia cagliaritana. Certo, se nascevi sempre en Italie ed in quell’anno, ma in zone ad alta concentrazione camorristico-mafiosa, rischiavi di perderla comunque, la pellaccia. Idem per chi fioriva dove si combattevano altre guerre, o dove verdeggiava il terrorismo.
Benché la mia vita non sia stata delle + tranquille, a Cagliari per non inguaiarti davvero devi solo evitare certi quartieri e la loro lussureggiante vegetazione di coltelli, siringhe e pistole. Ciò contraddice la tesi sostenuta da qualche mio amico, secondo il quale non capirei niente di botanica.
Comunque, il 1° capodanno che ricordo è quello del ’67: mi vedo ancora davanti alla finestra della mia camera, rivedo il bambino che ero osservare stupito il vetro appannato… o si trattava di brina? Ricordo (ma in modo un po’ confuso) i fuochi d’artificio, i rituali botti che in fondo, mi spaventavano.
Rimembro, in occasione del capodanno ’68, forse anche in occasione di quello del ’69, le visite alle zie nella casa di viale S. Avendrace, il ptang! dei petardi per strada, l’aspro aroma delle loro tabacchiere (quello delle tabacchiere ziesche).
I capodanni degli anni ’70 erano affollati di sogni di varia natura: tutti comunque segnati da molta malinconia e da tanta speranza.
Quelli degli anni ’80, ’82 ed ’89 esclusi, sono stati dei bravi ragazzi; non male neanche quelli degli anni ’90.
L’attuale Cap d’any, come mi pare si dica ad Alghero ed a Barcellona, si presenta bene: tra qualche mese pubblicherò il mio 2° libro; benché non manchino problemi lavorativi e legati alla mia famiglia d’origine, forse si comincia a vedere 1 po’ di luce.
Già, la luce: che auguro a tutti (se non addirittura a tutti quanti) e già che ci sono, auguro anche a me. Buon anno!

P.S.: ma non chiedetemi che cosa sia esattamente la luce...

sabato 22 dicembre 2007


Buon Natale dal pulmo

Prendo il pulmo alle 16.49; alla fermata del suddetto, l’aria è meno tagliente del solito.
Arrivati quasi all’angolo tra via Sauro (Nazario, non dino) e via Pola, una signora ci comunica che la parte centrale del vecchio mercato sarà demolita. Sulla sua area, quella del mercato, non quella della signora, sorgerà un “centro di aggregazione.” Bene: molti cagliaritani avranno un’alternativa alle solite risse e sbronze.
All’altezza del Largo Carlo Felice vedo che procedono i lavori per la trasformazione del distretto militare nella nuova biblioteca universitaria. Caro Comune (o chi per te), bravo. Solo, come direbbero i Fleetwood Mac: “Don’t stop.”
Sì, perché se non erro, per certi lavori che si dovevano effettuare nell’attuale via Manno, all’epoca occorsero 300 anni. Chi non ci crede può leggere, del prof. Giuseppe Luigi Nonnis Cagliari. Passeggiate semiserie. Marina (ed. La Riflessione, Cagliari, 2007).
Nei pressi della chiesa di S. Agostino si erge qualcosa che dal pulmo non riconosco: mi sembra una specie di bunker o di fortino risalente alla II guerra mondiale, uno dei tanti che continuano a deturpare le nostre spiagge.
Ora sono le 18.40, sono reduce da fruttuose ricerche in biblioteca ed il pulmo va alla velocità di una lumaca supersonica.
Auguri di buon Natale all’aria che sta scongelando Cagliari.
Al centro di aggregazione.
Al bunker o nuova campana della chiesa di S. Agostino ed al parroco, il simpatico don Fois.
Auguri ai pulman ed ai loro autisti.
Auguri a tutti i lettori di questo blog.
Auguri a chi ha letto il mio libro.
Auguri alla mia famiglia, ai miei parenti ed ai miei amici.
Soprattutto, auguri di buon Natale agli operai della Thissenkrupp ed alle loro famiglie.

martedì 18 dicembre 2007

La biblioteca dell’alchimista di Stefano Benni

Oggi l’inverno si è ricordato di Cagliari; molto gentile da parte sua, ma avrei preferito 1 po’ di scortesia. Certo però che il clima è un tipo strano: ho avuto davvero freddo solo una volta ed al sud… a Taranto in novembre, per il Car. Comunque, stamateina ho piazzato la caffettiera sui fogli e l’inedita Excalibur mi sta riscaldando, bella fumante, il tavolo e la cucina tutta. Bene!
Mentre i monaci benedettini di Santo Domingo de Silos cantano il Viderunt omnes ed il De ore leonis, vi parlerò del racconto di Benni Il nuovo libraio, contenuto ne L’ultima lacrima (Feltrinelli, Milano, 1994). Il vecchio libraio non riesce a mettere + insieme i soldi per l’affitto, così deve passare la mano; la Libreria dell’alchimista finisce in quelle dell’immobiliare Vinvesto e del suo “dinamico” proprietario, il cav. D’Alloro. Costui, non pago di mietere allori economici, vuol ora trebbiarne di culturali se dichiara che dalle mura della Libreria avrebbe potuto intraprendere attività ben + remunerative. Ma egli ama la cultura e soprattutto esser considerato suo amico.
Quella frasetta rivela tante cose. Con la cultura è come con una donna: ti importa della sua considerazione, non di quella degli altri. Tuttavia, grazie all’ottimo D’Alloro, nuovo direttore diventa l’accademico prof. Acanti, + o meno insigne che sia. Nuovi criteri di catalogazione, 4 linee telefoniche, smaltimento non di rifiuti ma di antichi capolavori e rarità, una nuova porta, sicurissima, cocktails letterari ecc.: sulla Libreria piomba 1 tornado.
A sera l’insigne è solo e stanco ma soddisfatto. Ride del suo predecessore, il vecchio Solari. La Libreria mantiene 1 che di medievale, al massimo di secentesco… alcuni suoi lati rimangono in ombra, ogni tanto Acanti sente strani rumori, pare che le pareti lo stringano. L’insigne ride di Solari, uomo che spesso non vendeva libri da cui pure avrebbe potuto ricavare milioni ed ai quali parlava, o che “accompagnava” alla posta ed accarezzava, quando proprio doveva spedirne qualc1. Per me, se Solari avesse parlato ad 1 fucile da caccia (per pernici o per extracomunitari) ciò sarebbe sembrato normale. Inoltre Solari, che coi libri aveva 1 rapporto affettivo, anzi affettuoso, in base a certe sue simpatie poteva vendere libri rarissimi a prezzi stracciati ed a qualche cliente parlava in latino.
Dopo alcune ore la sera diventò notte (lo fa spesso) ed Acanti cominciò ad innervosirsi: gli sembrava che i libri lo spiassero; anzi, finì per convincersi d’essere odiato da quei noiosi rottami culturali. 1 volume tratta del processo e dell'assoluzione di certi assassini di una rivolta bracciantile. Costoro sono assolti per insufficienza di prove; cose che potevano accadere nel 1823, certo. Poi, quelli avevano semplicemente sgozzato dei contadini che volevano pane e chissà che altro, razza di rompiscatole. Curioso: Il giudice che assolse i sicari si chiamava Acanti.
L’A. del libro, l’alchimista Fulcanelli, auspicava che il suo testo potesse preservare almeno la memoria di quei contadini e minacciava chi si fosse opposto a tale disegno. L’insigne, con accademico e bottegaio scetticismo, pensa a quanto ricaverà dalla vendita del libro. Inoltre “filosofa” sul fatto che la storia cancellerebbe ogni traccia e parola.
Qui Acanti sembra il ragioner Fantozzi, che quando vede uno centrato in pieno da una fucilata, commenta: “Il tempo cancella tutto”. Ma i libri ed i topi faranno giustizia.

sabato 15 dicembre 2007

Pablo Escobar (parte seconda)

Ormai Escobar aveva esagerato.
Io penso che se si fosse limitato a sequestri di persona, spaccio di coca, uccisione di rivali, lusso pacchiano, festini con attricette, torture, mutilazioni e riciclaggio sarebbe ancora vivo.
Ma osò troppo, pensò insomma d’essere davvero El patròn (suo soprannome preferito): ma gli sfuggiva il fatto che non era un vero padrone.
Beninteso, nello sfavillante benchè sanguinario firmamento della criminalità, Pablo Escobar sarà sempre ricordato come uno dei gangster più feroci, spregiudicati, forse anche come uno dei più abili. A fatica qualcuno potrà rubargli la corona di re dei narcotrafficanti.
Del resto, dopo che per un anno i suoi avvocati negoziarono la resa col governo, si consegnò alla polizia. Scelse lui i reati da confessare: il più grave, una cosuccia relativa a 20 chili di coca.
Naturalmente, sul fatto d’essere mandante ed esecutore di decine e decine di omicidi tra i più sanguinari della storia del crimine, svariati attentati ed altri reati sui quali avrebbe avuto qualche remora di tipo morale perfino Al Capone, neanche una parola.
Don Pablo chiese ed ottenne che il carcere fosse costruito nella sua tenuta, dove disponeva di un ristorante aperto 24 ore su 24, discoteca, piscina, possibilità “d’ordinare” squallidi spettacolini con minorenni ecc.
Alla fine, ad ulteriore testimonianza di un’indole irrequieta, insofferente di oppressive routines ( quindi in certo modo artistica) si seccò di quel dorato esilio e fuggì eludendo la sorveglianza di 400 poliziotti.
Fu scoperto grazie ad una telefonata un po’ più lunga col suo amor, a conferma della tesi peraltro già sostenuta dall’amico e celebre calciatore Higuita: “Anche i narcos hanno un cuore.” Il che, anatomicamente parlando è senz’altro vero.

mercoledì 12 dicembre 2007

Gli stivali incantati di William Butler Yeats.

Non affermo che gli stivali di Yeats fossero incantati. Confido però nella pazienza dei miei lettori: spero insomma in quella pazienza che si ha coi matti, almeno con quelli non pericolosi. Ora, il titolo del post si spiega col fatto che Yeats ad occulto, fate, spettri, maghi, anche alla banshee (in gaelico bean sidhe, la donna delle fate, annunciatrice di morte) credeva moltissimo.
Oggi parlerò del racconto L’uomo e gli stivali contenuto in Crepuscolo celtico (The celtic twilight). Il protagonista, all’occulto non credeva per niente; peggio per lui. Ma credo che a W.B. sarebbero piaciuti, degli stivali incantati, perciò il titolo del post vuol essere un omaggio al grande poeta. Bene, poiché spero che i miei eventuali (nonché poveri) lettori non abbiano ancora esaurito le loro riserve di pazienza, vediamo un po’ di che cosa parli il racconto.
Ci troviamo nella cittadina di Donegal, nell’omonima contea. Abbiamo un uomo che non credeva a spiriti, fate ecc. Chi di noi non conosce qualcuna di queste persone? Io, che a spiriti e fate credo forse + di chiunque, Yeats incluso, ne conosco tante. Ma poiché cerco d’essere tollerante, evito d’imporre loro le mie convinzioni.
Lo scettico sapeva di una casa “abitata dagli spiriti.” Notate l’eleganza con cui si esprime Yeats: mica dice, come gli esorcisti (peraltro bravissime persone) che la casa era infestata. Infatti, il termine infestazione è negativo. Chi direbbe: “La casa di via Verdi, a Cagliari, è infestata dalla famiglia Sanna”? Certo, si potrebbe vedere tale ipotetica famiglia costituita da esseri umani viventi mentre gli spiriti appartengono ad altra realtà. Ma perché discriminare tra esseri umani ancora viventi ed altri non più o mai stati tali? Così, cari miei, ospitalità e tolleranza vanno a farsi friggere.
Vabbè. Lo scettico entrò in casa e si mise comodo. Accese il fuoco, si sfilò gli stivali, in assoluta tranquillità prese a riscaldarsi. Conosco l’umido, in + soffro il freddo: perciò almeno fin qui l’uomo gode di tutta la mia simpatia. A poco a poco si fece sera poi notte (questo capita anche nella cosiddetta realtà). L’uomo stava bene, lì al calduccio. Possiamo immaginare le fiamme che guizzano nel caminetto, il ciocco che arde lentamente, le ombre che corrono sui muri. Fuori piove, o nevica; come volete voi. Forse gli occhi dell’uomo cominciano a chiudersi. Ma uno degli stivali si muove.
Gli stivali, forse stanchi di muoversi solo quando lo esigeva 1 uomo tanto piatto quanto ad immaginazione, decisero di saltellare qua e là per la casa. Andarono alla porta, poi salirono al piano di sopra… a sgranchirsi le suole. L’uomo sentiva gli stivali scalpicciare. Poi li sentì sulle scale quindi in corridoio. Bè, si rilassavano 1 po’ anche loro. Alla fine presero a calci il loro padrone e lo buttarono fuori.
A parte tutte le idee che possiamo avere sul soprannaturale, trovo che la letteratura non possa (pena una certa sterilità) prescindere dall’elemento fantastico, né debba temere d’essere talvolta assimilata al mondo delle fiabe. Ma di questo, in un prossimo post.

venerdì 7 dicembre 2007

Note su Pablo Escobar (parte prima)

Su Internazionale di ottobre ho letto un servizio sul colombiano Pablo Escobar(1949-1993): forse il narcotrafficante più famoso di tutti i tempi; di sicuro, il più spietato. Mescolate Sonny Corleone, Nerone o Caligola, aggiungete un po’ di Peròn, condite con vari problemi psichiatrici, allungate il tutto con le dovute dosi di mammismo e sessismo tipiche di (quasi) ogni maschio latino… ed il boss dei narcos è servito.
La vita di Escobar sembra scritta da Benni o da Fo; certo, in essa manca l’elemento comico e paradossale che troviamo in loro. Ma non si possono far uccidere circa 4mila persone (per certi furono almeno il doppio) e reggere un impero economico-criminale in modo paradossale e comico. Ciò non toglie che nella vita del boss fossero presenti elementi anche grotteschi: di un grottesco macabro, se esordì come ladro di lapidi! Del resto, per una sorta di nemesi una volta morto, qualcuno rubò la sua lapide. Un passaggio di testimone; magari un testimone piuttosto pesante…
La carriera di Escobar proseguì, come per ogni delinquente che si rispetti, come ladro di macchine, contrabbandiere di sigarette ecc. Comunque, dalla foto segnaletica scattatagli in occasione del primo arresto (nel ‘76 per contrabbando di coca) egli sorride sereno ed il suo faccione ispira simpatia. 27enne, sposerà la 15enne Victoria Henao che rimarrà sempre l’amore della sua vita... eppure alla sua morte 700 donne, molte delle quali sarebbero state sue amanti, misero il lutto.
Ma sul lavoro Don Pablo non tollerava debolezze. Faceva uccidere i suoi nemici: che fossero narcos rivali, politici o giornalisti scomodi, non importava; di fronte alla morte (la loro) per lui erano tutti uguali. Prima d’essere eliminato, chi aveva tradito doveva assistere alla tortura e successivo assassinio di moglie e figli. Escobar faceva torturare e mutilare perfino i neonati. A volte ordinava ai figli dei suoi nemici di dare il colpo di grazia al padre, che era stato torturato per ore. Spesso eseguiva la sentenza di persona.
Ma per i poveri era un santo: fece costruire dei quartieri popolari, nella sua tenuta di Antioquia piantò un milione di alberi. Fu eletto in parlamento(!) con 1 gruppo liberale e proclamato da un’importante rivista colombiana “Robin Hood di Antioquia.” Tutt’ora si dubita della sua morte (avvenuta in uno scontro con la polizia) o almeno si aspetta la sua resurrezione. C’è chi racconta: stavo morendo ma mi è apparso Don Pablo, vestito di bianco; ora io vivo.
Passò dalle semplici sparatorie, torture e mutilazioni all’uso sistematico delle bombe: nell’attentato al palazzo di giustizia di Bogotà (6 novembre ’85) morì 1 centinaio di persone. Ormai Escobar teneva in ostaggio il Paese e perfino un altro sanguinario come il boss del cartello di Cali, Gilberto Orejuela (detto El ajedrecista, lo scacchista) lo definì “uno psicopatico megalomane.” A fine novembre ’89 Escobar fece saltare in aria un aereo, 107 le vittime; pensava che a bordo ci fosse il candidato presidenziale Gaviria. Del resto, aveva già fatto uccidere 1 ministro della giustizia e Galàn, altro candidato alle presidenziali.

martedì 4 dicembre 2007

Il mondo dei conquistadores (parte seconda)

A chi rivolgersi, al re? Ma nella sua encomienda l’encomendero godeva d’ampia autonomia. Al papa? Egli aveva assegnato quelle terre e quei popoli al re, che a sua volta le aveva concesse agli encomenderos ed ai suoi funzionari. Al vescovo? Alcuni vescovi erano encomenderos e/o potevano essere anche funzionari reali. Allora a chi rivolgersi: al papa o al re? Le questioni che regolavano la schiavitù degli indios erano un affare laico e relativo alla Corona o di pertinenza ecclesiastica?
Si doveva insomma dirimere la questione in base al diritto romano ed al pensiero di Aristotele (come pensavano alcuni filosofi e giuristi) o in base al codice di diritto canonico? Si creava quindi un groviglio concettuale e politico-istituzionale da cui si poteva uscire solo, come proponeva Las Casas, col liberare tutti gli indios, subito e restituendo loro le terre, di cui erano soli e legittimi proprietari.
Certo, per il perverso intreccio economico, politico, teologico e giuridico che si era creato, la proposta lascasiana era scartata a priori. Anzi, col passare del tempo tale intreccio diventava ancor più difficile da sciogliere; del resto, l’oro accecava le menti e paralizzava le volontà. Fonti e testimonianze di parte india presentano gli spagnoli come degli esseri privi d’ogni decenza ed umanità, per es. quando si buttano sull’oro e sulle pietre preziose da loro razziate urlando, ridendo e facendo versi “come le scimmie”, lanciando appunto oro e pietre in aria e passandosi il tutto tra i capelli e sulla persona. La loro acqua e la loro igiene erano le ricchezze, peraltro estorte.
E’ interessante notare come anche l’indio attuasse una sorta di despecificazione (termine e concetto che accolgo da Losurdo): considerava quindi lo spagnolo come al di fuori della specie umana. Ma lo spagnolo despecificava l’indio del tutto a torto; la sua vittima, a ragion veduta. Poi, l’indio limitava tale operazione ai conquistadores, non la estendeva a tutti gli spagnoli e certo non a frati come Las Casas.
Inoltre, allo spagnolo mancava perfino quel sostrato teologico che avrebbe potuto “giustificare” il suo dominio sugli indios: con la bolla Dominus Sublimis (1537) papa Paolo III aveva affermato che essi erano “uomini veri”. L’imperialismo spagonolo si poneva quindi contro quella stessa religione cattolica di cui pure si definiva difensore.
Ma ora abbandoneremo il terreno teologico-religioso per spostarci principalmente su quelli pratico e giuridico-filosofico. Vedremo così che perfino un canonista innovatore (ed infatti considerato tra i fondatori del diritto internazionale) ma prudente come il Vitoria, considerava inaccettabili prassi e teoria del Requerimiento.

giovedì 29 novembre 2007

L’immortale Teodora di Heinrich Boll

Quando iniziai a leggere Boll, Cagliari mi sembrava una città tedesca. Certo, ho sempre avuto molta fantasia e qui questa parola + d’ogni altra fa rima con follia. Ma tra gennaio e marzo la città è spazzata da un vento gelido: magari in cielo non c’è una nuvola, la pioggia è un’invenzione dei metereologi, splende il sole, eppure il freddo ti sbriciola le ossa. Io, allora come oggi aspettavo il pulmo e di notte, con quel freddo, era un supplizio.
Ma avevo 1 volumetto di racconti di Boll e mentre aspettavo il miracoloso pulmo all’angolo tra via Roma e la Rinascente, o in via Roma col porto ed i suoi dannati venti alle spalle, leggevo e leggevo. Alla luce dei lampioni e dei fari delle macchine. E se scrutavo gli alberi, una leggera foschia e “tagliavo” mare e dialetto cagliaritano, mi sembrava d’essere a Berlino. Poi, che cosa c’entrava Berlino? Boll era di Colonia (tedesco Koln). Vabbè.
Mi colpì molto il racconto L’immortale Teodora, in cui si parla d’1 giovane poeta, Bodo Bengelmann. Bodo diventa celebre dopo aver spedito 300 poesie a 300 diverse redazioni, trascurando d’allegare l’affrancatura per la risposta. Per il suo amico questa è un’”audacia che resta unica in tutta la storia della letteratura.” Certo, nel racconto si dà per scontato che quelle poesie siano straordinarie. Una delle ultime frasi del poeta è: “La gloria è soltanto una questione di affrancatura.” E muore. Muore letteralmente dal ridere.
Vorrei osservare, almeno en passant come in Boll il riso sia particolare. Nel racconto La mia faccia triste egli ci parla di una società in cui, pena la galera, si deve ostentare una faccia felice, ma in certi periodi uno sia finito dentro per faccia allegra. In un altro racconto troviamo un uomo che ride per lavoro, ma che nella vita privata è invece serissimo ed in fondo non ride mai.
Per l’amico, Bodo era un “mangione, come molti malinconici”; inoltre scriveva le sue poesie migliori a stomaco pieno. Indubbiamente, queste riflessioni sottrarranno un po’ di fascino e di magia alla figura dell’artista. Ma in modo altrettanto non dubbio io dico che 1 artista morto di fame, di fame muore. E se l’artista muore, poi che cosa crea? Mica gli conviene. Comunque, quando questo erede di Goethe scriveva, suo padre era solito interrogarsi in questo, problematico modo: “Dov’è quel porco?”
Bodo scrisse per Teodora (che si chiamava Kate) i “Canti per Teodora”: circa 200 liriche che fornirono carta, inchiostro, forse anche qualche cattedra universitaria a torme di critici che invano cercarono di scoprire chi fosse Teodora. La bella del poeta, il cui nome in greco significa dono degli dei, lavorava come commessa in una cartoleria: ma questo non toglieva nulla alla sua grazia. Era bionda, farfugliava la esse (appunto come una dea), probabilmente grande lavoratrice e la sera tornava a casa in tram, a bordo del quale leggeva libri economici. Lui non ebbe mai il coraggio di rivolgerle la parola ed una volta morto, lei si mise con un meccanico.
Che l’arte, la fama e l’amore siano davvero così casuali? Difficile capirlo, in questa città fenicia.

sabato 24 novembre 2007

Danni morali a chi?

Di recente gli ex-sovrani d’Italia hanno chiesto al nostro Stato un risarcimento di 260 milioni di euro per “danni morali.” Pensano che l’esser stati, dopo la sconfitta nel referendum del 2/8/47, esiliati, abbia violato i diritti dell’uomo. Tale richiesta è offensiva. Usa infatti questo termine l’avv. Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Egli si riferisce all’approvazione da parte di Vittorio Emanuele III delle leggi razziali del 5/9/38 (cfr. Gazzetta Ufficiale 13/9/38, n.209). Nel '97 un Savoia ha definito quelle infami leggi “non poi così terribili”! Gattegna ricorda a tanti smemorati la guerra combattuta dall’Italia fascista a fianco della Germania nazista: il tutto con l’appoggio dei Savoia. In seguito, nei lager morirono 8500 ebrei italiani. Aggiungo che alla destituzione di Mussolini il re non revocò quelle leggi e che dopo l’8 settembre i Savoia fuggirono a Brindisi (9/9/43).
Alla base di tutto stava una loro antica e profonda vocazione… antidemocratica: durante la marcia su Roma (ottobre ’22) il re non volle firmare il decreto di stato d’assedio proposto dall’allora presidente del consiglio Facta; rinunciò così a contrastare il fascismo. Anzi, offrì a Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo (28/10 22). Quando (maggio ’24) come dice Diego Fusaro il sen. Campello presentò le prove della responsabilità fascista nell’assassinio di Matteotti, il re si nascose il viso dicendo d’essere “cieco e sordo” e che suoi occhi ed orecchie erano camera e senato: proprio quelle dominate con pugno di ferro da Mussolini, che come è noto dichiarò che avrebbe potuto fare di quell’aula “sorda e grigia” un bivacco per i suoi uomini.
Inoltre, i Savoia non contrastarono lo squadrismo fascista, che si scatenò dal primo dopoguerra al ’22 ed oltre, con tutto il suo carico di omicidi, stupri, umiliazioni, torture, incendi… Il re fu felice di fregiarsi del titolo di imperatore d’Etiopia, dopo che tale Paese fu conquistato grazie ad una guerra che comportò da parte dell’esercito italiano l’uso massiccio di gas e la violazione di tutte le leggi, incluse quelle di guerra. Che tanti smemorati leggano le opere di Del Boca.
Si pensi poi alla decorazione militare conferita dal re buono Umberto I al gen. Bava-Beccaris per aver fatto cannoneggiare ed uccidere a Milano (1898) decine di persone che protestavano per il carovita. La medesima politica militare fu sempre applicata per reprimere scioperi, manifestazioni e contro chiunque si opponesse al potere regio e padronale. Mack Smith prova che Vittorio Emanuele II, re galantuomo parlò di “compiere un massacro” dei seguaci di Garibaldi, che potevano arrivare a Roma prima del suo esercito e dichiarò ad 1 ambasciatore inglese che si poteva governare l’Italia solo con le baionette o con la corruzione. Mack Smith ne La storia manipolata prova che i Savoia fecero spesso uso d’entrambi i sistemi. Genova, Ancona e Gaeta furono regalmente bombardate e per molto tempo, in Sardegna, gli oppositori alla real casa erano marchiati a fuoco, come il bestiame.
Si dirà: è il passato e comunque la richiesta savoiarda andrebbe accolta con un sorriso; ma più si considera la loro storia e meno si trovano ragioni per farlo. Gli ex-regnanti non hanno mai riconosciuto le loro colpe, né tutt’ora rinunciano alle prerogative dinastiche, in ciò mantenendo un legame non solo sentimentale col quel passato. Qualche anno fa, dall’esilio promulgarono una legge: come se regnassero ancora! Dopo tutto questo, ora con quale diritto storico, morale o politico avanzano certe pretese?

martedì 20 novembre 2007

Il mondo dei conquistadores (parte prima)

Abbiamo visto che il dominio esercitato dagli spagnoli sugli indios combinava forme di controllo militari, economiche (l’encomienda) e psicologico-terroristiche come lo stupro e la tortura. La tortura sortiva l’effetto, attraverso la mutilazione dell’indio ed il progressivo scempio del suo corpo, di sfigurarne l’immagine umana. Lo spettacolo offerto dalle sue sofferenze doveva fornire divertimento agli spagnoli e provocare repulsione negli altri indios: la vittima che soffriva tremendamente era presentata come non umana, quindi come bestia. Il dominatore doveva giustificare la propria crudeltà, il proprio comportamento bestiale: per es. col ritenere che il dominato si trovasse al di fuori del genere umano.
E’ questa una costante storica che si è ripetuta spesso, se ancora a fine anni ’50 Sartre affermava che i soldati del suo Paese applicavano al colonizzato il numerus clausus; non consideravano l’algerino, comunque il non-occidentale ed il non cristiano come facente parte del “numero” degli esseri umani; gli si poteva così usare ogni violenza.
Nel caso degli spagnoli, la crudeltà era la forma pratica del loro dominio: una forma che si esercitava attraverso una combinazione anche complessa di sistemi e che comprendeva anche elementi rituali. Il sequestro e lo stupro per es. delle mogli dei capivillaggio era certo funzionale all’estorsione di un riscatto in oro. Ma penso che insieme, nell’usare violenza sessuale alla moglie di un capo, il capitano spagnolo (l’altro capo) volesse affermare una superiore potenza sul piano militare ma anche su quello simbolico. Il messaggio da trasmettere a tutti gli indios era questo: il vostro capo non può proteggere neanche ciò che dovrebbe avere di più sacro, cioè sua moglie; perciò io ed i miei uomini acquisiamo pieno diritto su tutto… oro, terre, Dèi, le vostre stesse persone.
Ora, la presenza anche di elementi simbolico-rituali ce ne fa intravedere un’altra: quella della religione cristiana. I re spagnoli avevano ricevuto “le Indie” dal papa al fine di evangelizzarle. Benché la religione cristiana non sia responsabile degli orrori dovuti ai conquistadores, tuttavia il suo uso distorto si è dimostrato letale per gli indios. Così, qui anch’io parlo di “imperialismo cristiano.” (L. Nuzzo, "Percorsi religiosi e strategie di dominio…").
Tutta via non seguo Nuzzo quando ritiene necessario liberarsi da categorie “eccessivamente” moderne, per rileggere lo stesso Requerimiento considerando anche i vari condizionamenti teologico-religiosi, nonché influenze e tradizioni “altre” rispetto alla stessa ideologia cattolica dell’impero spagnolo. Non seguo il Nuzzo perché quell’imperialismo si fondava proprio sui succitati condizionamenti. Poi, certo accanto ad essi esistevano dimensioni extragiuridiche, non normative stricto sensu ed anche prestatali (donazioni remuneratorie, micropoteri ecc.).
Ma il quadro di un imperialismo pur così complesso non cambiava nulla sul piano dei rapporti di forza: che agli indios erano sempre avversi. La pluralità di poteri e dimensioni e la mancanza di un forte potere centrale (ma da cui aveva preso le mosse la Conquista e che da essa ricava ingenti ricchezze) rendeva impossibile il miglioramento della condizione del dominato.

venerdì 16 novembre 2007

Autunno mio (l’autunno a Cagliari)

A dire il vero, Cagliari non conosce l’autunno. Da noi è ancora estate sino all’inizio d’ottobre. A volte, qui l’estate si concede una proroga sino ai primi giorni di novembre. L’anno scorso verso l’8-10 del mese c’era chi andava ancora al mare.
Ma poi, per citare una frase dei nostri vecchi, come Dio vuole l’autunno inizia anche da queste parti.
Di recente ho visto un documentario sulla regione francese della Camargue. Bè, care amiche e cari amici, pur con sommo rammarico devo informarvi del fatto che da noi l’autunno non regala dei tramonti così rosseggianti, dai nostri stagni non decollano aironi, presso i nostri fiumi non si abbeverano cavalli bianchi. No, purtroppo.
Eppure, anche l’autunno casteddaiu (cagliaritano) ha un suo fascino. Quando il sole va via e le nuvole si stendono sulla città come un antico mantello, è bello sedere su una panchina a fissare il mare, le barche che scivolano tranquille ed i gabbiani che cantano nel loro, particolarissimo, stile.
Mi aggiro furtivo come un ladro nella zona compresa tra l’antico arsenale, la cattedrale ed i bastioni che sovrastano la Cagliari. Da lì vedo il vento increspare il mare. E non c’è bisogno di cercare o creare metafore: il vento sulla superficie marina va oltre.
Ho sempre attraversato la città da una periferia all’altra per sentire il particolare miscuglio che gusti in autunno: di salsedine, di vecchi stagni, di venti che sibilano tra le erbacce confondendosi con treni che sferragliano lontano. Intanto mi sporcavo scarpe e jeans di fango, buttavo passi sulla spiaggia e bevevo qualcosa o cercavo di scolpire quella strana bellezza… a colpi d’inchiostro.
L’autunno cagliaritano mi piace anche quando nella città vecchia il vento fa tremare i portoni e cigolare porte e finestre. Mia moglie attribuisce tale (macabro) gusto al fatto che mi starei trasformando in un vecchio gufo. Trovo questa sua tesi suggestiva ed entro certi limiti condivisibile; per es., non mi riterrei proprio vecchio.
Tuttavia, quando il sole filtra tra i rami di qualche albero sotto cui io, gufo di mezz’età ho trovato una gentilissima panchina, ebbene, allora posso riscaldare le mie ossa e schivare con successo le prime gocce di pioggia.
Quando poi esploro gli umidi vicoli di qualche paesetto e seguo il filo di certi camini, capisco che l’autunno è uno stato d’animo, non un fatto climatico.
Beh, sempre meglio che avere dentro l’inverno...

martedì 13 novembre 2007

Il grande Zà, detto anche Cesare Zavattini

Cesare Zavattini (1902-1989), il grande è stato scrittore, giornalista, sceneggiatore, pittore, regista e molto altro ancora. Nacque a Luzzara, in provincia di Reggio Emilia e per tanto tempo si portò appresso il tormentoso ricordo della classica piccola città: quella provincia in apparenza dolce e quieta, in realtà feroce… coi suoi figli più creativi. Il natio borgo selvaggio di leopardiana memoria o, per chi non regge certi riferimenti letterari, la Piccola città di Guccini o la Piccola città eterna di Ligabue.
Di Zà avrò letto 29 volte Parliamo tanto di me, sorta di viaggio dantesco intessuto però di comicità. Ogni capitolo dell’opera contiene delle storiette, come l’A. chiama le vicende che racconta.
Zà non è tanto interessato allo scavo psicologico o alla descrizione d’ambienti e non gli importa molto neanche della trama. Gli piace raccontare ed in questo non si pone problemi d’architettura o di coerenza interna (dell’opera). Ma poiché sa raccontare, risolve anche questi problemi. Come dice John Lennon in Watching the wheels? Non esistono problemi, solo soluzioni. Certo, questo non è logico; ma un vero artista fa marameo alla logica.
Zà scrisse Parliamo nel 1931 e pensò bene di infarcirlo di uno spiritello comico-cattivello. Già da allora, l’uomo e non solo lo scrittore era insofferente di schemi, regole ed imposizioni. Così, il suo stesso uso del linguaggio era quasi eversivo: negli anni ’70 in diretta (alla radio) e prima che diventasse una fastidiosa moda, gridò c…zz! Dichiarò che quando scrisse Parliamo era interessato a giocare con le parole, esasperarne il lato paradossale, farne esplodere le contraddizioni.
Ma per me, in Parliamo c’è addirittura di più. Prendiamo la storietta di quel tale che angoscia il suo interlocutore con la cronaca delle proprie avventure. Chi di noi non ha conosciuto o non conosce (soprattutto in provincia) uno che si presenta come infaticabile amatore, uomo che avrebbe avuto più donne di Caligola, Bukowski e Mick Jagger messi insieme? Ma anche se così fosse che importanza potrebbe avere, perché questo Superfornikator non se ne va al diavolo? Bè, di rado abbiamo il coraggio di dire cose del genere.
Anche l’interlocutore della storietta ascolta e sopporta, sopporta ed ascolta… ma poi esclama: “Bababarabà.” Questo sconcerta il playboy, che però non demorde. Il brav’uomo continua ad ascoltare ed a subire, ma nella mente una vocina gli sussurra: “Devi dire bebeberebè.” E’ un pensiero stupido, anzi folle ed a poco a poco comincia a diventare un’idea fissa. Devi dire bebeberebè. Devi dire bebeberebè. Devi dire beber… “Bebeberebè!” Miracolo: l’erotomane narciso saluta e va via. Alleluja! Osanna!
Non sono un puritano, come non lo era neanche Zà e non ho niente contro chi parla francamente di sesso: ma 1 conto è parlarne così, 1 altro in modo autocelebrativo e stendendo un elenco delle proprie conquiste, come se le donne fossero delle tacche da segnare sul calcio di una pistola.
Purtroppo, l’atteggiamento da zerbinotti da strapazzo è molto diffuso anche tra chi punta a soldi, fama ed onori. A tutti loro dico: “Bababarabà! Bebeberebè! Bababarabà! Bebeberebè!”