martedì 24 dicembre 2013
Rock-blues natalizio
Probabilmente questa crisi è la
peggiore dalla fine della guerra. Per quello che vale, su questo blog
me ne sono occupato nei post da me intitolati La chiamano crisi.
Del resto, aumenta sempre più il numero delle persone che fruga
nei bidoni della spazzatura!
Io penso che dica bene
l'economista Vladimiro Giacchè: una crisi causata dalle banche,
dagli speculatori e
minimizzata da “esperti”, Grandi sacerdoti del dio
mercato e politici complici, è
stata scaricata sulle spalle di lavoratori, precari, disoccupati,
anziani, malati, immigrati ecc.
Ma
da questa crisi si dovrà uscire
e certo non si potrà pretendere che per citare un'espressione
utilizzata da alcuni vescovi che
tempo fa appoggiarono delle lotte operaie, “la collera
dei poveri” possa evitare di
scoppiare ancora per molto.
Il
Natale: se ci
pensassimo bene, vedremmo che il suo spirito dovrebbe essere di
solidarietà e di giustizia. Uno spirito quindi sociale,
non dolciario. Nella
grotta di Cristo non c'erano panettoni e spumanti ma fame e gelo; la
Palestina non era percorsa da festanti Babbi Natali ma battuta da
duri reparti di fanteria e di cavalleria di un esercito di
occupazione.
E
potrei continuare parlando oggi di
alluvioni, terremoti, guerre, licenziamenti, suicidi ecc. Ma il
filosofo Ernst Bloch invitava non ad un ottuso ottimismo bensì al
dovere di non cedere al discutibile “lusso” del pessimismo. Un
pessimismo che non cambia niente ma anzi continua a farci vivere “una
vita da cani.”
Ognuno
guarderà in sé stesso ed in sé stesso vedrà del bello e del
brutto: entrambi i lati serviranno a farlo ripartire.
Varrà
poco, ma nel 2013 ho finito di scrivere un altro romanzo
ed ora che purtroppo la mia casa editrice (“La
Riflessione”) ha chiuso,
presto ne cercherò un'altra.
Dopo
molti mesi ho ripreso a correre.
Dopo
qualche anno ho ripreso in mano dei lavori di filosofia che
terminerò.
Ho
pubblicato più spesso sul blog.
Dulcis
in fundo, dopo quasi 2 anni sono stato richiamato da una scuola.
Insomma,
non è certo il migliore dei mondi possibili (Leibniz, a
cuccia!) né io sono il migliore
dei Riccardi possibili, ma come scriveva Gramsci, una volta un uomo
era caduto in un fosso. Chiamava aiuto, chiamava e chiamava ma non
lo aiutava nessuno... finché lui si tirò su sulle sue
braccia e sulle sue
gambe.
Così
uscì dal fosso, riprendendo a camminare e levandosi di dosso tutta
la sporcizia in cui purtroppo era finito.
Buon
Natale, buon anno e facciamoci forza. Ma nello stesso tempo, mentre
usciamo dal fosso cerchiamo di tirar fuori anche qualcun altro;
almeno proviamoci:
perché insieme si
cammina meglio.
mercoledì 18 dicembre 2013
“Non siamo angeli”, di Neil Jordan
Questa bella commedia di Neil
Jordan ha come protagonisti un trio piuttosto insolito, o inedito:
Robert De Niro, Sean Penn e Demi Moore.
De Niro (Ned) e Penn (Jim) sono
due evasi. Ma evadono (con un condannato alla sedia elettrica) loro
malgrado. Ned e Jim non sono dei grandi criminali ma durante la fuga,
il condannato uccide delle guardie: il che complica le cose...
La vicenda si svolge al confine
tra gli Stati Uniti ed il Canada. Siamo nel 1935 quindi tutta la
storia, se pensiamo che il crack di Wall Street avvenne nel 1929, ha
abbastanza a che fare con la Grande Depressione.
La cittadina in cui capitano i
nostri improbabili eroi è molto lontana dallo sfarzo e dalla
spensieratezza di Beverly Hills, della California o della Florida,
manca della vita che si può trovare a New York o a Los Angeles.
Si
tratta di una città umile, in cui si lavora duramente e la vita che
in essa si conduce non offre troppi svaghi o soddisfazioni.
La stessa Molly (Demi Moore) è
una donna che cerca di tirare avanti come può; oltretutto, con una
bambina molto malata per le cui cure non sa proprio a che santo
votarsi. Così, per Molly il solo “rimedio” praticabile sembra
essere la prostituzione.
La Moore rende Molly in modo
molto convincente. Giustamente, lei è animata da fiero sdegno per i
discorsi sulla bontà di Dio a cui chiede invano la guarigione della
sua piccola. Inoltre, Molly prova disgusto per l'ipocrisia di quanti
vorrebbero andare (o ci vanno senz'altro) a letto con lei. E magari,
sono uomini di legge o di Chiesa...
Molto convincente anche Penn,
spaventato dalla caccia all'uomo scatenata dalla polizia con gran
dispiego di uomini, armi, cani ecc. ecc. e nello stesso tempo,
confusamente attratto dal mondo religioso in cui lui e Ned si
imbattono... quando trovano rifugio in un monastero.
Sia Penn che De Niro sono
perfetti nella parte (conierò questa definizione) di santi
casuali, ma secondo me lo è
soprattutto Penn. De Niro? Forse esagera con le smorfie, rivelandosi
in qualche caso un po' fastidioso; ma nel complesso, Robertino è
stato bravo anche in questo film.
Il
titolo del film si spiega con (lettera agli) Ebrei, 13, 1-2
che i due trovano ad un
crocicchio: “Perseverate nell'amore fraterno. Non dimenticate
l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli
angeli senza saperlo.”
Così,
i 2 troveranno ospitalità in un monastero nel
quale, per un provvidenziale equivoco
erano attesi in qualità di teologi!
Naturalmente a tale equivoco si aggrappano come ad un'insperata
ancora di salvezza...
Il film
colpisce per il misto di grazia, umorismo ed (anche) sottile satira
contro la figura ed il mondo appunto dei teologi.
Per esempio,
durante la fuga Ned e Jim si liberano dei loro panni di carcerati,
sostituendoli con delle camicie che trovano stese ad asciugare in un
cortile. Ma Jim scorda di togliere dalla sua tutte le mollette cui ne
rimane attaccata una. Un grande estimatore dei “suoi” scritti
teologici gli chiede il perché.
E
lui, solenne: “Mi ricorda che in qualsiasi momento
possiamo essere presi
e portati via.”
Il
dotto frate accoglie la spiegazione con devozione,
tanto che applicherà una molletta anche alla sua tonaca!
Sarebbe
stato facile, in un film come questo, cedere al facile gusto per il
piccante, inducendo i due finti teologi ai piaceri della “carne”,
ma Jordan ha resistito a tale gusto. Insomma, con Non siamo
angeli egli ha realizzato un
film godibile e (se pensiamo ad una “predica” di Jim) in fondo
anche profondo; comunque, non certo banale.
Non so se il
film abbia avuto successo, tuttavia fa compagnia per circa un'ora e
mezzo e che dire? Presenta anche dei momenti di suspence: le fasi in
cui la polizia bracca i 2, a me hanno creato qualche momento d'ansia. Davvero un
bel film!
venerdì 13 dicembre 2013
La discussione filosofica (riepilogo)*
Sintesi delle parti comprese
dall'8/a all'11/a parte, più alcune nuove considerazioni.
Nell'8/a abbiamo
visto che Platone considerava
l'arte in modo
estremamente negativo... per lui essa era inutile ed ingannatrice
sul piano filosofico e
pervertitrice su quello morale.
Accettando
queste tesi di Platone, risulta evidente che il dialogo tra
l'artista ed il filosofo risulta
impossibile o almeno, fortemente problematico.
Nella 9/a parte
ho proseguito l'analisi della condanna dell'arte pronunciata da
Platone.
Abbiamo
poi visto che alcuni artisti hanno dato alle loro creazioni carattere
non di semplice gioco (sia pure notevolmente raffinato e complesso)
ma soprattutto di ricerca
e di autoanalisi.
In
Joyce troviamo
addirittura la creazione di dimensioni del tutto alternative
a quelle del normale continuum
spazio-temporale. In lui, infatti, il linguaggio diventa vero e proprio strumento creatore...
e creatore di una realtà che si contrappone nettamente a quella del
resto dell'umanità.
L'aspro
umorismo del Portnoy di
Philip Roth e del Dostoevskij dei Ricordi dal sottosuolo
si pone come elemento di auto-fustigazione: si situa quindi ben al
di fuori di qualsiasi discorso
comico e perfino satirico.
Nella 10/a parte
abbiamo visto come il modo di essere e di sentire degli
artisti nasca come reazione ad una struttura sociale e ad un
complesso di norme che essi trovano opprimente, soffocante. Perciò
le creazioni artistiche sono direttamente collegate a queste loro
reazioni; esse rispecchiano il cuore appunto
dell'artista anche in quelli che
potrebbero, banalmente o moralisticamente, sembrare “volgari” o
“violenti” eccessi.
Naturalmente
il vero artista
irradia un'aura oltre che di creatività anche
di sincerità. Ed egli
è “volgare”, “violento”, “folle” ecc. non perché debba
o voglia interpretare un ruolo (anche
se i commedianti esisteranno sempre) ma perché appunto esprime
sé stesso senza cedere a censure o a limitazioni di sorta. Del
resto, l'artista non cede neanche all'autocensura …
che pure molte volte potrebbe fargli comodo.
Sempre
nella 10/a parte
evidenziavo come perfino in un severo censore dell'arte come Platone
si annidasse della duplicità:
nel suo modo di scrivere, infatti, egli “tradiva” una forse
inconscia ammirazione
per l'ambito e per le persone che condannava. In effetti, lo stile
letterario e certa capacità introspettiva rivelerebbero in Platone
doti artistiche...
Nell'11/a parte
sottolineavo quella che io considero (partendo proprio dal “mito
della caverna” di Platone) la sola e vera natura
della filosofia: una natura cioè sociale,
come tale aperta a
tutti gli
uomini, a tutte le
donne. Io considero infatti la filosofia non come una sorta di codice
per iniziati, insomma una
misteriosa disciplina segreta, astratta ed incomprensibile, ma anzi
qualcosa che riguarda
ogni essere umano.
Questa
idea
della filosofia si fonda sul fatto che essa nasce dai desideri
e dai sentimenti
di
uomini e donne in carne ed ossa e dotati della facoltà razionale.
Essi hanno quindi tutto il diritto
di
interrogare sé stessi e di confrontarsi con chiunque
su qualsiasi
lato
o aspetto dell'esistenza.
In
filosofia possono insomma esistere dei grandi filosofi ed in effetti,
ne sono esistiti molti. Ma nessuno,
per quanto grande possa essere la sua conoscenza appunto del discorso
filosofico, può impedire
o negare ad
un altro l'esercizio della propria ragione. E la filosofia, in fondo,
non è altro che questo: ragionare
(come
dice il popolo) con la propria testa, sebbene senza mancare mai di
rispetto a chi nel ragionare può aver fatto più strada di noi.
Nota
*
Ho
pubblicato su questo blog le precedenti parti di questo post
rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il
17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011; la 6/a il
15/11/2012; la 7/a l'8/12/2012.
Il riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il 21/02/2013.
Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013; la 10/a il 5/10/2013 e l'11/a il 30/10/2013.
Il riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il 21/02/2013.
Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013; la 10/a il 5/10/2013 e l'11/a il 30/10/2013.
giovedì 21 novembre 2013
“Letto 26”, di Stefano Rosso
Si tratta di una delle più belle
canzoni di Stefano. Il brano è autobiografico e secondo me molto
visivo: ascoltandolo, a me
sembra di di veder scorrere persone, case, auto, gatti, fasi della
giornata... mi sembra di sentire suoni, rumori, gusto atmosfere
chiare, nette eppure indefinibili.
Nel
pezzo lui ricorda una degenza in ospedale, forse quando era bambino e
nomina Via della Scala,
la via di Trastevere in cui
visse e crebbe.
Dal
documentario di Simone Avincola Stefano Rosso. L'ultimo
romano risulta come Ste' sia
stato soprattutto un trasteverino verace,
un uomo quindi che apparteneva ad un mondo (quello appunto di
Trastevere) davvero a parte. Ed il documentario di Simone ha il
notevole merito di evidenziare come egli appartenesse totalmente a
quel mondo: scanzonato, irriverente, popolare e che considera
l'amicizia valore
primario.
Letto 26,
fedele poi a certi miti che esistono in ogni rione popolare, presenta
anche dei personaggi come Biancaneve che:
“
E' ancora là
è un po' invecchiata ma che fa
le mele non le mangia più
forse i ragazzi giù del bar.”
Si
ignora chi sia questa “Biancaneve” ma a me fa pensare ad una che
faceva la vita ,
magari occasionalmente.
Del
resto, forse Biancaneve era
anche uno dei fumetti porno-soft che trovavamo dal barbiere quando
eravamo ragazzi... o pischelli,
come mi pare che si dica a Roma. Da parte di Ste' si tratta qui di
citazione, strizzata d'occhio o di semplice ricordo d'adolescenza?
Chissà. Ma forse, stabilirlo non è tanto importante.
Penso
che con la 2/a strofa e con Biancaneve ci
troviamo attorno ai primi anni '50 (“La guerra già non
c'era più/ e poi non c'eri neanche tu”).
Arriviamo
alla scuola ed come si doveva andarci:
con decenza e rispetto,
come si diceva dalle mie parti. Il che significava: “La
brillantina e via così.”
Io
ricordo la
Brillantina Linetti
che mia padre mi spalmava sulla testolina. Quando la giornata
scaldava, la Linetti ti si seccava in testa diventando una specie...
non so, di crosta.
Però
era profumata e
teneva i capelli in ordine; sembravo un bambino prussiano ma quasi
quasi me la ricompro...
Vabbe',
il piccolo Ste' cresce e sente attorno a sé attorno a sé il
disprezzo per la cultura:
“Diceva
non ti serve a niente
la
scuola non ti servirà
e
invece io tra quella gente
capivo
un po' di verità.”
Ecco,
questo è un aspetto di Rosso che forse è stato poco indagato: il
rapporto con la cultura.
Nel
documentario citato, un amico dichiara che benché Ste' fosse un vero
gatto di strada (in Letto
26 si
parla apertamente di alcol, donne e marijuana) comunque studiava
parecchio.
Del
resto in Compleanno
canta:
“E con gli
amici adesso a casa mia si parla spesso di filosofia.”
Addirittura, una sua canzone si intitola Metempsicosi:
la credenza nella reincarnazione o trasmigrazione delle anime. In
Metempsicosi
troviamo
poi dei riferimenti (sebbene scherzosi) a Platone ed a Plotino. E
forse, potremmo continuare.
Tornando
a Letto 26,
nella penultima strofa il Nostro fa un bilancio della sua vita:
“Ho
conosciuto tante donne
cattive,
oneste, senza età
a
tutte ho dato un po' qualcosa
con
tanta generosità
a
lei, mia madre, i dispiaceri
mentre
a mia moglie dei bambini
al
primo amore i sentimenti
i
baci e l'acne giovanile.”
Ma
in questo bilancio il riferimento alle donne
non
ha niente di macho:
è invece molto rispettoso e sincero. Ste' dice d'averle
“conosciute”: non gli interessa vantarsi d'esser stato un latin
lover; sottolinea anzi come con le donne abbia cercato un contatto
più pieno, più vero.
A
fine canzone il ragazzo è ormai un uomo... ha attraversato il
dopoguerra, vissuto gli anni della lotta politica, raggiunto una
certa notorietà (che ingiustamente perderà presto), è diventato
padre e marito, ha sofferto e fatto soffrire... ma sembra che si
guardi ancora attorno con un misto di divertimento , curiosità ed
inquietudine.
Ma
sia detto senza false e stupide modestie, questo articoletto non
rende un gran servizio a lui ed a Letto
26. Perciò
ascoltatela: anche molte volte. Le corde di quella chitarra pizzicate
come faceva lui e la sua voce dolente ed insieme appassionata danno
sensazioni che toccano e scavano. Molto. Moltissimo.
sabato 16 novembre 2013
La discussione filosofica (12/a parte)*
Stando ad Aristotele, negli esseri
umani questo interrogarsi nasce da
quel che egli chiama thaumazein1,
che significa sia “provare meraviglia” che “turbamento.”
L'uomo, di fronte allo spettacolo meraviglioso ma anche terribile
della natura, prova
quanto detto poc'anzi. E da quel momento
comincia ad interrogarsi, il che lo conduce a filosofare.
Vivendo poi in
società l'uomo sarà dunque portato a confrontare le sue
domande e le sue risposte anche con quelle degli altri.
Ecco perché
la filosofia, che nasce da esseri razionali, possiede anche
una natura sociale. Ora, lato sociale e lato razionale sono
tra loro legati o meglio, intrecciati. Del resto, tutti
noi siamo esseri dotati di ragione e viviamo in una
dimensione sociale.
Per piccola
che sia quella dimensione e per quanto poco sviluppata possa esser
l'inclinazione che ognuno di noi può avere a ragionare, però
nessuno può sottrarsi al vivere sociale ed all'esercizio della
ragione.
A meno che
qualcuno non opti per un volontario isolamento dall'umanità...
Ma anche in
quel caso, nessuno potrà rinunciare alla sua natura d'essere dotato
di ragione. Ed anche se lo volesse, dovrebbe compiere comunque un che
di filosofico: imporre a sé stesso di non ragionare più;
dovrebbe insomma utilizzare (magari portato dalla rabbia o
dall'amarezza) la sua ragione per smettere di ragionare.
Però anche se
volesse pensare solo a bisogni puramente biologici quindi alla mera
sopravvivenza fisica, anche questo sarebbe un atto compiuto da un
essere razionale. E che tale rimane.
Non possiamo
quindi sottrarci, o lo possiamo solo a stento, alla dimensione
sociale-razionale.
Sì, forse per
qualcuno questo sottrarsi potrà essere un gran bene:
perché la razionalità e la socialità ci chiedono conto di
chi siamo e di che cosa facciamo, di chi eravamo e di che cosa
abbiamo fatto; già, perché appunto razionalità e socialità
possiedono anche un lato morale.
Comunque, chi
vorrà rifiutare l'ambito sociale, quello razionale o entrambi dovrà
compiere una o più scelte che potranno sembrare solo di tipo
pratico: voglio vivere pensando soltanto al mio benessere
fisico, cercare il piacere dei sensi (l'edonismo), puntare al
potere, o al danaro, alla fama ecc. o comunque rifiutare tutto quanto
possa comportare lunghe, complesse ed anche dolorose riflessioni ed
autocritiche.
Voglio vivere
solo per e nell'azione.
O essere come
lo Stirner che dichiara: “Io ho riposto la mia causa nel
nulla.”2
Ma anche
queste scelte saranno compiute da un essere razionale che vive in
società e che perfino nel rifiuto di socialità e razionalità,
manterrà almeno il ricordo e forse anche il rimpianto
di quella sua duplice (in realtà unica, come visto)
dimensione.
Note
- Ho pubblicato su questo blog le precedenti parti di questo post rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011; la 6/a il 15/11/2012; la 7/a l'8/12/2012.
Il riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il 21/02/2013.
Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013; la10/a il 5/10/2013 e l'11/a il 30/10/2013.
1 Aristotele,
La metafisica, Utet, Torino, 1996, I, 2, 982b 12 sgg. Ma
questo concetto era già stato scoperto ed illustrato da Platone; “E'
veramente propria del filosofo questa emozione, il provar meraviglia,
né altra che questa è l'origine della filosofia.” cfr. Platone,
Teeteto, Utet, Torino, 1981, 11, 155d.
2 Max Stirner,
L'unico e la sua proprietà , Giunti Demetra,
Firenze, 1996, p.414. Il corsivo è mio.
martedì 5 novembre 2013
Frammentari pensieri su Stefano Rosso
E' con una certa emozione che
oggi vi parlo di Stefano Rosso: un cantautore purtroppo un po'
dimenticato ma che per il particolare insieme di ironia, cultura
musicale e per la varietà dei temi da lui trattati meriterebbe d'esser
riscoperto. Ed alla grande.
Le sue canzoni più note sono E
allora senti cosa fò e Una
storia disonesta: in effetti si
tratta di pezzi molto divertenti i cui ritornelli, scanzonati e naif,
sono entrati a far parte dell'ideale colonna sonora di una
generazione. Della mia,
certo: quella che a fine anni '70 aveva 16-17 anni e che adesso...
be', ne ha 34 in più. Che cosa volete che sia?
E
chi non ricorda quel refrain che faceva: “Che bello, con
la ragazza giusta e lo spinello”?
Secondo me la ricordiamo tutti/e noi. La ricordo perfino io che con
gli spinelli non ho mai avuto niente a che fare e con le ragazze, non
molto di più.
Ma benché
Stefano (Rosso è lo pseudonimo per “Rossi”) abbia avuto successo
appunto con pezzi come quelli citati, in lui esisteva anche una
profonda vena sociale e malinconica.
Del resto,
nel panorama di una canzone come quella della nostra d'Autore, molto
interessante ma (Guccini e Jannacci esclusi) anche un po' cupa, uno
come Rosso portava la classica ed indispensabile ventata d'aria
fresca.
Non
c'era quindi niente di male ad autoflagellarsi per es. sul problema
del tradimento subito: come Ste' fece in Allora senti cosa
fò. Tra l'altro con una suite
musicale finale che rimanda al
tabarin o ad atmosfere in qualche modo petroliniane.
Ma
quando ascolto o penso a Ste' risento immediatamente il suono delle
chitarre e la luce, il
sapore, ed i pensieri di quegli anni.
Sì, perché
allora non c'era praticamente piazza in cui non si sentisse suonare
qualche chitarra, delle armoniche e bongos o tamburi di vario tipo. A
Cagliari andava forte (oltre al Bastione di S. Remy) piazza Giovanni
XXIII, che era il punto di ritrovo di tante/i che vi confluivano per
suonare, parlare, scrivere, giocare, leggere, amoreggiare...
Sebbene
io non fossi un assiduo frequentatore di piazza Giovanni
(come la chiamiamo noi di
Cagliari) comunque la ricordo bene.
Soprattutto
ricordo l'atmosfera di
quegli anni, che Stefano ha saputo cogliere con occhio vigile,
umorismo ed anche con dolore: come in Bologna '77,
che parla della morte di Giorgiana Masi, rimasta uccisa durante
alcuni scontri con la polizia.
Un
pezzo poi come Il circo utilizza
l'immagine appunto del circo come metafora del Paese. In questo
“circo che sta in piazza” c'è posto per tutti: anche per chi
protesta, perché tanto: “Ci sono anche i leoni, ma che in
fondo sono buoni.”
Ma
quanto siano buoni,
questo (come tante altre
cose) “nessuno lo
sa.” E comunque: “Paga tutto certa gente...”
Altra
grande canzone è Libertà... e scusate se è poco,
dove vediamo come per Ste' (ma solo per lui?) questa libertà sia
diventata nel tempo qualcosa di sempre meno chiaro e reale.
Ed
ora Stefano pizzica le corde della sua chitarra come nel
fingerpicking di Letto 26,
si trova in una Via della scala un
po' diversa da quella della sua Trastevere, una via della scala piena
di nuvole, arpe ed altri grandi chitarristi. Senz'altro, Ste'.
Senz'altro.
P.s.:
mentre il post andava “in stampa” (avevo appena chiuso la mia
infallibile Bic), il mio pard Bruno
Manca mi ha segnalato il documentario su Ste': Stefano Rosso.
L'ultimo romano. Ne è Autore il cantautore Simone Avincola e...
be', è grande.
Partrop,
ormai il mio pezzo aveva una sua struttura che non avrei saputo
estendere o alterare, ma se volete capire che uomo e poeta fosse Ste'
(e la sua gente),
digitate “Simone Avincola” e trovate il docum. Gratis, poi!
Grazie di
nuovo a Bruno che con la sua poliedrica curiosità mi ha fornito
questa MUY preziosa informazione.
Ora
basta così o va a finire che questo post diventa il seguito
dell'Odissea e così
rompo le scatole a tutti quanti. Ma su Ste' ritornerò. Promesso.
mercoledì 30 ottobre 2013
La discussione filosofica (11/a parte)*
Ma questo modo di ragionare può
essere accusato appunto di oscurità,
forse anche di volontario inganno...
se non di vera e propria malafede.
Insomma, il rimedio può rivelarsi peggiore del male.
Infatti,
perché mai chi intenda filosofare quindi (secondo l'etimo) amare
la sapienza dovrebbe di fatto
evitare di farlo?
Non
si può infatti ammettere che un filosofo tenga egoisticamente la
verità o la sapienza per sé,
come se fosse un suo possesso personale, privato. A quel punto come
distinguere la verità dall'ignoranza e dall'errore?
Sarebbe
come se qualcuno dicesse alla persona amata: “Fidati, io ti amo
tantissimo. E' vero, non te lo dimostro mai, ma ti amo. Fidati: io
so che ti amo.”
Ma
a nessuno interessa un amore teorico.
Così, anche se sembrerà strano, neanche la filosofia può
permettersi d'essere solo teorica; insomma, non può né deve
permettersi il “lusso” di chiudersi in sé stessa e di non darsi
agli altri.
Quella
che per me è la visione più elevata della filosofia, espressa da
Platone nel mito della caverna1,
insegna che il sapere deve essere messo a disposizione di chi è
ancora vittima di false idee, verità parziali, illusioni ecc. Il
sapere, la verità, la conoscenza devono essere dunque con-divisi,
divisi con gli altri esseri umani.
Alla natura
stessa della filosofia ripugna il fatto che alcuni possano godere
della luce mentre altri rimarranno confinati per chissà quanto in un
mondo di inganni... più o meno frustranti, assurdi, derisori e
dolorosi.
La
filosofia non è quindi una qualche (ed a questo punto neanche
interessante né sensata)
disciplina pura, come
tale riservata a pochi “eletti” bensì qualcosa di sociale.
Essa,
infatti, nasce e vive in società e la sua dimensione naturale non
può che essere quella della discussione,
un qualcosa quindi che avviene tra uomini e donne in carne ed ossa...
Uomini e donne che talvolta avranno anche una conoscenza tecnica,
specifica, insomma specialistica del discorso filosofico... ma
non sempre, né questo è poi
fondamentale.
Ovviamente,
non deve mai mancare il rispetto per
chi appunto del discorso filosofico ha una conoscenza appunto
specifica, conoscenza che ha acquisito con lunghi, difficili anni di
studi e ricerche e che con la conoscenza di quel discorso
cerca di guadagnarsi il
pane... Peraltro non molto, a
dirla tutta!
Comunque,
poiché l'essere umano è animal rationale,
animale razionale, egli è condotto dalla sua stessa natura, dal suo
essere ad interrogarsi sui problemi della filosofia...
Problemi che non
sono poi altro che quelli della vita:
chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, che cosa possiamo
conoscere, che cosa siano il bene ed il male, che cosa sia e come sia
applicabile la giustizia, quale sia l'origine del mondo, il senso del
tempo, il valore dell'amore e dell'amicizia ecc.
Note
- * Ho pubblicato su questo blog le precedenti parti di questo post rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011; la 6/a il 15/11/2012; la 7/a l'8/12/2012.
Il riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il 21/02/2013.
Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013. - Ho pubblicato la 10/a il 5/10/2013
1
Platone, La repubblica, Fabbri Editori, Milano, 2000, VII,
p.242 sgg.
domenica 13 ottobre 2013
“La sfuriata di Bet”, di Christian Frascella
Ho scoperto questo romanzo
grazie alla libreria Bonardi di Amsterdam che organizza incontri e
presentazioni di libri italiani tradotti nella lingua locale. Essa
contribuisce così sia a diffondere la nostra letteratura sia a
combattere vari pregiudizi relativi al nostro Paese (terra solo di
mafia, scandali sessuali, O' sole mio
ecc.). Questa libreria invia (non solo a me!) delle e-mails
con cui aggiorna sulle sue attività.
Circa
La sfuriata
ero un po' dubbioso: non sarà, mi sono detto, il solito libro sugli
adolescenti... di solito rappresentati come brufolosi, eternamente
attaccati al pc, all'Ipod, all'Ipad, a facebook o ad altre diavolerie
e deliranti in uno slang intriso
di dialetto, italiano sgrammaticato, gergo televisivo e
pseudo-inglese?
Niente di
tutto questo.
Intanto,
Bet (Elisabetta) è ovviamente una ragazza del suo tempo: ma
all'interno di esso non vive come una ragazza ovvia.
E' imprevedibile, umorale, spesso sarcastica ma dirige il suo
sarcasmo anche verso sé stessa.
Sembra disillusa, quasi cinica: eppure si batte per difendere una
donna incinta dai modi direi troppo spicci di
un carabiniere, salva una donna anziana dallo sfratto, lotta con la
madre ed i colleghi che si trovano ad un passo del licenziamento.
La
classica ragazza impegnata ed inoltre immersa sia in letture sia in
ascolti musicali da combat rock?
Anche stavolta, domanda sbagliata. Inoltre lei odia i Doors, il
Siddharta di Herman
Hesse ecc. ecc.
Alla
soglia dei 18 anni vede tutto il marcio che dilaga nel nostro Paese
(e forse non solo nel nostro) come il maschilismo, lo sfruttamento
sul lavoro, il precariato, la fissazione per il “bel” corpo, il
carrierismo in politica, il culto del nozionismo ecc. Bet vede tutto
questo e lo dice;
senza girarci tanto attorno.
L'A.
ha il merito di non sovrapporsi a
Bet, insomma non la fa parlare come farebbe lui. Lei
parla come una 18enne di questi tempi, sia pure dotata di una forte
personalità: comunque non è lo stereotipo della
ragazza moderna.
Un altro grande merito
dell'Autore: ha fatto leggere il manoscritto alle ragazze ed ai ragazzi
dell'Istituto Giulio e del Liceo Gioberti di Torino che come scrive:
“Hanno avuto la pazienza di ricevermi in classe, profondendosi in
critiche attente e consigli fondamentali” (p.209).
Bene, la
Torino dipinta da Frascella più che la capitale italiana dell'auto è
una città molto cupa, talvolta caotica, flagellata dal vento e dal
gelo. Come in un'inquietante sensazione-(pre)visione di decadenza,
dai muri delle case trasudano umidità e presagi di sconfitta. Del
resto, disoccupazione e cassa integrazione sono realtà che si
respirano per strada ed attraversano i quartieri operai della città.
La
sfuriata che ad un
certo punto troveremo nel libro è già anticipata da frasi, pensieri
ed impressioni di Bet (che si considera responsabile della morte
della sorella) e che Frascella lascia fluttuare in modo libero ma mai
confuso.
In
un certo senso Bet è una dura, ma non va in giro a dimostrarlo. Non
ha troppe amiche né un ragazzo ma non fa la “carina” con
nessuno. Non ama lo studio ma la sua mente è in continua
ebollizione: e sempre su questioni alte...
anche se lei non sopporterebbe il termine.
Si
descrive così: “Penso che sono una ragazza del mio
tempo, e che non lo sono. Che abito nel mondo, e il mondo non mi
piace, e non mi sento adatta ad esso. E tra pochi mesi compirò
diciotto anni e finalmente potrò fare un sacco di cose che oggi non
ho proprio voglia di fare. Spero di volerle fare, però, spero di
sentirmi meglio, quel giorno, e di avere di nuovo dei desideri”
(p.188).
Molti di
questi pensieri non somigliano a quelli che avevamo anche noi...
quando sembrava che “i 18” ci avrebbero consegnato le chiavi del
mondo?
Poi “i 18”
arrivano, li superi anche di vari decenni e... be', in fondo è
sempre la stessa minestra: non puoi fare proprio quello che volevi o
quando lo fai, non ci provi più tanto gusto. Discorso complesso;
proseguiamo.
La
differenza tra Bet e noi diversamente 18enni consiste
forse in questo: noi avevamo dei desideri...
forse troppi? Chissà. Bet e molti suoi coetanei sperano di
averne. Del resto, sono capitati
in un mondo che non ispira troppa fiducia...
Ma
lei non si chiude in sé stessa o nella sua amarezza, perché diventa
consapevole del fatto che lei non è “il centro del
mondo. Sono”, dice, “un
pezzetto attaccato ad altri pezzetti e tutti insieme siamo
un corpo unico” (p.188. I corsivi sono miei).
Con
Bet l'A. ci ha regalato una figura di giovane donna che spero possa
smuovere un po' le acque della nostra … non sempre
entusiasmante letteratura. Grazie Christian, anche a nome di un
remotamente 18enne.
P.s.: grazie
anche alla signora Henrieke Herber per aver tradotto in neerlandese
(olandese) un testo non semplice come potrebbe (a prima vista)
sembrare.
Benché
non conosca la... tulipanica lingua, penso che la signora abbia fatto
sicuramente un ottimo lavoro. Nel mio blogroll trovate il link al suo
blog che è www.henriekeherber.nl
sabato 5 ottobre 2013
La discussione filosofica (parte 10/a)*
Da quanto
visto nella 9/a parte sembrerebbe che davvero l'arte e gli artisti
(soprattutto quelli che sentono e creano in modo molto
passionale) siano molto pericolosi per la filosofia. E per la
società. Sì, perché la loro fantasia ed anche il loro
fustigare sé stessi attraverso la propria creatività potrebbe
turbare delle comunità che considerano ben più importanti valori
come il self-control, la logica, la misura, la riservatezza ecc.
Ma in comunità
come quelle l'artista si sente soffocare. Per lui o per lei,
l'urlo è il solo valore, perché squarcia il velo di
una realtà che impedisce la reale crescita della persona, la sua
liberazione. Penso che tale “urlo” sia stato molto forte
soprattutto a partire dal romanticismo e dall'espressionismo, fino ad
arrivare nel '900 alla durezza del rock (Who, Rolling Stones, Janis
Joplin, Clash, Sex Pistols ecc.) e di certa canzone d'Autore (Phil
Ochs, Bob Dylan, Brel, Victor Jara, il Lennon post-Beatles, Billy
Bragg ecc.).
Tornando alla
parola scritta, considero migliori esponenti di questo porsi di
fronte alla società, il Rimbaud de Una stagione all'Inferno,
direi tutto Brecht, Bukowski, Pasolini né dimenticherei Artaud. Ora,
queste mie considerazioni hanno solo valore indicativo, ma penso che
il concetto-base sia chiaro: soprattutto se “viste” alla luce
dell'Urlo di Munch e di quello di Ginsberg.1
Certo, in
qualcuno anche questo modo di essere può diventare solo un
atteggiamento, un che di teatrale o comunque di non spontaneo;
ma è lì che si vede il vero artista.
Del resto, non
è molto chiara neanche la posizione del filosofo che voglia
denunciare gli “eccessi” dell'artista, filosofo che finora
abbiamo identificato in Platone. Infatti, la stessa Murdoch riconosce
che nei testi di Platone si trovano affermazioni argute e spiritose e
che il tono di questi è spesso amabile.2 La forma espressiva
utilizzata da Platone non era insomma severa quanto i concetti da lui
esposti e discussi, né quella forma condivideva sempre la condanna
platonica dell'arte; anzi spesso si direbbe proprio il contrario.
Inoltre, il
Koyrè ci ricorda come molti dei Dialoghi platonici potrebbero
essere intesi anche come dei testi teatrali e come tali,
debitamente rappresentati e rappresentabili; quel che poi,
nell'antichità si fece.3
Ed ai giorni
nostri, l'attore Gigi Proietti ha portato in scena proprio Socrate4:
riferendosi in qualche modo anche all'Apologia di Socrate,
testo in cui Platone diede libero sfogo alla sua natura artistica,
consegnando a generazioni di lettori un Socrate oltre che cercatore
di verità, spesso gigione ed anche irriverente, quasi tagliente coi
suoi accusatori e perfino coi giudici, se arrivò al punto di
dichiarare che non solo doveva essere assolto, ma che anzi aveva il
diritto d'esser mantenuto gratis a spese dello Stato!5
Dall'Apologia
emerge la figura di un uomo che non considera mai la virtù e la
giustizia questioni astrattamente teoriche, né uomo che rinunci alla
vita a cuor leggero. Infatti, egli si batte per la sua vita e per la
verità facendo ricorso a tutte le “astuzie” ed a tutti gli
argomenti in suo possesso senza temere di passare per retore o ancor
peggio, per commediante.
Insomma, anche
in Platone troviamo della duplicità: da una parte duro, quasi
implacabile nemico dell'arte e degli artisti, censore della loro
creatività e della loro stessa umanità.
Dall'altra, se
consideriamo l'attenzione da lui posta nella descrizione di
particolari situazioni, nell'uso di determinati termini, nel
delineare i tratti della personalità di certi interlocutori, nel
precisare certe situazioni, varietà delle conversazioni ecc.,
artista egli stesso.
Che avesse
ragione un grande conoscitore ed estimatore dei Greci come Nietzsche
quando scrisse: “Tutto ciò che è profondo ama la maschera”?6
Note
* Ho pubblicato su questo blog
le precedenti parti di questo post rispettivamente: la 1/a il 25
/03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a
l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011; la 6/a il 15/11/2012; la 7/a
l'8/12/2012.
Il riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il 21/02/2013.
Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013.
Il riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il 21/02/2013.
Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013.
1 Allen
Ginsberg, Urlo, in Id., Jukebox all'idrogeno (1956),
Mondadori, Milano, 1979, pp.102-137.
2 Iris
Murdoch, Il fuoco e il sole, Sugarco, Milano, 1977, p.101.
3 Alexandre
Koyrè, Introduzione a Platone, Editori Riuniti, Roma, 1996,
pp.6-8 e p.8 n.4.
4Intereressante
la lettura di
http://archiviostorico.corriere.it/2000/aprile/29/SOCRATE_scena_spirito_dell_uomo_co_0_0004291727.shtml
5 Platone,
Apologia di Socrate, Garzanti, Milano,1980, p.36.
6 Friedrich W.
Nietzsche, Al di là del bene e del male, Gte Newton, Roma, 1988,
p.72. Il corsivo è mio.
mercoledì 25 settembre 2013
“Saturday night” degli Eagles
Nel 1973 gli Eagles incisero a
Londra l'album Desperado. Desperado è un concept-album,
un disco cioè che si presenta non come una semplice raccolta di
canzoni bensì come una sorta di libro, di cui ogni canzone
rappresenta un capitolo. Il concept-album era molto diffuso negli
anni '60-'70. Forse, l'ultimo grande esempio di questo modo di fare
musica in ambito pop-rock è costituito da The Wall (1980)
dei Pink Floyd.
Desperado è un disco
di musica country e contiene un solo rock (peraltro bello
sanguigno): si tratta di Out
of the control.
Il
disco racconta la storia della banda Doolin'-Dalton, o comunque
quella di alcuni avventurieri: un po' banditi, un po' vagabondi ed
anche sognatori. Il tutto è ben sintetizzato da questi versi di
Outlaw man: “In
one hand I've a Bible, in the other I've got a gun,
in una mano ho una Bibbia, nell'altra ho una pistola.
Saturday night narra
la storia di un uomo che attraversa la classica epopea del West,
dagli anni eroici della frontiera a quelli del progresso; da noi
questo momento di transizione è stato sintetizzato dal film di
Sergio Leone C'era una volta il West. West
che forse era più complesso di
quel che crediamo...
Il
brano inizia col mandolino di Leadon e su un tempo che per me si
situa tra il valzer ed il blues (almeno come atmosfera).
Henley canta:
“Seems like a dream now, it
wasn't so long ago
the moon burned so bright and
the time went so slow,
and I swore that I loved her
and gave her ring”,
ora sembra
come un sogno, non era molto tempo fa
la luna
bruciava così luminosa ed il tempo passava così lento,
e io giuravo
che l'amavo e le davo un anello.
Qui abbiamo
una storia d'amore, indubbiamente. Ma l'amore dalle parti del West,
quel che conduce l'uomo a chiedersi:
“Whatever happened to
Saturday night
finding a sweetheart, and
holding her tight?”,
qualunque cosa
fosse successa il sabato sera
si trovava
un'innamorata e la si si stringeva forte?
L'”eroe”
non ne è tanto sicuro: probabilmente la vita da fuggiasco o da
bandito ti fa dubitare dei sentimenti ed anche dei ricordi. Del
resto, la vita dell'outlaw man,
del fuorilegge portava “qualunque cosa fosse successa di sabato
sera”, a “Choosing a friend, and a losing a fight:
scegliere un amico (o un'amica?) ed a perdere uno scontro, una rissa.
Tra l'amore,la violenza e l'amicizia poteva anche non esserci un
confine netto...
C'è
anche la domanda dell'innamorata: “Tell me, oh tell me,
was I all right?”, dimmi, oh
dimmi, stavo davvero bene? Forse, trascorsi alcuni anni dalla fine
della loro storia lei vuol essere ancora rassicurata sul suo fascino,
sulla sua bellezza... forse ormai svaniti, l'uno e l'altra.
Così come è
ormai svanito anche il loro amore, insieme al West che avevano
conosciuto da giovani... infatti
“The years brought the
railroad, it ran by my door
now there's boards on the
windows and dust on the floor”,
gli anni
portarono la ferrovia, passava davanti alla mia porta
ora ci sono
assi sulle finestre e polvere sul pavimento.
Il tempo ha
insomma sconfitto anche il desperado, l'outlaw che
magari era imbattibile con qualsiasi arma. Io immagino l'”eroe”
della canzone addirittura privo di un tetto, oltre che di una
donna... solo, ormai costretto a vagare per una terra che non
comprende e che non ha più bisogno di lui, condannato a vagare in
solitudine ed in amarezza.
Ma la donna
del brano è sempre presente, insieme a questa bruciante
consapevolezza:
“And she
passes the time by another man's side
and I pass
the time with my pride”,
lei passa il
suo tempo al fianco di un altro uomo
e io passo il
mio col mio orgoglio.
Finché l'uomo
constata sconsolato
“What a tangled web we weave,
che trama
complicata tessiamo.
Infatti spesso
i peggiori nemici dell'amore sono la gelosia ed appunto l'orgoglio;
beninteso, parlo di un orgoglio esagerato... che ci impedisce
d'apprezzare la persona amata e di essere almeno un po' indulgente
verso i suoi limiti, le sue debolezze ecc. Del resto, chi non ne ha?
Eppure
continuiamo a tessere una tela fatta di sospetti, malumori, false o
insensate aspettative, eccessiva vanità o indulgenza verso noi
stessi.
Intanto il
nostro tempo è passato o sta passando e da tutto ciò che cosa
abbiamo ricavato?
Perché
“qualunque cosa sia successa di sabato sera”, forse i
protagonisti della canzone continuano a vagare per i luoghi ormai
tanto cambiati della loro giovinezza. Come se fossero dei fantasmi..
sabato 14 settembre 2013
La discussione filosofica (parte nona)
La duplicità di
cui parla la Murdoch consiste nel fatto che per Platone l'Eros può
condurci verso la Bellezza, che è un preannuncio o una sorta di
anticipazione del Bene ed anche desiderio di esso. Inoltre l'Eros può
condurci alla conoscenza ed alla sapienza.1
Ma questo sarà possibile quando sapremo superare l'iniziale (nota bene: dal
punto di vista di Platone, anche desiderabile)
attrazione per la bellezza fisica e per i piaceri dei sensi.
Però
per Platone l'arte e l'artista hanno il potere di distoglierci
da così alti fini morali e
conoscitivi per condannarci ad un'esistenza illusoria, nemica quindi
del Bene e della filosofia e che inoltre, farebbe passare la stessa
filosofia per sterile chiacchiera o raffinato imbroglio.
Magari, in
questo l'artista si avvarrebbe della sua capacità di
raffigurare, distorcendoli, uomini e valori per piegarli a fini tutti
suoi; esemplare il caso di Socrate, pressoché ridicolizzato
da Aristofane ne Le nuvole.
Leggiamo
infatti nel Fedone questa affermazione appunto di
Socrate, che in attesa della morte dichiarò con grande
amarezza: “Ed io penso che non vi sarà nessuno che, ascoltandomi,
abbia ora il coraggio di dire (nemmeno se fosse un poeta comico) che
io sono un ciarlatano e che parlo di cose che non mi riguardano.”2
Ai nostri
giorni è tipico l'uso che del linguaggio fece Joyce nell'Ulisse
ed ancor più nel Finnegans Wake, romanzo che benché
accolto con favore da grandi letterati, critici ed intellettuali,
ridestò anche “accuse di follia, ciarlataneria, aberrazione.”3
Secondo poi
la bella ed inquietante definizione fornita dal Journet,
l'ultima opera di Joyce può essere altresì intesa come un
“ricomporre” e “confondere il tempo, la storia, il linguaggio
degli uomini per riportare, come è stato detto, la suprema vittoria,
quella dello scrivano che detronizza Dio.”4
E per la
Murdoch, che qui si rivela indubbiamente chiara e fedele interprete
di Platone, lo stesso humour dell'artista conterrebbe qualcosa di
intrinsecamente sbagliato, se non una “sottile insincerità.”5
Qualcosa
insomma di malato, un odio verso sé stessi (oltre che
verso gli altri), un rifiuto di prendere sul serio la vita, i doveri
ed i legami che come esseri umani abbiamo verso la società, una
sorta quasi di voluttà di auto-umiliazione e di annullamento.
E questa è
una linea che sembrerebbe collegare certe affermazioni dei Ricordi
dal sottosuolo di Dostoevskij al Lamento di Portnoy di
Philip Roth, in cui lo humour del protagonista appunto del Lamento
è considerato non “forma classica di humour ebreo” bensì
(come dice un'interlocutrice concupita dal famelico Portnoy) qualcosa
che ha a che fare col “Ghetto”: quindi con uno dei momenti di
maggior umiliazione del popolo ebraico. Dunque
“l'auto-deprecazione” a cui Portnoy indulge sarebbe non fonte di
vera o “sana” arte ma anzi fenomeno altamente negativo.6
Del resto,
mi pare che qui (ebraismo a parte, poiché Dostoevskij apparteneva al
mondo slavo ed ortodosso) l'Autore dei Ricordi possa essere
considerato una sorta di padre spirituale di Portnoy... dotato se non
di maggior sensualità, almeno di pari furore. Egli si
crogiola inoltre nelle proprie imperfezioni morali e nei suoi dubbi
intellettuali in modo davvero degno di nota.
Infatti nei
Ricordi il personaggio che conosciamo solo col nome di
“Io” fantastica su suoi immaginari interlocutori, che parlando
di lui pensa che possano dire: “Assicurate d'aver la bava alla
bocca, e nel medesimo tempo dite spiritosaggini per farci ridere.
Sapete bene che codeste vostre spiritosaggini non sono affatto
spiritose, ma è evidente che siete assai soddisfatto del loro merito
letterario. Vi sarà forse capitato davvero di soffrire, ma non avete
il menomo rispetto per la vostra propria sofferenza.”7
Note
1
Platone, Convivio, Garzanti, Milano, 1980, XXVIII, pp.
241-242.
2 Platone,
Fedone, Garzanti, Milano, 1980, XIV, p.93; cfr. anche Ibid.,
p.93 n.20 dove questa affermazione di Socrate è
considerata appunto una “amara illusione ai poeti comici del suo
tempo e ad Aristofane, il grande commediografo, che nelle Nuvole
si fa beffe di lui descrivendolo come un perdigiorno.”
3 Nemi
D'Agostino, in James Joyce, Gente di Dublino, Garzanti, Milano,
1986, pp.XXIV-XXV.
4 Charles
Journet, Il male. Saggio teologico, Borla, Torino, 1963, p.241.
5 Iris
Murdoch, Il fuoco e il sole, Sugarco, Milano, 1977, p.101.
6 Philip
Roth, Lamento di Portnoy, Bompiani, Milano, 1988, pp. 293-301.
7 Fedor
Michailovic Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, Bur, Milano,
1984, pp.59-60.
sabato 17 agosto 2013
La pancetta ed altre strane delizie
Chi legga questo blog o
anche chi abbia letto qualcuno dei miei libri, avrà capito che non
sono molto razionale. Certo, non entro dalla finestra quando posso
entrare dalla porta né mi faccio il caffè con chiodi ed acido
muriatico.
Eccetera nonché
eccetera.
Però perfino a me, che
adotto il motto di Dylan: “Accetto il caos, non so se il caos
accetti me”, bene, perfino a me capitano delle cose che trovo
strane.
Adesso mi spiego.
A me piacciono molto i
salumi o affettati che dir si
voglia.
Direte:
e che cosa c'è di male, sono buonissimi!
Verissimo.
Ma
da un po' di tempo, diciamo pure da qualche anno, ho scoperto la
pancetta magra; ma mi
piace anche quella grassa.
Seguitemi perché non si tratta di una distinzione da poco.
Insomma,
non dico che Kant ed Aristotele si sarebbero mai presi a mattarellate
in testa per una distinzione come questa, ma sta di fatto che un tipo
di pancetta è magro;
l'altro, invece, è grasso.
Che cosa volete farci, viviamo in un universo imperfetto... per non
parlare della galassia!
Bene,
un giorno vado (come diceva scherzosamente mio padre) al markèt.
Punto, come un'aquila che cerchi d'artigliarsi un agnello, verso il
reparto salumeria. Fisso il salumiere ed omaggiando Clint Eastwood
mormoro: “Due etti di pancetta magra, gringo...”
“No, i Ringo sono
di là, dove ci sono i dolciumi.”
Buonanotte!
Rovinato l'effetto cinematografico! Ci saranno mai giustizia e
bellezza, per me, a questo mondo? Ma quel benedetto salumiere,
intendo il signor Basilio Crobeddu, non sa che sto pensando da 2 anni
di scrivere per il cinema? Per carità: una bravissima persona, il
buon Crobeddu; ma non può frustrare le mie ambizioni artistiche,
nonché hollywoodiane.
“Qui
non ne vendiamo, di fruste.
Però se va all'ippodromo magari una gliela prestano. Solo che deve
riportarla prima che inizino le corse: ai fantini, la frusta, serve.”
“E
gli speroni no?”
“Gli
spiedoni? Forse lei
sta cercando gli spiedini,
quelli alla carne ed
ai peperoni... Comunque le serve anche qualcos'altro, signor
Occheddu?”
“Uccheddu.
Mi chiamo Uccheddu.”
Che
mi storpino il cognome “in continente” (come diciamo noi sardi)
passi; ma che lo rovinino nella mia città...
“Va
bene, signor Uccheddu. Desiderava?”
“Due
etti di pancetta magra.”
“Benissimo”, disse lui armeggiando con qualcosa, “però non gliela consiglio
perché questa pancetta magra è grassa.”
Sì,
avete letto bene: quel tipo si era contraddetto totalmente nel giro
di 3 secondi e nello spazio di 1-2 parole.
Io:
“Scusi, ma la pancetta magra è magra; altrimenti sarebbe grassa.”
“E'
quello che ho detto, no?”
Io:
“No. Lei ha detto che quella pancetta magra è grassa. Insomma, non
è magra: è grassa.”
Lui:
“Appunto, è grassa.”
Io:
“Ma allora perché non dice direttamente che ha solo della pancetta
grassa?”
Il
signor Basilio mi guardò in uno strano modo: un modo superiore,
distaccato, arcangelico. Poi l'arcangelo dal grembiule unto d'olio,
spezie, vino e salumi vari iniziò a parlare... e col suo magico
eloquio, magicamente mi fece scivolare in mano 2 etti di quella
pancetta... che si rivelò ottima.
Solo
che secondo me, il signor Basilio mi aveva venduto della pancetta
grassa che però era magra.
Insomma: io (pur essendomi fatto fregare) avevo fregato lui. Almeno
questo me lo concederete!
sabato 10 agosto 2013
La chiamano crisi (4/a ed ultima parte)
D'altronde, già nel
gennaio 2013 il Fmi aveva candidamente fatto, per bocca del capo
economista” appunto del Fondo
Monetario Internazionale “, quello che il Washington Post
aveva definito “uno
stupefacente mea
culpa.”1
Eccolo,
il mea culpa: uno studio “appena pubblicato dal Fmi riconosce che i
piani di austerità proposti, o meglio imposti, a mezza Europa negli
ultimi anni sono un danno per l'economia e l'occupazione.
Peggio ancora, non funzioneranno nemmeno
per rimettere a posto i conti pubblici, ovvero per diminuire
il famigerato rapporto tra debito pubblico e
Pil, vero e proprio faro che guida le scelte politiche di tutti i
Paesi occidentali.”2
A
quel punto che cosa dovrebbe fare la famosa trojka? Il buon senso
consiglia questo: chi capisce d'aver sbagliato per anni,
chiede scusa ed annulla certe misure. E magari (perché no?) sborsa
anche qualcosa...
Insomma:
anziché continuare a tagliare, rilancia una politica di investimenti
ed assunzioni, favorisce l'innovazione tecnologica, potenzia sanità,
scuola ed università, vara il rilancio di infrastrutture ed il
recupero o la valorizzazione del patrimonio storico, artistico ed
architettonico, riqualifica i lavoratori, si occupa di bonifica di
aree industriali dismesse e/o inquinanti ecc.
O
almeno, la famosa trojka (che insieme alle non meno famose agenzie di
rating) tratta i vari governi come altrettanti burattini, non
dovrebbe impedire tutto questo.
Invece
va avanti come prima. Ci dice che ci sta strappando la pelle e
bevendo il sangue e che tutto questo comunque non servirà
a niente, ma si deve continuare
a farlo. Non ci sarebbe nessuna alternativa, insomma.
Il
che, come teme la Ilo (International
labour organisation, organizzazione industriale del lavoro) potrà
condurre ad “atti di violenza.”3
Ciò è in fondo abbastanza chiaro e rischia anzi di diventare
inevitabile, benché non possa essere considerata la strada giusta.
Così, Antonio Gramsci aveva detto davvero bene quando già nell'aprile del
1917, in una situazione quindi certo molto lontana nel tempo ma per
drammaticità molto simile all'attuale, scriveva che per provvedere
“adeguatamente” ai bisogni di una nazione, è necessario potersi
rappresentare concretamente gli uomini “in quanto vivono, in
quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i
loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere.”4
Aggiungeva
Gramsci che in caso contrario “non si possono intuire i
provvedimenti generali e particolari che armonizzino le necessità
della vita con le disponibilità dello Stato. Si
scaglia
un'azione nella vita: bisogna saper prevedere la reazione
che
essa sveglierà, i contraccolpi
che
essa avrà.”5
Superfluo dire che anche oggi, chi prende o dovrebbe prendere certi
“provvedimenti” non sa nulla della durezza della vita che tocca
alla gente comune, ai malati, agli anziani, ai precari, ai
disoccupati, agli immigrati ecc.
Sempre
più abbiamo la percezione, a dir poco inquietante, che certe “autorità”
non abbiano proprio niente di autorevole e che anzi scimmiottino la maggior
parte dei signori e dei teologi del Medioevo, tutti persi come erano
in una loro idea di
ordine,
di perfezione
e di bene...
Ordine, perfezione e bene che non costavano loro nulla, vuote o comode astrazioni
sulle quali potevano tranquillamente meditare all'ombra dei chiostri
e dei castelli, peraltro custoditi da un sistema religioso, sociale,
legale e militare che faceva della loro vita un Paradiso e della vita
di tutti gli altri un vero Inferno.
Del
resto, come scriveva S. Agostino: “Senza giustizia che cosa sono
gli Stati se non grandi associazioni
di
delinquenti?”6
Note
1
Andrea Baranes, Il Fmi: Sorry, abbiamo sbagliato,
ne Il manifesto, 10/01/2013, p.4.
Il corsivo è mio.
2
A. Baranes, Il Fmi: Sorry, abbiamo sbagliato, art. cit. I
corsivi sono miei.
3 Cfr. http://italiadallestero.info/archives/15388
Questo è del resto il parere anche del presidente di Confindustria
Giorgio Squinzi; cfr. Il manifesto, 11/04/2013, pp.
1 e 6.
Appare in effetti evidente come l'escalation di
suicidi e/o omicidi rischi decisamente di non poter esser bloccata
quando non si intervenga seriamente sulle cause degli
atti in questione.
Per
i drammatici dati relativi ai suicidi nel nostro Paese cfr. g. m., Il prezzo della crisi: 8 suicidi al mese, in http://www.controlacrisi.org/notizia/Conflitti/2013/8/9/36071-il-prezzo-della-crisi-8-suicidi-al-mese-il-63-per-motivi/, 9/08/2013.
4
Antonio Gramsci, Politici inetti (Una verità che sembra un
paradosso), in A. Gramsci, Odio
gli indifferenti, Chiarelettere, 2011, p.7.
5
A. Gramsci, Politici inetti, art. cit., p.7.
I corsivi sono miei.
S.
Agostino, La città di Dio, Edizioni Paoline, Roma, 1979,
4,IV, p.215.
Il corsivo è mio.
domenica 14 luglio 2013
“Risveglio”, canto dei Nativi Algonkin Chippewa
Risveglio (in 49
Canti degli Indiani, Mondadori, Milano, 1997, pp.32-33) è
un canto dei Nativi (indiani, pellerossa) Algonkin Chippewa.
Il
canto in questione consta d'appena 31 versi... del resto, io penso
che un canto d'amore non
debba essere troppo lungo. Soprattutto non deve essere lungo un
canto, che deve farsi
ascoltare e non può bombardare chi ascolta con una grandinata di
immagini... che possono essere molto belle prese singolarmente, ma
tutte insieme rischiano di infastidire l'ascoltatore.
Risveglio è
invece per me un canto perfetto per misura:
contiene molte immagini e diverse metafore, tutte comunque tra loro
collegate come le perline di una collana: non se ne trova una
di troppo e tutte collaborano o
si collegano nello stesso “progetto”... in quella collana o amore
che dir si voglia.
L'innamorato
invita l'amata a svegliarsi e tra le immagini che mi hanno colpito di
più c'è questa, “cielo che cammina.”
Infatti,
per chi ama, la donna amata è davvero un cielo:
qualcosa cioè che vuole assolutamente raggiungere, una realtà in
cui desidera volare fino a perdersi ed in essa riposare.
E
quel che è ancora più bello, è che questo amante sa che il “cielo”
che ama, cammina... e cammina con lui.
Non si tratta di una bellezza fredda o indifferente, infatti il canto
termina così: “Svegliati, amore, svegliati!”
Quella
donna vive e dorme con lui, è quindi un cielo che gli appartiene,
che divide con l'amato il suo tempo... la sua-loro vita,
insomma; perché l'amore porta ad intendere il tempo dell'uno anche
come tempo dell'altra e viceversa. Una stessa cosa,
insomma.
Risveglio dipinge
più che un fiero guerriero, un uomo innamorato ma anche preda
dell'ansia e della pena d'amore: perché non di rado l'amore è anche
dolore...
Infatti
egli dice: “Quando mi guardi io sono felice
come un fiore che beve
la rugiada”,
ma
dopo alcuni versi aggiunge: “Quando
mi guardi severa
nero
mi si fa il cuore,
come
un fiume abbagliante
che
nubi di pioggia oscurano.”
In
amore l'incostanza o anche i problemi che possono nascere causano
sofferenza e ci sembra che chi amiamo non sia più quella persona
dolce ed a noi vicina, quella persona che col calore del suo cuore
contribuiva a tanta parte della nostra felicità. In quei frangenti
l'amata ci sembra un giudice o comunque una persona fredda, distante,
quasi nemica.
Notate
poi come in Risveglio
si
trovino due “quando”: uno positivo, il momento in cui lo sguardo
dell'amata rende felici; uno negativo, che coincide con la severità
dello
sguardo. Si tratta sempre di sguardi,
ma che appartengono a tempi o a stagioni
diverse
dell'amore... una realtà che non è statica bensì in continua
evoluzione.
“Se
mi sorridi, ecco che torna il sole,
e
sono un'increspatura
disegnata
sul viso dello stagno.”
Infatti
in amore vogliamo anche essere rassicurati, mentre proprio
l'insicurezza e l'oscillazione del sentimento ci fanno soffrire:
questo perché nella persona amata cerchiamo qualcuno che ci salvi
dalla nostra solitudine, dal sentirci insoddisfatti, privi di una
meta, spezzati
dentro,
come sconfitti in partenza.
Così,
l'amore deve avere una base
stabile:
un amore incostante o su cui si debba essere rassicurati di continuo,
be'... aumenta
la
nostra solitudine, il nostro dolore.
Risveglio
racchiude
anche immagini di una sensualità gioiosa, giocosa, animata da un
forte entusiasmo.
Non
vedi il fiotto rosso del mio sangue
correrti
incontro
come
un torrente nel fitto della macchia
in
una notte magica di luna?”
Qui
parlo di sensualità in senso davvero lato:
qui non si descrive solo il desiderio dell'atto sessuale né la sua
attuazione bensì il tormento nel desiderare un'unione con la donna
ad un livello più pieno possibile.
E' come se l'amante dicesse: non vedi che
sono davanti a te con tutto me stesso e
senza nessuna remora né vergogna, non vedi che
ho abbattuto tutte le mie stupide difese, i blocchi, le paure e la
falsa forza?
E riecco il “rosso”, simbolo di vita, quando lui canta:
“Guardami,
guarda
il rosso tamburo del mio cuore.”
In
questo che io intendo come un denudarsi
(ma come visto prima, ciò avviene al livello più
pieno)
solo in questo
può
avvenire un'autentica
unione.
E
per me, il grande merito di Risveglio
consiste nell'aver
descritto tutto questo in modo molto immediato e profondo; il che a
molta poesia d'amore non riesce spesso.
Per
esempio, sull'argomento amore sono molto immediati anche i versi del
blues,
ma è come se il bluesman temesse di risultare mieloso o banale:
allora ecco che punta tutto sulla forza
delle sue immagini...
che beninteso, possono anche dipanarsi sul filo di una certa ironia e
di un “codice” segreto, tutto giocato tra lui e chi ascolta.
Concludo
con questi versi, sempre da Risveglio:
“Ride
la terra, il cielo assieme a lei:
io
non ricordo più come si ride
se
non mi sei vicina.”
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