I commenti sono ovviamente graditi. Per leggerli cliccate sul titolo dell'articolo(post) di vostro interesse. Per scrivere(postare,pubblicare) un commento relativo all'articolo cliccate sulla voce commenti in calce al medesimo. Per un messaggio generico o un saluto al volo firmate il libro degli ospiti (guest book) dove sarete benvenuti. Buona lettura



martedì 24 dicembre 2013

Rock-blues natalizio


Probabilmente questa crisi è la peggiore dalla fine della guerra. Per quello che vale, su questo blog me ne sono occupato nei post da me intitolati La chiamano crisi. Del resto, aumenta sempre più il numero delle persone che fruga nei bidoni della spazzatura!
Io penso che dica bene l'economista Vladimiro Giacchè: una crisi causata dalle banche, dagli speculatori e minimizzata da “esperti”, Grandi sacerdoti del dio mercato e politici complici, è stata scaricata sulle spalle di lavoratori, precari, disoccupati, anziani, malati, immigrati ecc.
Ma da questa crisi si dovrà uscire e certo non si potrà pretendere che per citare un'espressione utilizzata da alcuni vescovi che tempo fa appoggiarono delle lotte operaie, “la collera dei poveri” possa evitare di scoppiare ancora per molto.
Il Natale: se ci pensassimo bene, vedremmo che il suo spirito dovrebbe essere di solidarietà e di giustizia. Uno spirito quindi sociale, non dolciario. Nella grotta di Cristo non c'erano panettoni e spumanti ma fame e gelo; la Palestina non era percorsa da festanti Babbi Natali ma battuta da duri reparti di fanteria e di cavalleria di un esercito di occupazione.
E potrei continuare parlando oggi di alluvioni, terremoti, guerre, licenziamenti, suicidi ecc. Ma il filosofo Ernst Bloch invitava non ad un ottuso ottimismo bensì al dovere di non cedere al discutibile “lusso” del pessimismo. Un pessimismo che non cambia niente ma anzi continua a farci vivere “una vita da cani.”
Ognuno guarderà in sé stesso ed in sé stesso vedrà del bello e del brutto: entrambi i lati serviranno a farlo ripartire.
Varrà poco, ma nel 2013 ho finito di scrivere un altro romanzo ed ora che purtroppo la mia casa editrice (“La Riflessione”) ha chiuso, presto ne cercherò un'altra.
Dopo molti mesi ho ripreso a correre.
Dopo qualche anno ho ripreso in mano dei lavori di filosofia che terminerò.
Ho pubblicato più spesso sul blog.
Dulcis in fundo, dopo quasi 2 anni sono stato richiamato da una scuola.
Insomma, non è certo il migliore dei mondi possibili (Leibniz, a cuccia!) né io sono il migliore dei Riccardi possibili, ma come scriveva Gramsci, una volta un uomo era caduto in un fosso. Chiamava aiuto, chiamava e chiamava ma non lo aiutava nessuno... finché lui si tirò su sulle sue braccia e sulle sue gambe.
Così uscì dal fosso, riprendendo a camminare e levandosi di dosso tutta la sporcizia in cui purtroppo era finito.

Buon Natale, buon anno e facciamoci forza. Ma nello stesso tempo, mentre usciamo dal fosso cerchiamo di tirar fuori anche qualcun altro; almeno proviamoci: perché insieme si cammina meglio.    

mercoledì 18 dicembre 2013

“Non siamo angeli”, di Neil Jordan


Questa bella commedia di Neil Jordan ha come protagonisti un trio piuttosto insolito, o inedito: Robert De Niro, Sean Penn e Demi Moore.
De Niro (Ned) e Penn (Jim) sono due evasi. Ma evadono (con un condannato alla sedia elettrica) loro malgrado. Ned e Jim non sono dei grandi criminali ma durante la fuga, il condannato uccide delle guardie: il che complica le cose...
La vicenda si svolge al confine tra gli Stati Uniti ed il Canada. Siamo nel 1935 quindi tutta la storia, se pensiamo che il crack di Wall Street avvenne nel 1929, ha abbastanza a che fare con la Grande Depressione.

La cittadina in cui capitano i nostri improbabili eroi è molto lontana dallo sfarzo e dalla spensieratezza di Beverly Hills, della California o della Florida, manca della vita che si può trovare a New York o a Los Angeles.
Si tratta di una città umile, in cui si lavora duramente e la vita che in essa si conduce non offre troppi svaghi o soddisfazioni.
La stessa Molly (Demi Moore) è una donna che cerca di tirare avanti come può; oltretutto, con una bambina molto malata per le cui cure non sa proprio a che santo votarsi. Così, per Molly il solo “rimedio” praticabile sembra essere la prostituzione.
La Moore rende Molly in modo molto convincente. Giustamente, lei è animata da fiero sdegno per i discorsi sulla bontà di Dio a cui chiede invano la guarigione della sua piccola. Inoltre, Molly prova disgusto per l'ipocrisia di quanti vorrebbero andare (o ci vanno senz'altro) a letto con lei. E magari, sono uomini di legge o di Chiesa...
Molto convincente anche Penn, spaventato dalla caccia all'uomo scatenata dalla polizia con gran dispiego di uomini, armi, cani ecc. ecc. e nello stesso tempo, confusamente attratto dal mondo religioso in cui lui e Ned si imbattono... quando trovano rifugio in un monastero.
Sia Penn che De Niro sono perfetti nella parte (conierò questa definizione) di santi casuali, ma secondo me lo è soprattutto Penn. De Niro? Forse esagera con le smorfie, rivelandosi in qualche caso un po' fastidioso; ma nel complesso, Robertino è stato bravo anche in questo film.
Il titolo del film si spiega con (lettera agli) Ebrei, 13, 1-2 che i due trovano ad un crocicchio: “Perseverate nell'amore fraterno. Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo.”
Così, i 2 troveranno ospitalità in un monastero nel quale, per un provvidenziale equivoco erano attesi in qualità di teologi! Naturalmente a tale equivoco si aggrappano come ad un'insperata ancora di salvezza...
Il film colpisce per il misto di grazia, umorismo ed (anche) sottile satira contro la figura ed il mondo appunto dei teologi.
Per esempio, durante la fuga Ned e Jim si liberano dei loro panni di carcerati, sostituendoli con delle camicie che trovano stese ad asciugare in un cortile. Ma Jim scorda di togliere dalla sua tutte le mollette cui ne rimane attaccata una. Un grande estimatore dei “suoi” scritti teologici gli chiede il perché.
E lui, solenne: “Mi ricorda che in qualsiasi momento possiamo essere presi e portati via.”
Il dotto frate accoglie la spiegazione con devozione, tanto che applicherà una molletta anche alla sua tonaca!
Sarebbe stato facile, in un film come questo, cedere al facile gusto per il piccante, inducendo i due finti teologi ai piaceri della “carne”, ma Jordan ha resistito a tale gusto. Insomma, con Non siamo angeli egli ha realizzato un film godibile e (se pensiamo ad una “predica” di Jim) in fondo anche profondo; comunque, non certo banale.
Non so se il film abbia avuto successo, tuttavia fa compagnia per circa un'ora e mezzo e che dire? Presenta anche dei momenti di suspence: le fasi in cui la polizia bracca i 2, a me hanno creato qualche momento d'ansia. Davvero un bel film!   

venerdì 13 dicembre 2013

La discussione filosofica (riepilogo)*


Sintesi delle parti comprese dall'8/a all'11/a parte, più alcune nuove considerazioni.
Nell'8/a abbiamo visto che Platone considerava l'arte in modo estremamente negativo... per lui essa era inutile ed ingannatrice sul piano filosofico e pervertitrice su quello morale.
Accettando queste tesi di Platone, risulta evidente che il dialogo tra l'artista ed il filosofo risulta impossibile o almeno, fortemente problematico.
Nella 9/a parte ho proseguito l'analisi della condanna dell'arte pronunciata da Platone.
Abbiamo poi visto che alcuni artisti hanno dato alle loro creazioni carattere non di semplice gioco (sia pure notevolmente raffinato e complesso) ma soprattutto di ricerca e di autoanalisi.
In Joyce troviamo addirittura la creazione di dimensioni del tutto alternative a quelle del normale continuum spazio-temporale. In lui, infatti, il linguaggio diventa vero e proprio strumento creatore... e creatore di una realtà che si contrappone nettamente a quella del resto dell'umanità.
L'aspro umorismo del Portnoy di Philip Roth e del Dostoevskij dei Ricordi dal sottosuolo si pone come elemento di auto-fustigazione: si situa quindi ben al di fuori di qualsiasi discorso comico e perfino satirico.
Nella 10/a parte abbiamo visto come il modo di essere e di sentire degli artisti nasca come reazione ad una struttura sociale e ad un complesso di norme che essi trovano opprimente, soffocante. Perciò le creazioni artistiche sono direttamente collegate a queste loro reazioni; esse rispecchiano il cuore appunto dell'artista anche in quelli che potrebbero, banalmente o moralisticamente, sembrare “volgari” o “violenti” eccessi.
Naturalmente il vero artista irradia un'aura oltre che di creatività anche di sincerità. Ed egli è “volgare”, “violento”, “folle” ecc. non perché debba o voglia interpretare un ruolo (anche se i commedianti esisteranno sempre) ma perché appunto esprime sé stesso senza cedere a censure o a limitazioni di sorta. Del resto, l'artista non cede neanche all'autocensura … che pure molte volte potrebbe fargli comodo.
Sempre nella 10/a parte evidenziavo come perfino in un severo censore dell'arte come Platone si annidasse della duplicità: nel suo modo di scrivere, infatti, egli “tradiva” una forse inconscia ammirazione per l'ambito e per le persone che condannava. In effetti, lo stile letterario e certa capacità introspettiva rivelerebbero in Platone doti artistiche...
Nell'11/a parte sottolineavo quella che io considero (partendo proprio dal “mito della caverna” di Platone) la sola e vera natura della filosofia: una natura cioè sociale, come tale aperta a tutti gli uomini, a tutte le donne. Io considero infatti la filosofia non come una sorta di codice per iniziati, insomma una misteriosa disciplina segreta, astratta ed incomprensibile, ma anzi qualcosa che riguarda ogni essere umano.
Questa idea della filosofia si fonda sul fatto che essa nasce dai desideri e dai sentimenti di uomini e donne in carne ed ossa e dotati della facoltà razionale. Essi hanno quindi tutto il diritto di interrogare sé stessi e di confrontarsi con chiunque su qualsiasi lato o aspetto dell'esistenza.
In filosofia possono insomma esistere dei grandi filosofi ed in effetti, ne sono esistiti molti. Ma nessuno, per quanto grande possa essere la sua conoscenza appunto del discorso filosofico, può impedire o negare ad un altro l'esercizio della propria ragione. E la filosofia, in fondo, non è altro che questo: ragionare (come dice il popolo) con la propria testa, sebbene senza mancare mai di rispetto a chi nel ragionare può aver fatto più strada di noi.


Nota

* Ho pubblicato su questo blog le precedenti parti di questo post rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011; la 6/a il 15/11/2012; la 7/a l'8/12/2012.
Il riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il 21/02/2013.
Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013; la 10/a il 5/10/2013 e l'11/a il 30/10/2013.


giovedì 21 novembre 2013

“Letto 26”, di Stefano Rosso


Si tratta di una delle più belle canzoni di Stefano. Il brano è autobiografico e secondo me molto visivo: ascoltandolo, a me sembra di di veder scorrere persone, case, auto, gatti, fasi della giornata... mi sembra di sentire suoni, rumori, gusto atmosfere chiare, nette eppure indefinibili.
Nel pezzo lui ricorda una degenza in ospedale, forse quando era bambino e nomina Via della Scala, la via di Trastevere in cui visse e crebbe.
Dal documentario di Simone Avincola Stefano Rosso. L'ultimo romano risulta come Ste' sia stato soprattutto un trasteverino verace, un uomo quindi che apparteneva ad un mondo (quello appunto di Trastevere) davvero a parte. Ed il documentario di Simone ha il notevole merito di evidenziare come egli appartenesse totalmente a quel mondo: scanzonato, irriverente, popolare e che considera l'amicizia valore primario.
Letto 26, fedele poi a certi miti che esistono in ogni rione popolare, presenta anche dei personaggi come Biancaneve che: “
E' ancora là
è un po' invecchiata ma che fa
le mele non le mangia più
forse i ragazzi giù del bar.”
Si ignora chi sia questa “Biancaneve” ma a me fa pensare ad una che faceva la vita , magari occasionalmente.
Del resto, forse Biancaneve era anche uno dei fumetti porno-soft che trovavamo dal barbiere quando eravamo ragazzi... o pischelli, come mi pare che si dica a Roma. Da parte di Ste' si tratta qui di citazione, strizzata d'occhio o di semplice ricordo d'adolescenza? Chissà. Ma forse, stabilirlo non è tanto importante.
Penso che con la 2/a strofa e con Biancaneve ci troviamo attorno ai primi anni '50 (“La guerra già non c'era più/ e poi non c'eri neanche tu”).
Arriviamo alla scuola ed come si doveva andarci: con decenza e rispetto, come si diceva dalle mie parti. Il che significava: “La brillantina e via così.”
Io ricordo la Brillantina Linetti che mia padre mi spalmava sulla testolina. Quando la giornata scaldava, la Linetti ti si seccava in testa diventando una specie... non so, di crosta. Però era profumata e teneva i capelli in ordine; sembravo un bambino prussiano ma quasi quasi me la ricompro...
Vabbe', il piccolo Ste' cresce e sente attorno a sé attorno a sé il disprezzo per la cultura:
Diceva non ti serve a niente
la scuola non ti servirà
e invece io tra quella gente
capivo un po' di verità.”
Ecco, questo è un aspetto di Rosso che forse è stato poco indagato: il rapporto con la cultura. Nel documentario citato, un amico dichiara che benché Ste' fosse un vero gatto di strada (in Letto 26 si parla apertamente di alcol, donne e marijuana) comunque studiava parecchio.
Del resto in Compleanno canta: “E con gli amici adesso a casa mia si parla spesso di filosofia.” Addirittura, una sua canzone si intitola Metempsicosi: la credenza nella reincarnazione o trasmigrazione delle anime. In Metempsicosi troviamo poi dei riferimenti (sebbene scherzosi) a Platone ed a Plotino. E forse, potremmo continuare.
Tornando a Letto 26, nella penultima strofa il Nostro fa un bilancio della sua vita:
Ho conosciuto tante donne
cattive, oneste, senza età
a tutte ho dato un po' qualcosa
con tanta generosità
a lei, mia madre, i dispiaceri
mentre a mia moglie dei bambini
al primo amore i sentimenti
i baci e l'acne giovanile.”
Ma in questo bilancio il riferimento alle donne non ha niente di macho: è invece molto rispettoso e sincero. Ste' dice d'averle “conosciute”: non gli interessa vantarsi d'esser stato un latin lover; sottolinea anzi come con le donne abbia cercato un contatto più pieno, più vero.
A fine canzone il ragazzo è ormai un uomo... ha attraversato il dopoguerra, vissuto gli anni della lotta politica, raggiunto una certa notorietà (che ingiustamente perderà presto), è diventato padre e marito, ha sofferto e fatto soffrire... ma sembra che si guardi ancora attorno con un misto di divertimento , curiosità ed inquietudine.
Ma sia detto senza false e stupide modestie, questo articoletto non rende un gran servizio a lui ed a Letto 26. Perciò ascoltatela: anche molte volte. Le corde di quella chitarra pizzicate come faceva lui e la sua voce dolente ed insieme appassionata danno sensazioni che toccano e scavano. Molto. Moltissimo.

sabato 16 novembre 2013

La discussione filosofica (12/a parte)*


Stando ad Aristotele, negli esseri umani questo interrogarsi nasce da quel che egli chiama thaumazein1, che significa sia “provare meraviglia” che “turbamento.” L'uomo, di fronte allo spettacolo meraviglioso ma anche terribile della natura, prova quanto detto poc'anzi. E da quel momento comincia ad interrogarsi, il che lo conduce a filosofare.
Vivendo poi in società l'uomo sarà dunque portato a confrontare le sue domande e le sue risposte anche con quelle degli altri.
Ecco perché la filosofia, che nasce da esseri razionali, possiede anche una natura sociale. Ora, lato sociale e lato razionale sono tra loro legati o meglio, intrecciati. Del resto, tutti noi siamo esseri dotati di ragione e viviamo in una dimensione sociale.
Per piccola che sia quella dimensione e per quanto poco sviluppata possa esser l'inclinazione che ognuno di noi può avere a ragionare, però nessuno può sottrarsi al vivere sociale ed all'esercizio della ragione.
A meno che qualcuno non opti per un volontario isolamento dall'umanità...
Ma anche in quel caso, nessuno potrà rinunciare alla sua natura d'essere dotato di ragione. Ed anche se lo volesse, dovrebbe compiere comunque un che di filosofico: imporre a sé stesso di non ragionare più; dovrebbe insomma utilizzare (magari portato dalla rabbia o dall'amarezza) la sua ragione per smettere di ragionare.
Però anche se volesse pensare solo a bisogni puramente biologici quindi alla mera sopravvivenza fisica, anche questo sarebbe un atto compiuto da un essere razionale. E che tale rimane.
Non possiamo quindi sottrarci, o lo possiamo solo a stento, alla dimensione sociale-razionale.
Sì, forse per qualcuno questo sottrarsi potrà essere un gran bene: perché la razionalità e la socialità ci chiedono conto di chi siamo e di che cosa facciamo, di chi eravamo e di che cosa abbiamo fatto; già, perché appunto razionalità e socialità possiedono anche un lato morale.
Comunque, chi vorrà rifiutare l'ambito sociale, quello razionale o entrambi dovrà compiere una o più scelte che potranno sembrare solo di tipo pratico: voglio vivere pensando soltanto al mio benessere fisico, cercare il piacere dei sensi (l'edonismo), puntare al potere, o al danaro, alla fama ecc. o comunque rifiutare tutto quanto possa comportare lunghe, complesse ed anche dolorose riflessioni ed autocritiche.
Voglio vivere solo per e nell'azione.
O essere come lo Stirner che dichiara: “Io ho riposto la mia causa nel nulla.”2
Ma anche queste scelte saranno compiute da un essere razionale che vive in società e che perfino nel rifiuto di socialità e razionalità, manterrà almeno il ricordo e forse anche il rimpianto di quella sua duplice (in realtà unica, come visto) dimensione.



Note
  • Ho pubblicato su questo blog le precedenti parti di questo post rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011; la 6/a il 15/11/2012; la 7/a l'8/12/2012.
    Il riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il 21/02/2013.
    Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013; la10/a il 5/10/2013 e l'11/a il 30/10/2013.
1 Aristotele, La metafisica, Utet, Torino, 1996, I, 2, 982b 12 sgg. Ma questo concetto era già stato scoperto ed illustrato da Platone; “E' veramente propria del filosofo questa emozione, il provar meraviglia, né altra che questa è l'origine della filosofia.” cfr. Platone, Teeteto, Utet, Torino, 1981, 11, 155d.
2 Max Stirner, L'unico e la sua proprietà , Giunti Demetra, Firenze, 1996, p.414. Il corsivo è mio.

martedì 5 novembre 2013

Frammentari pensieri su Stefano Rosso


E' con una certa emozione che oggi vi parlo di Stefano Rosso: un cantautore purtroppo un po' dimenticato ma che per il particolare insieme di ironia, cultura musicale e per la varietà dei temi da  lui trattati meriterebbe d'esser riscoperto. Ed alla grande.
Le sue canzoni più note sono E allora senti cosa fò e Una storia disonesta: in effetti si tratta di pezzi molto divertenti i cui ritornelli, scanzonati e naif, sono entrati a far parte dell'ideale colonna sonora di una generazione. Della mia, certo: quella che a fine anni '70 aveva 16-17 anni e che adesso... be', ne ha 34 in più. Che cosa volete che sia?
E chi non ricorda quel refrain che faceva: “Che bello, con la ragazza giusta e lo spinello”? Secondo me la ricordiamo tutti/e noi. La ricordo perfino io che con gli spinelli non ho mai avuto niente a che fare e con le ragazze, non molto di più.
Ma benché Stefano (Rosso è lo pseudonimo per “Rossi”) abbia avuto successo appunto con pezzi come quelli citati, in lui esisteva anche una profonda vena sociale e malinconica.
Del resto, nel panorama di una canzone come quella della nostra d'Autore, molto interessante ma (Guccini e Jannacci esclusi) anche un po' cupa, uno come Rosso portava la classica ed indispensabile ventata d'aria fresca.
Non c'era quindi niente di male ad autoflagellarsi per es. sul problema del tradimento subito: come Ste' fece in Allora senti cosa fò. Tra l'altro con una suite musicale finale che rimanda al tabarin o ad atmosfere in qualche modo petroliniane.
Ma quando ascolto o penso a Ste' risento immediatamente il suono delle chitarre e la luce, il sapore, ed i pensieri di quegli anni.
Sì, perché allora non c'era praticamente piazza in cui non si sentisse suonare qualche chitarra, delle armoniche e bongos o tamburi di vario tipo. A Cagliari andava forte (oltre al Bastione di S. Remy) piazza Giovanni XXIII, che era il punto di ritrovo di tante/i che vi confluivano per suonare, parlare, scrivere, giocare, leggere, amoreggiare...
Sebbene io non fossi un assiduo frequentatore di piazza Giovanni (come la chiamiamo noi di Cagliari) comunque la ricordo bene.
Soprattutto ricordo l'atmosfera di quegli anni, che Stefano ha saputo cogliere con occhio vigile, umorismo ed anche con dolore: come in Bologna '77, che parla della morte di Giorgiana Masi, rimasta uccisa durante alcuni scontri con la polizia.
Un pezzo poi come Il circo utilizza l'immagine appunto del circo come metafora del Paese. In questo “circo che sta in piazza” c'è posto per tutti: anche per chi protesta, perché tanto: “Ci sono anche i leoni, ma che in fondo sono buoni.”
Ma quanto siano buoni, questo (come tante altre cose) “nessuno lo sa.” E comunque: “Paga tutto certa gente...
Altra grande canzone è Libertà... e scusate se è poco, dove vediamo come per Ste' (ma solo per lui?) questa libertà sia diventata nel tempo qualcosa di sempre meno chiaro e reale.
Ed ora Stefano pizzica le corde della sua chitarra come nel fingerpicking di Letto 26, si trova in una Via della scala un po' diversa da quella della sua Trastevere, una via della scala piena di nuvole, arpe ed altri grandi chitarristi. Senz'altro, Ste'. Senz'altro.

P.s.: mentre il post andava “in stampa” (avevo appena chiuso la mia infallibile Bic), il mio pard Bruno Manca mi ha segnalato il documentario su Ste': Stefano Rosso. L'ultimo romano. Ne è Autore il cantautore Simone Avincola e... be', è grande.
Partrop, ormai il mio pezzo aveva una sua struttura che non avrei saputo estendere o alterare, ma se volete capire che uomo e poeta fosse Ste' (e la sua gente), digitate “Simone Avincola” e trovate il docum. Gratis, poi!
Grazie di nuovo a Bruno che con la sua poliedrica curiosità mi ha fornito questa MUY preziosa informazione.
Ora basta così o va a finire che questo post diventa il seguito dell'Odissea e così rompo le scatole a tutti quanti. Ma su Ste' ritornerò. Promesso.

mercoledì 30 ottobre 2013

La discussione filosofica (11/a parte)*


Ma questo modo di ragionare può essere accusato appunto di oscurità, forse anche di volontario inganno... se non di vera e propria malafede. Insomma, il rimedio può rivelarsi peggiore del male.
Infatti, perché mai chi intenda filosofare quindi (secondo l'etimo) amare la sapienza dovrebbe di fatto evitare di farlo?
Non si può infatti ammettere che un filosofo tenga egoisticamente la verità o la sapienza per sé, come se fosse un suo possesso personale, privato. A quel punto come distinguere la verità dall'ignoranza e dall'errore?
Sarebbe come se qualcuno dicesse alla persona amata: “Fidati, io ti amo tantissimo. E' vero, non te lo dimostro mai, ma ti amo. Fidati: io so che ti amo.”
Ma a nessuno interessa un amore teorico. Così, anche se sembrerà strano, neanche la filosofia può permettersi d'essere solo teorica; insomma, non può né deve permettersi il “lusso” di chiudersi in sé stessa e di non darsi agli altri.
Quella che per me è la visione più elevata della filosofia, espressa da Platone nel mito della caverna1, insegna che il sapere deve essere messo a disposizione di chi è ancora vittima di false idee, verità parziali, illusioni ecc. Il sapere, la verità, la conoscenza devono essere dunque con-divisi, divisi con gli altri esseri umani.
Alla natura stessa della filosofia ripugna il fatto che alcuni possano godere della luce mentre altri rimarranno confinati per chissà quanto in un mondo di inganni... più o meno frustranti, assurdi, derisori e dolorosi.
La filosofia non è quindi una qualche (ed a questo punto neanche interessante né sensata) disciplina pura, come tale riservata a pochi “eletti” bensì qualcosa di sociale.
Essa, infatti, nasce e vive in società e la sua dimensione naturale non può che essere quella della discussione, un qualcosa quindi che avviene tra uomini e donne in carne ed ossa... Uomini e donne che talvolta avranno anche una conoscenza tecnica, specifica, insomma specialistica del discorso filosofico... ma non sempre, né questo è poi fondamentale.
Ovviamente, non deve mai mancare il rispetto per chi appunto del discorso filosofico ha una conoscenza appunto specifica, conoscenza che ha acquisito con lunghi, difficili anni di studi e ricerche e che con la conoscenza di quel discorso cerca di guadagnarsi il pane... Peraltro non molto, a dirla tutta!
Comunque, poiché l'essere umano è animal rationale, animale razionale, egli è condotto dalla sua stessa natura, dal suo essere ad interrogarsi sui problemi della filosofia...
Problemi che non sono poi altro che quelli della vita: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, che cosa possiamo conoscere, che cosa siano il bene ed il male, che cosa sia e come sia applicabile la giustizia, quale sia l'origine del mondo, il senso del tempo, il valore dell'amore e dell'amicizia ecc.



Note

  • * Ho pubblicato su questo blog le precedenti parti di questo post rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011; la 6/a il 15/11/2012; la 7/a l'8/12/2012.
    Il riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il 21/02/2013.
    Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013. 
  • Ho pubblicato la 10/a il 5/10/2013

1 Platone, La repubblica, Fabbri Editori, Milano, 2000, VII, p.242 sgg.

domenica 13 ottobre 2013

“La sfuriata di Bet”, di Christian Frascella


Ho scoperto questo romanzo grazie alla libreria Bonardi di Amsterdam che organizza incontri e presentazioni di libri italiani tradotti nella lingua locale. Essa contribuisce così sia a diffondere la nostra letteratura sia a combattere vari pregiudizi relativi al nostro Paese (terra solo di mafia, scandali sessuali, O' sole mio ecc.). Questa libreria invia (non solo a me!) delle e-mails con cui aggiorna sulle sue attività.
Circa La sfuriata ero un po' dubbioso: non sarà, mi sono detto, il solito libro sugli adolescenti... di solito rappresentati come brufolosi, eternamente attaccati al pc, all'Ipod, all'Ipad, a facebook o ad altre diavolerie e deliranti in uno slang intriso di dialetto, italiano sgrammaticato, gergo televisivo e pseudo-inglese?
Niente di tutto questo.
Intanto, Bet (Elisabetta) è ovviamente una ragazza del suo tempo: ma all'interno di esso non vive come una ragazza ovvia. E' imprevedibile, umorale, spesso sarcastica ma dirige il suo sarcasmo anche verso sé stessa. Sembra disillusa, quasi cinica: eppure si batte per difendere una donna incinta dai modi direi troppo spicci di un carabiniere, salva una donna anziana dallo sfratto, lotta con la madre ed i colleghi che si trovano ad un passo del licenziamento.
La classica ragazza impegnata ed inoltre immersa sia in letture sia in ascolti musicali da combat rock? Anche stavolta, domanda sbagliata. Inoltre lei odia i Doors, il Siddharta di Herman Hesse ecc. ecc.
Alla soglia dei 18 anni vede tutto il marcio che dilaga nel nostro Paese (e forse non solo nel nostro) come il maschilismo, lo sfruttamento sul lavoro, il precariato, la fissazione per il “bel” corpo, il carrierismo in politica, il culto del nozionismo ecc. Bet vede tutto questo e lo dice; senza girarci tanto attorno.
L'A. ha il merito di non sovrapporsi a Bet, insomma non la fa parlare come farebbe lui. Lei parla come una 18enne di questi tempi, sia pure dotata di una forte personalità: comunque non è lo stereotipo della ragazza moderna.
Un altro grande merito dell'Autore: ha fatto leggere il manoscritto alle ragazze ed ai ragazzi dell'Istituto Giulio e del Liceo Gioberti di Torino che come scrive: “Hanno avuto la pazienza di ricevermi in classe, profondendosi in critiche attente e consigli fondamentali” (p.209).
Bene, la Torino dipinta da Frascella più che la capitale italiana dell'auto è una città molto cupa, talvolta caotica, flagellata dal vento e dal gelo. Come in un'inquietante sensazione-(pre)visione di decadenza, dai muri delle case trasudano umidità e presagi di sconfitta. Del resto, disoccupazione e cassa integrazione sono realtà che si respirano per strada ed attraversano i quartieri operai della città.
La sfuriata che ad un certo punto troveremo nel libro è già anticipata da frasi, pensieri ed impressioni di Bet (che si considera responsabile della morte della sorella) e che Frascella lascia fluttuare in modo libero ma mai confuso.
In un certo senso Bet è una dura, ma non va in giro a dimostrarlo. Non ha troppe amiche né un ragazzo ma non fa la “carina” con nessuno. Non ama lo studio ma la sua mente è in continua ebollizione: e sempre su questioni alte... anche se lei non sopporterebbe il termine.
Si descrive così: “Penso che sono una ragazza del mio tempo, e che non lo sono. Che abito nel mondo, e il mondo non mi piace, e non mi sento adatta ad esso. E tra pochi mesi compirò diciotto anni e finalmente potrò fare un sacco di cose che oggi non ho proprio voglia di fare. Spero di volerle fare, però, spero di sentirmi meglio, quel giorno, e di avere di nuovo dei desideri” (p.188).
Molti di questi pensieri non somigliano a quelli che avevamo anche noi... quando sembrava che “i 18” ci avrebbero consegnato le chiavi del mondo?
Poi “i 18” arrivano, li superi anche di vari decenni e... be', in fondo è sempre la stessa minestra: non puoi fare proprio quello che volevi o quando lo fai, non ci provi più tanto gusto. Discorso complesso; proseguiamo.
La differenza tra Bet e noi diversamente 18enni consiste forse in questo: noi avevamo dei desideri... forse troppi? Chissà. Bet e molti suoi coetanei sperano di averne. Del resto, sono capitati in un mondo che non ispira troppa fiducia...
Ma lei non si chiude in sé stessa o nella sua amarezza, perché diventa consapevole del fatto che lei non è “il centro del mondo. Sono”, dice, “un pezzetto attaccato ad altri pezzetti e tutti insieme siamo un corpo unico” (p.188. I corsivi sono miei).
Con Bet l'A. ci ha regalato una figura di giovane donna che spero possa smuovere un po' le acque della nostra … non sempre entusiasmante letteratura. Grazie Christian, anche a nome di un remotamente 18enne.


P.s.: grazie anche alla signora Henrieke Herber per aver tradotto in neerlandese (olandese) un testo non semplice come potrebbe (a prima vista) sembrare.
Benché non conosca la... tulipanica lingua, penso che la signora abbia fatto sicuramente un ottimo lavoro. Nel mio blogroll trovate il link al suo blog che è www.henriekeherber.nl


sabato 5 ottobre 2013

La discussione filosofica (parte 10/a)*


Da quanto visto nella 9/a parte sembrerebbe che davvero l'arte e gli artisti (soprattutto quelli che sentono e creano in modo molto passionale) siano molto pericolosi per la filosofia. E per la società. Sì, perché la loro fantasia ed anche il loro fustigare sé stessi attraverso la propria creatività potrebbe turbare delle comunità che considerano ben più importanti valori come il self-control, la logica, la misura, la riservatezza ecc.
Ma in comunità come quelle l'artista si sente soffocare. Per lui o per lei, l'urlo è il solo valore, perché squarcia il velo di una realtà che impedisce la reale crescita della persona, la sua liberazione. Penso che tale “urlo” sia stato molto forte soprattutto a partire dal romanticismo e dall'espressionismo, fino ad arrivare nel '900 alla durezza del rock (Who, Rolling Stones, Janis Joplin, Clash, Sex Pistols ecc.) e di certa canzone d'Autore (Phil Ochs, Bob Dylan, Brel, Victor Jara, il Lennon post-Beatles, Billy Bragg ecc.).
Tornando alla parola scritta, considero migliori esponenti di questo porsi di fronte alla società, il Rimbaud de Una stagione all'Inferno, direi tutto Brecht, Bukowski, Pasolini né dimenticherei Artaud. Ora, queste mie considerazioni hanno solo valore indicativo, ma penso che il concetto-base sia chiaro: soprattutto se “viste” alla luce dell'Urlo di Munch e di quello di Ginsberg.1
Certo, in qualcuno anche questo modo di essere può diventare solo un atteggiamento, un che di teatrale o comunque di non spontaneo; ma è lì che si vede il vero artista.
Del resto, non è molto chiara neanche la posizione del filosofo che voglia denunciare gli “eccessi” dell'artista, filosofo che finora abbiamo identificato in Platone. Infatti, la stessa Murdoch riconosce che nei testi di Platone si trovano affermazioni argute e spiritose e che il tono di questi è spesso amabile.2 La forma espressiva utilizzata da Platone non era insomma severa quanto i concetti da lui esposti e discussi, né quella forma condivideva sempre la condanna platonica dell'arte; anzi spesso si direbbe proprio il contrario.
Inoltre, il Koyrè ci ricorda come molti dei Dialoghi platonici potrebbero essere intesi anche come dei testi teatrali e come tali, debitamente rappresentati e rappresentabili; quel che poi, nell'antichità si fece.3
Ed ai giorni nostri, l'attore Gigi Proietti ha portato in scena proprio Socrate4: riferendosi in qualche modo anche all'Apologia di Socrate, testo in cui Platone diede libero sfogo alla sua natura artistica, consegnando a generazioni di lettori un Socrate oltre che cercatore di verità, spesso gigione ed anche irriverente, quasi tagliente coi suoi accusatori e perfino coi giudici, se arrivò al punto di dichiarare che non solo doveva essere assolto, ma che anzi aveva il diritto d'esser mantenuto gratis a spese dello Stato!5
Dall'Apologia emerge la figura di un uomo che non considera mai la virtù e la giustizia questioni astrattamente teoriche, né uomo che rinunci alla vita a cuor leggero. Infatti, egli si batte per la sua vita e per la verità facendo ricorso a tutte le “astuzie” ed a tutti gli argomenti in suo possesso senza temere di passare per retore o ancor peggio, per commediante.
Insomma, anche in Platone troviamo della duplicità: da una parte duro, quasi implacabile nemico dell'arte e degli artisti, censore della loro creatività e della loro stessa umanità.
Dall'altra, se consideriamo l'attenzione da lui posta nella descrizione di particolari situazioni, nell'uso di determinati termini, nel delineare i tratti della personalità di certi interlocutori, nel precisare certe situazioni, varietà delle conversazioni ecc., artista egli stesso.
Che avesse ragione un grande conoscitore ed estimatore dei Greci come Nietzsche quando scrisse: “Tutto ciò che è profondo ama la maschera”?6

Note

* Ho pubblicato su questo blog le precedenti parti di questo post rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011; la 6/a il 15/11/2012; la 7/a l'8/12/2012.
Il riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il 21/02/2013.
Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013. 

1 Allen Ginsberg, Urlo, in Id., Jukebox all'idrogeno (1956), Mondadori, Milano, 1979, pp.102-137.
2 Iris Murdoch, Il fuoco e il sole, Sugarco, Milano, 1977, p.101.
3 Alexandre Koyrè, Introduzione a Platone, Editori Riuniti, Roma, 1996, pp.6-8 e p.8 n.4.
4Intereressante la lettura di http://archiviostorico.corriere.it/2000/aprile/29/SOCRATE_scena_spirito_dell_uomo_co_0_0004291727.shtml
5 Platone, Apologia di Socrate, Garzanti, Milano,1980, p.36.
6 Friedrich W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Gte Newton, Roma, 1988, p.72. Il corsivo è mio.

mercoledì 25 settembre 2013

“Saturday night” degli Eagles


Nel 1973 gli Eagles incisero a Londra l'album Desperado. Desperado è un concept-album, un disco cioè che si presenta non come una semplice raccolta di canzoni bensì come una sorta di libro, di cui ogni canzone rappresenta un capitolo. Il concept-album era molto diffuso negli anni '60-'70. Forse, l'ultimo grande esempio di questo modo di fare musica in ambito pop-rock è costituito da The Wall (1980) dei Pink Floyd.
Desperado è un disco di musica country e contiene un solo rock (peraltro bello sanguigno): si tratta di Out of the control.
Il disco racconta la storia della banda Doolin'-Dalton, o comunque quella di alcuni avventurieri: un po' banditi, un po' vagabondi ed anche sognatori. Il tutto è ben sintetizzato da questi versi di Outlaw man: “In one hand I've a Bible, in the other I've got a gun, in una mano ho una Bibbia, nell'altra ho una pistola.
Saturday night narra la storia di un uomo che attraversa la classica epopea del West, dagli anni eroici della frontiera a quelli del progresso; da noi questo momento di transizione è stato sintetizzato dal film di Sergio Leone C'era una volta il West. West che forse era più complesso di quel che crediamo...
Il brano inizia col mandolino di Leadon e su un tempo che per me si situa tra il valzer ed il blues (almeno come atmosfera). Henley canta:
Seems like a dream now, it wasn't so long ago
the moon burned so bright and the time went so slow,
and I swore that I loved her and gave her ring”,
ora sembra come un sogno, non era molto tempo fa
la luna bruciava così luminosa ed il tempo passava così lento,
e io giuravo che l'amavo e le davo un anello.
Qui abbiamo una storia d'amore, indubbiamente. Ma l'amore dalle parti del West, quel che conduce l'uomo a chiedersi:
Whatever happened to Saturday night
finding a sweetheart, and holding her tight?”,
qualunque cosa fosse successa il sabato sera
si trovava un'innamorata e la si si stringeva forte?
L'”eroe” non ne è tanto sicuro: probabilmente la vita da fuggiasco o da bandito ti fa dubitare dei sentimenti ed anche dei ricordi. Del resto, la vita dell'outlaw man, del fuorilegge portava “qualunque cosa fosse successa di sabato sera”, a “Choosing a friend, and a losing a fight: scegliere un amico (o un'amica?) ed a perdere uno scontro, una rissa. Tra l'amore,la violenza e l'amicizia poteva anche non esserci un confine netto...
C'è anche la domanda dell'innamorata: “Tell me, oh tell me, was I all right?”, dimmi, oh dimmi, stavo davvero bene? Forse, trascorsi alcuni anni dalla fine della loro storia lei vuol essere ancora rassicurata sul suo fascino, sulla sua bellezza... forse ormai svaniti, l'uno e l'altra.
Così come è ormai svanito anche il loro amore, insieme al West che avevano conosciuto da giovani... infatti
The years brought the railroad, it ran by my door
now there's boards on the windows and dust on the floor”,
gli anni portarono la ferrovia, passava davanti alla mia porta
ora ci sono assi sulle finestre e polvere sul pavimento.
Il tempo ha insomma sconfitto anche il desperado, l'outlaw che magari era imbattibile con qualsiasi arma. Io immagino l'”eroe” della canzone addirittura privo di un tetto, oltre che di una donna... solo, ormai costretto a vagare per una terra che non comprende e che non ha più bisogno di lui, condannato a vagare in solitudine ed in amarezza.
Ma la donna del brano è sempre presente, insieme a questa bruciante consapevolezza:
And she passes the time by another man's side
and I pass the time with my pride”,
lei passa il suo tempo al fianco di un altro uomo
e io passo il mio col mio orgoglio.
Finché l'uomo constata sconsolato
What a tangled web we weave,
che trama complicata tessiamo.
Infatti spesso i peggiori nemici dell'amore sono la gelosia ed appunto l'orgoglio; beninteso, parlo di un orgoglio esagerato... che ci impedisce d'apprezzare la persona amata e di essere almeno un po' indulgente verso i suoi limiti, le sue debolezze ecc. Del resto, chi non ne ha?
Eppure continuiamo a tessere una tela fatta di sospetti, malumori, false o insensate aspettative, eccessiva vanità o indulgenza verso noi stessi.
Intanto il nostro tempo è passato o sta passando e da tutto ciò che cosa abbiamo ricavato?
Perché “qualunque cosa sia successa di sabato sera”, forse i protagonisti della canzone continuano a vagare per i luoghi ormai tanto cambiati della loro giovinezza. Come se fossero dei fantasmi..



sabato 14 settembre 2013

La discussione filosofica (parte nona)


La duplicità di cui parla la Murdoch consiste nel fatto che per Platone l'Eros può condurci verso la Bellezza, che è un preannuncio o una sorta di anticipazione del Bene ed anche desiderio di esso. Inoltre l'Eros può condurci alla conoscenza ed alla sapienza.1
Ma questo sarà possibile quando sapremo superare l'iniziale (nota bene: dal punto di vista di Platone, anche desiderabile) attrazione per la bellezza fisica e per i piaceri dei sensi.
Però per Platone l'arte e l'artista hanno il potere di distoglierci da così alti fini morali e conoscitivi per condannarci ad un'esistenza illusoria, nemica quindi del Bene e della filosofia e che inoltre, farebbe passare la stessa filosofia per sterile chiacchiera o raffinato imbroglio.
Magari, in questo l'artista si avvarrebbe della sua capacità di raffigurare, distorcendoli, uomini e valori per piegarli a fini tutti suoi; esemplare il caso di Socrate, pressoché ridicolizzato da Aristofane ne Le nuvole.
Leggiamo infatti nel Fedone questa affermazione appunto di Socrate, che in attesa della morte dichiarò con grande amarezza: “Ed io penso che non vi sarà nessuno che, ascoltandomi, abbia ora il coraggio di dire (nemmeno se fosse un poeta comico) che io sono un ciarlatano e che parlo di cose che non mi riguardano.”2
Ai nostri giorni è tipico l'uso che del linguaggio fece Joyce nell'Ulisse ed ancor più nel Finnegans Wake, romanzo che benché accolto con favore da grandi letterati, critici ed intellettuali, ridestò anche “accuse di follia, ciarlataneria, aberrazione.”3
Secondo poi la bella ed inquietante definizione fornita dal Journet, l'ultima opera di Joyce può essere altresì intesa come un “ricomporre” e “confondere il tempo, la storia, il linguaggio degli uomini per riportare, come è stato detto, la suprema vittoria, quella dello scrivano che detronizza Dio.”4
E per la Murdoch, che qui si rivela indubbiamente chiara e fedele interprete di Platone, lo stesso humour dell'artista conterrebbe qualcosa di intrinsecamente sbagliato, se non una “sottile insincerità.”5
Qualcosa insomma di malato, un odio verso sé stessi (oltre che verso gli altri), un rifiuto di prendere sul serio la vita, i doveri ed i legami che come esseri umani abbiamo verso la società, una sorta quasi di voluttà di auto-umiliazione e di annullamento.
E questa è una linea che sembrerebbe collegare certe affermazioni dei Ricordi dal sottosuolo di Dostoevskij al Lamento di Portnoy di Philip Roth, in cui lo humour del protagonista appunto del Lamento è considerato non “forma classica di humour ebreo” bensì (come dice un'interlocutrice concupita dal famelico Portnoy) qualcosa che ha a che fare col “Ghetto”: quindi con uno dei momenti di maggior umiliazione del popolo ebraico. Dunque “l'auto-deprecazione” a cui Portnoy indulge sarebbe non fonte di vera o “sana” arte ma anzi fenomeno altamente negativo.6
Del resto, mi pare che qui (ebraismo a parte, poiché Dostoevskij apparteneva al mondo slavo ed ortodosso) l'Autore dei Ricordi possa essere considerato una sorta di padre spirituale di Portnoy... dotato se non di maggior sensualità, almeno di pari furore. Egli si crogiola inoltre nelle proprie imperfezioni morali e nei suoi dubbi intellettuali in modo davvero degno di nota.
Infatti nei Ricordi il personaggio che conosciamo solo col nome di “Io” fantastica su suoi immaginari interlocutori, che parlando di lui pensa che possano dire: “Assicurate d'aver la bava alla bocca, e nel medesimo tempo dite spiritosaggini per farci ridere. Sapete bene che codeste vostre spiritosaggini non sono affatto spiritose, ma è evidente che siete assai soddisfatto del loro merito letterario. Vi sarà forse capitato davvero di soffrire, ma non avete il menomo rispetto per la vostra propria sofferenza.”7





Note

1 Platone, Convivio, Garzanti, Milano, 1980, XXVIII, pp. 241-242.
2 Platone, Fedone, Garzanti, Milano, 1980, XIV, p.93; cfr. anche Ibid., p.93 n.20 dove questa affermazione di Socrate è considerata appunto una “amara illusione ai poeti comici del suo tempo e ad Aristofane, il grande commediografo, che nelle Nuvole si fa beffe di lui descrivendolo come un perdigiorno.”
3 Nemi D'Agostino, in James Joyce, Gente di Dublino, Garzanti, Milano, 1986, pp.XXIV-XXV.
4 Charles Journet, Il male. Saggio teologico, Borla, Torino, 1963, p.241.
5 Iris Murdoch, Il fuoco e il sole, Sugarco, Milano, 1977, p.101.
6 Philip Roth, Lamento di Portnoy, Bompiani, Milano, 1988, pp. 293-301.
7 Fedor Michailovic Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, Bur, Milano, 1984, pp.59-60.

sabato 17 agosto 2013

La pancetta ed altre strane delizie


Chi legga questo blog o anche chi abbia letto qualcuno dei miei libri, avrà capito che non sono molto razionale. Certo, non entro dalla finestra quando posso entrare dalla porta né mi faccio il caffè con chiodi ed acido muriatico.
Eccetera nonché eccetera.
Però perfino a me, che adotto il motto di Dylan: “Accetto il caos, non so se il caos accetti me”, bene, perfino a me capitano delle cose che trovo strane.
Adesso mi spiego.
A me piacciono molto i salumi o affettati che dir si voglia.
Direte: e che cosa c'è di male, sono buonissimi!
Verissimo.
Ma da un po' di tempo, diciamo pure da qualche anno, ho scoperto la pancetta magra; ma mi piace anche quella grassa. Seguitemi perché non si tratta di una distinzione da poco.
Insomma, non dico che Kant ed Aristotele si sarebbero mai presi a mattarellate in testa per una distinzione come questa, ma sta di fatto che un tipo di pancetta è magro; l'altro, invece, è grasso. Che cosa volete farci, viviamo in un universo imperfetto... per non parlare della galassia!
Bene, un giorno vado (come diceva scherzosamente mio padre) al markèt. Punto, come un'aquila che cerchi d'artigliarsi un agnello, verso il reparto salumeria. Fisso il salumiere ed omaggiando Clint Eastwood mormoro: “Due etti di pancetta magra, gringo...”
No, i Ringo sono di là, dove ci sono i dolciumi.”
Buonanotte! Rovinato l'effetto cinematografico! Ci saranno mai giustizia e bellezza, per me, a questo mondo? Ma quel benedetto salumiere, intendo il signor Basilio Crobeddu, non sa che sto pensando da 2 anni di scrivere per il cinema? Per carità: una bravissima persona, il buon Crobeddu; ma non può frustrare le mie ambizioni artistiche, nonché hollywoodiane.
Qui non ne vendiamo, di fruste. Però se va all'ippodromo magari una gliela prestano. Solo che deve riportarla prima che inizino le corse: ai fantini, la frusta, serve.”
“E gli speroni no?”
Gli spiedoni? Forse lei sta cercando gli spiedini, quelli alla carne ed ai peperoni... Comunque le serve anche qualcos'altro, signor Occheddu?”
Uccheddu. Mi chiamo Uccheddu.”
Che mi storpino il cognome “in continente” (come diciamo noi sardi) passi; ma che lo rovinino nella mia città...
“Va bene, signor Uccheddu. Desiderava?”
“Due etti di pancetta magra.”
Benissimo”, disse lui armeggiando con qualcosa, “però non gliela consiglio perché questa pancetta magra è grassa.”
Sì, avete letto bene: quel tipo si era contraddetto totalmente nel giro di 3 secondi e nello spazio di 1-2 parole.
Io: “Scusi, ma la pancetta magra è magra; altrimenti sarebbe grassa.”
“E' quello che ho detto, no?”
Io: “No. Lei ha detto che quella pancetta magra è grassa. Insomma, non è magra: è grassa.”
Lui: “Appunto, è grassa.”
Io: “Ma allora perché non dice direttamente che ha solo della pancetta grassa?”
Il signor Basilio mi guardò in uno strano modo: un modo superiore, distaccato, arcangelico. Poi l'arcangelo dal grembiule unto d'olio, spezie, vino e salumi vari iniziò a parlare... e col suo magico eloquio, magicamente mi fece scivolare in mano 2 etti di quella pancetta... che si rivelò ottima.
Solo che secondo me, il signor Basilio mi aveva venduto della pancetta grassa che però era magra. Insomma: io (pur essendomi fatto fregare) avevo fregato lui. Almeno questo me lo concederete!

sabato 10 agosto 2013

La chiamano crisi (4/a ed ultima parte)


D'altronde, già nel gennaio 2013 il Fmi aveva candidamente fatto, per bocca del capo economista” appunto del Fondo Monetario Internazionale “, quello che il Washington Post aveva definito “uno stupefacente mea culpa.”1
Eccolo, il mea culpa: uno studio “appena pubblicato dal Fmi riconosce che i piani di austerità proposti, o meglio imposti, a mezza Europa negli ultimi anni sono un danno per l'economia e l'occupazione. Peggio ancora, non funzioneranno nemmeno per rimettere a posto i conti pubblici, ovvero per diminuire il famigerato rapporto tra debito pubblico e Pil, vero e proprio faro che guida le scelte politiche di tutti i Paesi occidentali.”2
A quel punto che cosa dovrebbe fare la famosa trojka? Il buon senso consiglia questo: chi capisce d'aver sbagliato per anni, chiede scusa ed annulla certe misure. E magari (perché no?) sborsa anche qualcosa...
Insomma: anziché continuare a tagliare, rilancia una politica di investimenti ed assunzioni, favorisce l'innovazione tecnologica, potenzia sanità, scuola ed università, vara il rilancio di infrastrutture ed il recupero o la valorizzazione del patrimonio storico, artistico ed architettonico, riqualifica i lavoratori, si occupa di bonifica di aree industriali dismesse e/o inquinanti ecc.
O almeno, la famosa trojka (che insieme alle non meno famose agenzie di rating) tratta i vari governi come altrettanti burattini, non dovrebbe impedire tutto questo.
Invece va avanti come prima. Ci dice che ci sta strappando la pelle e bevendo il sangue e che tutto questo comunque non servirà a niente, ma si deve continuare a farlo. Non ci sarebbe nessuna alternativa, insomma.
Il che, come teme la Ilo (International labour organisation, organizzazione industriale del lavoro) potrà condurre ad “atti di violenza.”3 Ciò è in fondo abbastanza chiaro e rischia anzi di diventare inevitabile, benché non possa essere considerata la strada giusta.
Così, Antonio Gramsci aveva detto davvero bene quando già nell'aprile del 1917, in una situazione quindi certo molto lontana nel tempo ma per drammaticità molto simile all'attuale, scriveva che per provvedere “adeguatamente” ai bisogni di una nazione, è necessario potersi rappresentare concretamente gli uomini “in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere.”4
Aggiungeva Gramsci che in caso contrario “non si possono intuire i provvedimenti generali e particolari che armonizzino le necessità della vita con le disponibilità dello Stato. Si scaglia un'azione nella vita: bisogna saper prevedere la reazione che essa sveglierà, i contraccolpi che essa avrà.”5
Superfluo dire che anche oggi, chi prende o dovrebbe prendere certi “provvedimenti” non sa nulla della durezza della vita che tocca alla gente comune, ai malati, agli anziani, ai precari, ai disoccupati, agli immigrati ecc.
Sempre più abbiamo la percezione, a dir poco inquietante, che certe “autorità” non abbiano proprio niente di autorevole e che anzi scimmiottino la maggior parte dei signori e dei teologi del Medioevo, tutti persi come erano in una loro idea di ordine, di perfezione e di bene...
Ordine, perfezione e bene che non costavano loro nulla, vuote o comode astrazioni sulle quali potevano tranquillamente meditare all'ombra dei chiostri e dei castelli, peraltro custoditi da un sistema religioso, sociale, legale e militare che faceva della loro vita un Paradiso e della vita di tutti gli altri un vero Inferno.
Del resto, come scriveva S. Agostino: “Senza giustizia che cosa sono gli Stati se non grandi associazioni di delinquenti?”6


Note

1 Andrea Baranes, Il Fmi: Sorry, abbiamo sbagliato, ne Il manifesto, 10/01/2013, p.4. Il corsivo è mio.
2 A. Baranes, Il Fmi: Sorry, abbiamo sbagliato, art. cit. I corsivi sono miei.
3 Cfr. http://italiadallestero.info/archives/15388 Questo è del resto il parere anche del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi; cfr. Il manifesto, 11/04/2013, pp. 1 e 6. Appare in effetti evidente come l'escalation di suicidi e/o omicidi rischi decisamente di non poter esser bloccata quando non si intervenga seriamente sulle cause degli atti in questione.
Per i drammatici dati relativi ai suicidi nel nostro Paese cfr. g. m., Il prezzo della crisi: 8 suicidi al mese, in http://www.controlacrisi.org/notizia/Conflitti/2013/8/9/36071-il-prezzo-della-crisi-8-suicidi-al-mese-il-63-per-motivi/, 9/08/2013.
4 Antonio Gramsci, Politici inetti (Una verità che sembra un paradosso), in A. Gramsci, Odio gli indifferenti, Chiarelettere, 2011, p.7.
5 A. Gramsci, Politici inetti, art. cit., p.7. I corsivi sono miei.
S. Agostino, La città di Dio, Edizioni Paoline, Roma, 1979, 4,IV, p.215. Il corsivo è mio.

domenica 14 luglio 2013

“Risveglio”, canto dei Nativi Algonkin Chippewa


Risveglio (in 49 Canti degli Indiani, Mondadori, Milano, 1997, pp.32-33)   è un canto dei Nativi (indiani, pellerossa) Algonkin Chippewa.
Il canto in questione consta d'appena 31 versi... del resto, io penso che un canto d'amore non debba essere troppo lungo. Soprattutto non deve essere lungo un canto, che deve farsi ascoltare e non può bombardare chi ascolta con una grandinata di immagini... che possono essere molto belle prese singolarmente, ma tutte insieme rischiano di infastidire l'ascoltatore.
Risveglio è invece per me un canto perfetto per misura: contiene molte immagini e diverse metafore, tutte comunque tra loro collegate come le perline di una collana: non se ne trova una di troppo e tutte collaborano o si collegano nello stesso “progetto”... in quella collana o amore che dir si voglia.
L'innamorato invita l'amata a svegliarsi e tra le immagini che mi hanno colpito di più c'è questa, “cielo che cammina.”
Infatti, per chi ama, la donna amata è davvero un cielo: qualcosa cioè che vuole assolutamente raggiungere, una realtà in cui desidera volare fino a perdersi ed in essa riposare.
E quel che è ancora più bello, è che questo amante sa che il “cielo” che ama, cammina... e cammina con lui. Non si tratta di una bellezza fredda o indifferente, infatti il canto termina così: “Svegliati, amore, svegliati!
Quella donna vive e dorme con lui, è quindi un cielo che gli appartiene, che divide con l'amato il suo tempo... la sua-loro vita, insomma; perché l'amore porta ad intendere il tempo dell'uno anche come tempo dell'altra e viceversa. Una stessa cosa, insomma.
Risveglio dipinge più che un fiero guerriero, un uomo innamorato ma anche preda dell'ansia e della pena d'amore: perché non di rado l'amore è anche dolore...
Infatti egli dice: “Quando mi guardi io sono felice
come un fiore che beve la rugiada”,
ma dopo alcuni versi aggiunge: “Quando mi guardi severa
nero mi si fa il cuore,
come un fiume abbagliante
che nubi di pioggia oscurano.”
In amore l'incostanza o anche i problemi che possono nascere causano sofferenza e ci sembra che chi amiamo non sia più quella persona dolce ed a noi vicina, quella persona che col calore del suo cuore contribuiva a tanta parte della nostra felicità. In quei frangenti l'amata ci sembra un giudice o comunque una persona fredda, distante, quasi nemica.
Notate poi come in Risveglio si trovino due “quando”: uno positivo, il momento in cui lo sguardo dell'amata rende felici; uno negativo, che coincide con la severità dello sguardo. Si tratta sempre di sguardi, ma che appartengono a tempi o a stagioni diverse dell'amore... una realtà che non è statica bensì in continua evoluzione.
Se mi sorridi, ecco che torna il sole,
e sono un'increspatura
disegnata sul viso dello stagno.
Infatti in amore vogliamo anche essere rassicurati, mentre proprio l'insicurezza e l'oscillazione del sentimento ci fanno soffrire: questo perché nella persona amata cerchiamo qualcuno che ci salvi dalla nostra solitudine, dal sentirci insoddisfatti, privi di una meta, spezzati dentro, come sconfitti in partenza.
Così, l'amore deve avere una base stabile: un amore incostante o su cui si debba essere rassicurati di continuo, be'... aumenta la nostra solitudine, il nostro dolore.
Risveglio racchiude anche immagini di una sensualità gioiosa, giocosa, animata da un forte entusiasmo.
Non vedi il fiotto rosso del mio sangue
correrti incontro
come un torrente nel fitto della macchia
in una notte magica di luna?
Qui parlo di sensualità in senso davvero lato: qui non si descrive solo il desiderio dell'atto sessuale né la sua attuazione bensì il tormento nel desiderare un'unione con la donna ad un livello più pieno possibile. E' come se l'amante dicesse: non vedi che sono davanti a te con tutto me stesso e senza nessuna remora né vergogna, non vedi che ho abbattuto tutte le mie stupide difese, i blocchi, le paure e la falsa forza?
E riecco il “rosso”, simbolo di vita, quando lui canta:
Guardami,
guarda il rosso tamburo del mio cuore.”
In questo che io intendo come un denudarsi (ma come visto prima, ciò avviene al livello più pieno) solo in questo può avvenire un'autentica unione.
E per me, il grande merito di Risveglio consiste nell'aver descritto tutto questo in modo molto immediato e profondo; il che a molta poesia d'amore non riesce spesso.
Per esempio, sull'argomento amore sono molto immediati anche i versi del blues, ma è come se il bluesman temesse di risultare mieloso o banale: allora ecco che punta tutto sulla forza delle sue immagini... che beninteso, possono anche dipanarsi sul filo di una certa ironia e di un “codice” segreto, tutto giocato tra lui e chi ascolta.
Concludo con questi versi, sempre da Risveglio:
Ride la terra, il cielo assieme a lei:
io non ricordo più come si ride
se non mi sei vicina.