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sabato 24 dicembre 2011

Natale in blues


Il blues parla di dolore, solitudine, razzismo, miseria, disoccupazione, inoltre parla anche del Diavolo, di alcol e di sesso.
Possiamo perciò escludere che i suoi versi siano natalizi…
O tradizionalmente natalizi.
Ma… ne siamo proprio sicuri?
Bisogna infatti capire di quale Natale parliamo.
Io immagino un’antica famiglia palestinese che in una terra dominata da truppe d’occupazione, dopo un lungo viaggio (in una notte d’inverno) va in cerca di cibo e di un tetto…
E si sente dire che non c’è posto.
Ancora oggi ci sono truppe d’occupazione e gente per la quale “non c’è posto”!
Io sento di lavoratori che per difendere il loro posto di lavoro stanno di notte su gru o comunque molto in alto a 7 sotto zero… come ieri, a Torino.
Erano lavoratori del servizio notturno dei treni: circa un migliaio di loro rischia il licenziamento, anche se pare che si troverà una soluzione. Pare
Poi (che coincidenza, eh?!) leggo nel libro di F. Valentini, Sulle strade del blues che già negli anni ’30 negli Usa, erano “frequenti gli scioperi degli inservienti dei vagoni-letto, in maggioranza di colore.”
Penso allo spiritual Oh, happy day in cui si dice che Gesù mostrerà the way, la strada.
E ricordo che Martin Luther King affermò che per i suoi antenati schiavi gli spirituals erano una sorta di “codice”…
Gli ebrei erano loro, gli uomini che lavoravano in condizioni inumane nelle piantagioni; il faraone lo schiavista o il proprietario della piantagione.
Un altro famoso spiritual, Swing slow, sweet chariot parla di un chariot, un cocchio che probabilmente un veicolo che porterà in salvo e liberi gli schiavi.
Ancora: l’espressione to catch the train, prendere (o acciuffare) il treno significava nel gergo della cultura nera appunto la fuga o in ogni caso la soluzione di un grave problema pratico ed esistenziale.
Angela Davis spiegava bene come ciò che conta non sia un’astratta libertà quanto l’effettivo, reale processo di liberazione.
Infatti l’ex-schiavo Frederick Douglass si rifiutò di tenere un discorso in occasione del 4 luglio; rivolgendosi agli americani bianchi chiese giustamente: “Che cos’è, per lo schiavo americano, il vostro 4 di luglio? Le vostra grida di libertà ed eguaglianza, vana parodia; le vostre preghiere e i vostri inni, i vostri sermoni e i vostri ringraziamenti, le vostre parate religiose sono… magniloquenza, frode, inganno, empietà e ipocrisia.”
Di recente ho confrontato molte di queste mie opinioni con A. Portelli, il celebre americanista, che si è detto d’accordo con me.
Egli mi ha inoltre messo a disposizione un suo lavoro proprio su Douglass; grazie, prof!
B.B. King, il cui blues non mi sembra sia molto stimato, cantava in Why I sing the blues: “La prima volta che ho incontrato i blues
Fu quando mi portarono qui su una nave
C’erano uomini su di me; molti altri usavano la frusta
Adesso tutti vogliono sapere
Perché canto i blues…”
Forse lo spiritual e più tardi anche il blues furono dei codici che permisero la comunicazione tra i neri, in alcuni casi anche la fuga e (avrei voluto vedere il contrario!) anche delle rivolte armate.
Un uomo solo nella sua casa o nella sua baracca con in mano una vecchia chitarra o un’armonica non è insomma solo un poveraccio che canta storie di bad luck, sfortuna.
Un coro gospel che farebbe ballare anche i morti… beh, chissà che non lo faccia davvero!
Comunque…
E nonostante tutto…
Buon Natale e felice anno nuovo: non potrà andare male per sempre!
La schiavitù, anche quella moderna (per es. quella finaziaria)  e più o meno elegantemente camuffata, finirà…

domenica 27 novembre 2011

La discussione filosofica (parte quinta)1


Ma la visione per così dire di “satanismo umano” o di superomismo, che da parte di chi la rifiuti o la contesti può essere considerata come blasfema, irrazionale o ridicola, è però sostenuta in Dedalus da una sorta di ammirazione per il non serviam di Lucifero.
Nel corso di una predica sull’Inferno (torniamo sempre lì!) tenuta dal gesuita padre Arnall,2 circa il peccato appunto di Lucifero si dice: “Quale fu il suo peccato, non siamo in grado di dirlo. I teologi ritengono che sia stato il peccato d’orgoglio, il pensiero peccaminoso concepito in un istante: non serviam, non voglio servire.”3
Per Dedalus-Joyce il non serviam è un’affermazione o una dichiarazione di libertà o meglio, di auto-liberazione.
Esso vien fatto valere contro qualsiasi legame con altri esseri umani, che è concepito come falso, ipocrita, opprimente, come qualcosa che mutila la sensibilità dell’artista e sfigura il senso e la bellezza della sua opera.
Tuttavia, ad un livello meno astratto o comunque più drammatico, alcuni punti di certe opere di Joyce rivelano il suo dolore o il suo senso di colpa per non aver voluto pregare per la madre morente, benché ribadisca comunque il non serviam.4
E nel dramma Exiles Bertha, la moglie di una altro suo alter-ego (lo scrittore Richard Rowan) lo chiama womankiller, uccisore di donne.5
Eppure Joyce si sposò, ebbe dei figli ed il rapporto con la moglie fu per lui sempre molto importante (benché forse esso fosse limitato al solo lato erotico-passionale). Egli frequentava altri letterati, da essi era stimato ed incoraggiato, addirittura ne scoprì qualcuno: pensiamo al nostro Svevo.
Inoltre, pare che anche nei confronti dei suoi antichi maestri gesuiti abbia mantenuto rapporti tutto sommato amichevoli.
Insomma, perfino Joyce aveva una certa difficoltà o felice incoerenza nel sostenere o vivere fino in fondo determinate convinzioni.
Tuttavia è evidente che con uomini come Schopenhauer, Poe, Joyce e comunque coi solipsisti una vera discussione filosofica è impossibile: persone come quelle o pensano che tu non esista, o che (anche se esisti) tu sia un… gigantesco somaro!
Del resto, lo stesso Joyce non riusciva a far capire la sua opera alla moglie ed anzi, talvolta lei assunse sia verso di lui che appunto verso le sue creazioni atteggiamenti provocatori, quando non apertamente  provocatori.
Se partiamo da un dato che mi pare la critica considera ormai da tempo acclarato cioè la forte dimensione autobiografica degli scritti joyciani, ebbene allora dobbiamo riservare a certi passi di alcune opere del grande irlandese qualcosa di più che un interesse puramente estetico.
Per esempio in Exiles Bertha esclama: “Felice! Ma se non capisco niente di quello che scrive e non posso aiutarlo in nessun modo! A volte non capisco neanche la metà di ciò che mi dice!”6
Circa gli atteggiamenti provocatori o offensivi di sua moglie Nora ricordiamo che non appena uscì il primo dei capolavori del marito cioè l’Ulisse, Joyce gliene fece dono e lei subito (sotto l’apparenza dello scherzo) chiese ad un amico se fosse disposto a comprarglielo. Ciò provocò in Joyce vivo imbarazzo, imbarazzo che cercò di nascondere sotto uno stentato sorriso.

Note

1) Le precedenti parti di questo post sono comparse su questo blog rispettivamente: la 1/a il 25 marzo 2008, la 2/a il 4 aprile 2008, la 3/a il 17 giugno 2010, la 4/a l’11 ottobre 2011.
2) In realtà pare che Joyce abbia riportato una predica che fu pronunciata nel ‘600 da un gesuita italiano.
3) James Joyce, Dedalus, Mondadori, Milano, 1986, pp.152-153.
4) Cfr. Introduzione a Ulysses, in J. Joyce, Ulisse: Telemachia. Episodi I-III, a c. di Giorgio Melchiori, Mondadori, Milano, 1983, p.XXV; J. Joyce, Ulisse, Mondadori, Milano, 1985, pp.769-773. Per il riferimento al peccato d’orgoglio di Lucifero cfr. Ibid., p.772.
5) Il biografo di Joyce Richard Ellman osserva come l’epiteto in questione fosse stato usato già prima dalla moglie Nora Barnacle, quindi nella realtà; cfr. Masolino D’Amico, Introduzione a Exiles, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1985, p.XX.
6) J. Joyce, Exiles, op. cit., p.203.

sabato 5 novembre 2011

Un punto di vista forse inedito su Bukowski


Quando si parla di Bukowski, istintivamente molti pensano a lui come ad uno scrittore che scriveva solo d’alcol e di sesso.
Ora, i suoi temi erano in prevalenza quelli, ma secondo me rientravano in una dimensione più ampia: quella del suo dolore, che in un artista assumono una rilevanza (data la natura piuttosto passionale di quel tipo umano) davvero particolare.
In tutte le sue opere Bukowski ha sempre manifestato un fastidio quasi fisico per il noioso, insopportabile “giochetto di iniziati che si dicono paroline fra loro”1: il giochetto cioè di chi scrive cose magari anche molto curate sul piano stilistico, ma che spesso è solo una sorta di codice tra e per eruditi.
Qualcosa insomma di molto lontano dalla vita reale e dalla sofferenza di cui essa è piena. Lui invece dichiara: “Nessuno è mai venuto fuori a dire: “Cristo, (sic) sto male da crepare.”2
Quindi Bacco e Venere, di cui egli parla in parecchi libri (ma non in tutti) non sono da intendersi come una celebrazione vitalistica, divertimento folle ecc. ma al contrario come la denuncia di un profondo disagio esistenziale.
Infatti, raramente nelle opere di Bukowski troviamo autentica gioia o soddisfazione…. perché: “Esser vivi era già una vittoria.”3 Insomma, spesso quella vita è pura, semplice sopravvivenza.
Comunque rimando chi voglia approfondire la dimensione culturale del Nostro, più complessa di quanto non sembri, alla “mappa” fornita da David Stephen Calonne.4
Ora, non intendo certo beatificare Bukowski, che avrebbe trovato la cosa insopportabile.
Tuttavia ricordo che come dice in modo abbastanza plausibile l’editore neozelandese Trevor Reeves, in Bukowski si trovava un “elemento religioso.”5 Religioso non nel senso dell’appartenenza ad una religione ma in senso più ampio, filosofico ed insieme pratico cioè come pratica di virtù morali di “compassione ed onestà.”6
Del resto, Christy ricorda un episodio in cui il protagonista (l’alter-ego di B. Henry Chinaski) di un suo romanzo entra in un bar, una banda di motociclisti in probabile stile Hell’s Angels lo riconosce e benché in modo piuttosto grossolano gli tributa una sorta di acclamazione.
Bene, Bukowski scrive che gli: “Venne voglia di prenderli fra le braccia, di consolarli e di abbracciarli come un qualche Dostoevskij, ma sapevo che non avrebbe portato a niente, salvo al ridicolo e all’umiliazione, per me e per loro. Chissà come, il mondo si era allontanato troppo e mai più sarebbe stato così facile essere spontaneamente gentili. Era una cosa per cui avremmo dovuto sgobbare di nuovo tutti quanti.”7
Al riguardo, Christy osserva (certo esagerando) che: “Bukowski è più importante di Hemingway”; ma certo Christy ha ragione di dire che: “Hemingway, sconfitto dalla fama, col suo mito della virilità, non avrebbe avuto il fegato di scrivere una cose del genere.”8
Sul piano morale ed indirettamente anche su quello letterario, se cioè non vogliamo considerare la letteratura solo come uno sterile esercizio di stile ma come un fenomeno più complesso, Bukowski fu davvero più coraggioso di Hemingway.
Egli infatti scrisse: “La tragedia è la situazione americana nella quale bisogna essere sempre vincenti. Nessuna alternativa è accettabile. E quando il vincitore cade non salva nulla.”9
Ecco perché, come nel caso di Ernest Hemingway, che secondo B. viveva “considerando la vittoria come unica possibilità”10 si può arrivare anche al suicidio. Perché chi punti solo alla vittoria non può accettare la vita per quello che è…e finisce per stroncarla, per stroncarsi.
Ma come dice il Nostro: “No, Ernest si sbagliava: l’Uomo è fatto per la sconfitta. L’Uomo può essere distrutto e sconfitto. Finché l’Uomo si accontenterà del piolo più alto e non prevederà di precipitare, l’Uomo sarà sconfitto, distrutto e sconfitto e sconfitto e distrutto. Solo quando l’Uomo imparerà a salvare ciò che potrà allora sarà sconfitto meno e distrutto meno.”11
Il sentirsi vicino agli sconfitti portò l’ormai ricco e famoso Bukowski a favorire attivamente la riscoperta di John Fante, lo scrittore italoamericano A. del grande Chiedi alla polvere, che Bukowski omaggia come maestro ed a cui con grande generosità confessò d’aver “preso in prestito” un po’ di stile.12
Nella poesia I giovani il Nostro li osserva correre in moto “a manetta lacerando la notte di rumore.”13 Sì, e nonostante l’apparente sicurezza se non arroganza, la vita dei giovani non gli sembra poi così piena di… vita.
Sono solo bande di ragazzi che si incontrano o forse si scontrano, ma il divertimento e la spensieratezza sono lontanissimi.
Penso che qui B. riprenda quanto aveva già detto in Hollywood ( si trattava anche lì di motociclisti): “Di nuovo notai i loro giacconi di pelle e la vacuità dei loro volti e la sensazione che in nessuno di loro c’era molta gioia o molta audacia.”14 La vacuità, ciò quindi che riguarda il vuoto, un vuoto quotidiano ed interiore che resiste a qualsiasi atteggiamento da “duri”, sembra caratterizzare anche i giovani.
Ma Bukowski non indossa i panni del moralista o del predicatore: capisce anzi la loro sensazione di solitudine, noia ed impotenza se dice:
mi vien voglia
di andar lì e dire: “dai, troviamo qualcosa da fare...”15
Ma è consapevole di come la mancanza di conoscenza e di coraggio sua e dei giovani vanificherebbe questo slancio. Così aggiunge:
Anch’io ho sbattuto il mio entusiasmo contro un muro,
lo prendevo a pugni fino a sanguinare e continuavo a
picchiare, ma il mondo restava com’era,
spiacevole, mostruoso, letale.”16
Quindi essere vecchi o giovani non conta: il mondo è intrinsecamente sbagliato, sorta di macchina del nulla che inghiotte o svuota tutti, negandoci qualsiasi gioia, ogni giustizia e fantasia. E certo non aiuta la mancanza di entusiasmo, quel qualcosa cioè che potrebbe aiutarci a reagire, a riempire il nulla di qualcosa che valga…
Ognuno di noi può ricordare quando da giovane non avesse granché da fare, tranne (soprattutto noi maschi) dare l’anima in partite di calcio e sassaiole. Come scordare quello starsene inerti, seduti su uno scalino ad aspettare chissà che cosa… magari infilzato dai sorrisetti di quelli che si sentivano superiori perché non si entusiasmavano mai davvero né si facevano uno straccio di domanda
Un po’ come la situazione cantata da Neil Young in Trashers, quando parla dei suoi amici (Ugo Polli http://totanisognanti.blogspot.com/2011/07/thrasher-di-neil-young.htmlhttp://totanisognanti.blogspot.com/2011/07/thrasher-di-neil-young.html ipotizza che egli alluda a Crosby, Stills e Nash) che
sui marciapiedi
e nelle stazioni
aspettavano, aspettavano
ma non c’era niente che cercassero o di cui avessero realmente bisogno.
Ora, i giovani di cui parla Bukowski sono “fottuti, castrati, spogliati senza speranza.”17 Ma:
Il passaggio della fiaccola nei secoli,
e adesso ce l’hanno in mano loro.”18
Eppure c’è sempre quel: “dai, troviamo qualcosa da fare .” Insomma, forse la partita della vita non è chiusa.
I poeti e gli scrittori possono solo scrivere con tutto il loro cuore e con tutta la loro intelligenza, sperando che versi, racconti, poesie, romanzi e saggi siano raccolti da chi arriva dopo di loro… anche in sella ad una moto, perché no?
L’importante è che sia raccolto il senso della loro arte senza che si badi troppo agli elementi più “spettacolari” come l’alcol ed il sesso.
E certo, chi non è moralista capisce che gli esseri umani necessitano anche di Bacco e Venere ma alla fine, forse il solo modo di mettere nel sacco la Morte è come dice Bukowski proprio l’arte, soprattutto quella della parola perché:
il lampo abbagliante della
parola
batte la vita in vita,
e la morte arriva troppo tardi
per vincere davvero
contro
di te.”19

Note

1) Fernanda Pivano, Introduzione a Charles Bukowski, Quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle, Sugarco, Milano, 1982, p.53.
2) F. Pivano, Introduzione, op. cit., p.53.
3) C. Bukowski, Donne, Sugarco, Milano, 1980, p.150.
4) D.S. Calonne, Introduzione a C. Bukowski, Azzeccare i cavalli vincenti, Feltrinelli, Milano, 2008, pp. 7-19. Utili anche le osservazioni della Pivano, che ricorda l’ammirazione di Bukowski per il Decamerone di Boccaccio ed il suo interesse per “la musica classica e le letture raffinate”; cfr. F. Pivano, Introduzione, op. cit., pp. 19 e 44.
5) Jim Christy, La sconcia vita di Charles Bukowski, Feltrinelli, Milano, 1998, p.47.
6) J. Christy, La sconcia vita di Charles Bukowski, op. cit., p.47.
7) C. Bukowski, Hollywood, Hollywood, Feltrinelli, Milano, 1992, p.44.
8) J. Christy, op. cit., pp.89.
9) C. Bukowski, Azzeccare i cavalli vincenti, op. cit., p.74.
10) C. Bukowski, Azzeccare, op. cit., 74.
11) C. Bukowski, Azzeccare, op. cit., p.74. I corsivi sono dell’A.
12) C. Bukowski, Azzeccare, op. cit., p.233. Nel racconto Incontro il maestro, contenuto nel cit. Azzeccare egli ricorda il suo incontro con Fante (nel racconto Bante) ormai con le gambe amputate causa diabete, prossimo alla morte ed abbandonato da tutti. Per i debiti stilistici contratti da B. verso Fante cfr. almeno F. Pivano, op. cit., p.40 e C. Bukowski, Prefazione a J. Fante, Chiedi alla polvere, Sugarco, Milano,1983, pp.7-10. Fante è nominato anche in C. Bukowski, Donne, op. cit., p.208.
13) C. Bukowski, The young, in Id., Il grande. Poesie II, Feltrinelli, Milano, 2002, p.33.
14) C. Bukowski, Hollywood, Hollywood, op. cit., p.44. Corsivo dell’A.
15) C. Bukowski, The young, op. cit., p.33.
16) C. Bukowski, op. cit., p.33.
17) Ibid., p.33.
18) Ibid., p.35.
19) C. Bukowski, Puntare sulla musa, in Id., Le ragazze che seguivamo, Guanda, Parma, 1996, p.83.

martedì 11 ottobre 2011

La discussione filosofica (parte quarta)


Approfondiamo i concetti di solipsismo e di solipsista.
Il solipsista, come ricordava il Piovani collegandosi a Schopenhauer, è l’uomo che pretende d’affermare un assurdo: “Ego sum et praeter me ens aliud non est”, io sono ed all’infuori di me non esiste nessuno.2
Ora, il Matthiessen prova che con accenti disperati ma comunque sinceri, lo stesso Poe affermò la realtà della propria esistenza e l’impossibilità di quella di qualunque altra persona o entità. Vediamo come il solipsismo di Poe (peraltro, come è noto, poeta e narratore di prim’ordine) non sia per niente inferiore per potenza e vorrei dire tragicità a quello di Schopenhauer.
Poe dichiara, infatti: “Tutta la mia natura si rivolta all’idea che possa esservi nell’universo alcun essere superiore a me stesso.”3
Qui Poe si esprime come un poeta lirico o comunque come un artista il cui cuore è lacerato da un turbinio di sentimenti ed emozioni che a mio parere potevano condurlo al suo Inferno. Qui per “Inferno” intendo l’assoluto e definitivo allontanamento dagli altri, percepiti come totali o irrilevanti nullità, mai abbastanza in grado di capire il suo genio ed il suo dolore.
Ma tale allontanamento può diventare Inferno nel momento in cui renda impossibile l'alleviamento del proprio dolore o il riconoscimento da parte degli altri del proprio genio. Come possiamo vedere, si tratta davvero di una strada senza uscita, piena inoltre di frustrazione e di angoscia.
Comunque, in Eureka Poe affermerà che nessuno può credere “che esista nulla di più grande della propria anima.”4
Poe non escludeva quindi l’esistenza degli altri bensì (il che è però peggio) la loro inferiorità o mancanza di realtà sul piano morale-intellettuale. In sostanza, degli altri riconosceva l’esistenza fisica ma negava o credeva di poter negare la loro esistenza dal punto di vista umano.
Questo modo di porsi e di ragionare, che ho già definito come il personale Inferno di Poe (e più in generale di chiunque si spinga davvero fino a quel punto) è assoluto e definitivo ma assume questi caratteri in base ad una scelta o decisione morale totalmente volontaria.
Con la sua deliberazione il solipsista esclude dalla sua visuale e dalla rete delle sue relazioni chiunque, perché ovviamente qualunque altro essere umano non può essere lui.
Ma ciò che ispira ed alimenta questa scelta e questi ragionamenti è, ancor prima che un ragionamento filosofico, un moto come ho detto della volontà, della sfera intenzionale. Prendendo questa espressione liberamente (non scomodando quindi Kant) è un a priori: qualcosa quindi che precede qualsiasi considerazione o dato direttamente collegato o dipendente dalla realtà fisica, umana e naturale.
Da questo punto di vista, il solipsista pone sé stesso oltre o al di sopra di ogni altro essere umano, che al massimo considera essere… più o meno come una cosa.
L’analogia con l’Inferno e con quella che i Greci chiamavano hybris (tracotanza, superbia) trova in arte un altro illustre seguace nell’alter-ego di Joyce Stephen Dedalus.
Dedalus, per seguire la sua inclinazione artistica e vivere nel “mistero dell’estetica”5 si propone di tagliare ogni legame con la tradizione, la Chiesa, la morale, il suo Paese (l’Irlanda), la politica, la famiglia ecc. e dichiara che “l’artista, al pari del Dio della creazione, rimane entro, o alle spalle, o al di là, o al di sopra del proprio capolavoro, invisibile, purificato fino ad essere inesistente, indifferente, intento a limarsi le unghie.”6
L’uomo che attraverso la creazione artistica e la riflessione estetica si fa Dio o crede d’essere un altro Dio può essere inteso, così come Satana, symia Dei cioè scimmia di Dio: imitazione dunque del suo creatore… che propriamente parlando è invece il solo Artista.

                                                                                  Note

1) Le precedenti parti di questo post sono comparse su questo blog rispettivamente: la 1/a il 25 marzo 2008, la 2/a il 4 aprile 2008, la 3/a il 17 giugno 2010.
2) Pietro Piovani, Principi di una filosofia della morale, Morano, Napoli, 1972, p.74.
3) F.O Matthiessen, Rinascimento americano, Einaudi, Torino, 1954, p.23 n.2. Il corsivo è mio.
4) F.O. Matthiessen, Rinascimento americano, op. cit., p.23, n.2.
5) James Joyce, Dedalus, Mondadori, Milano, 1986, p.250.
6) J. Joyce, Dedalus, op. cit., pp.250-251.

giovedì 22 settembre 2011

Le mie fallite storie d’amore con le bibliotecarie


Alt! Voglio rassicurare mia moglie: da quando ci siamo conosciuti non ho mai avuto storie d’amore con le bibliotecarie (né con altre donne appartenenti a qualsivoglia tipologia lavorativa).
Bene, chi mi segua attraverso questo blog o attraverso i miei libri avrò almeno intuito che mi piace leggere. Sì, posso immaginare la vostra meraviglia!
Ma a proposito del mio amore per la lettura vorrei raccontarvi un aneddoto.
Di solito si chiede alle persone famose di raccontare un aneddoto; io non sono una persona famosa né ho mai conosciuto persone di quel genere, ma ve ne racconto uno lo stesso.
Be’, una volta ho parlato col romanziere Massimo Carlotto e di recente (ad un convegno su Gramsci) con Giulio Angioni, mio vecchio prof di antropologia culturale ed anch’egli romanziere; di lui vi consiglio… caldamente Le fiamme di Toledo, Sellerio, Palermo, 2007.
Non posso però dire di d’aver conosciuto quegli scrittori.
Bene, una volta in una biblioteca dell’hinterland cagliaritano in cui presentai uno dei miei libri, dissi ad una bibliotecaria: “A me piace scrivere ma anche leggere.”
La bibliowoman scoppiò a ridere! Strano, in effetti la gente rideva più che altro quando (al liceo) venivo interrogato in fisica ed in matematica.
Ora che vi sarete asciugati le lacrime per l’involontaria battuta che scatenò l’ilarità delle bibliofemme, andiamo avanti.
Un alcolizzato frequenta le bettole ed i bar, un atleta le palestre, un killer le armerie. Uno che ama i libri frequenta le librerie e le biblioteche. Ma questo lo sapete; del resto, lo so perfino io!
Bene, non so perché ma di rado io e le bibliofrauen andiamo d’accordo. Ho analizzato il problema a fondo, ma invano.
Che io compili male le richieste o le schede per il prestito? Mah, qualche volta sarò anche impreciso: ma questo non giustifica certi atteggiamenti gelidi, quasi sprezzanti.
Del resto, in queste cose raramente sono impreciso.
Una cosa che potrebbe però giustificare l’atteggiamento di qualche bibliomujer è questa: bazzico molte biblioteche, perciò chissà, forse a volte mi confondo circa alcune modalità di prestito e di restituzione. E' una possibilità, no?
Quando poi si compila appunto quella richiesta bisogna indicare esattamente la collocazione ed anche il numero di inventario, oltre a nome dell’A., titolo dell’opera, anno e luogo di pubblicazione ecc. e soprattutto ecc.
Ieri presso la Biblioteca Centro documentazione e studi sulle donne di Cagliari ho preso, della scrittrice austriaca (poi trasferitasi nell’ex-Germania Est) Maxie Wander Una vita preziosa, che in quella biblio ha come collocazione 836.914 wan e come n° di inv. 1672.
Oltre alle Fiamme di Angioni vi consiglio anche questo gran libro della Wander, che è una straordinaria raccolta di lettere e riflessioni sul tema soprattutto della malattia e della sua morte imminente, oltre che sull’amore, sull’arte, sulla giustizia.. eppure in tutto questo Maxie non assume mai un tono da prima della classe, né tragico o lamentoso.
In quella biblioteca non ho subito nessun atteggiamento glaciale; sì, quando ho iniziato a sfogliare una rivista di storia medievale, la bibliomulier ha detto con un tono da capufficio stile Gianni Agus: “Dopo lo rimetta a posto, eh?!”, al che io sono stato (temo) un po’ fracchiesco. Ma in effetti, aveva ragione lei.
Poi, una volta ritirato il libro della cara Maxie, la Lady of the books mi ha stupito con una grande finezza… mi ha augurato: “Buona lettura!” Non si trattava di parole di circostanza e le ho gradite moltissimo; perché un libro, regalato o prestato è un dono, è qualcosa che sia chi lo presta che chi lo legge spera possa essere gustato e condiviso. Come diceva Stendhal (e Nietzsche era d’accordo) “l’arte è una promessa di felicità.”
Quando tantissimi anni fa ero ko perché non trovavo del materiale per la mia tesi di laurea, una bibliozena della biblio di Sestu mi tolse parecchie castagne dal fuoco.
La professionalità di una bibliogirl del Centro di studi americani di Roma si rivelò più che fondamentale per la bibliografia della tesi in questione.
A Cagliari, una bibliomuchaca molto gentile della biblio universitaria mi è preziosissima per il reperimento di riviste e periodici rari.
Sempre in Casteddu (Cagliari) una Madame des livres della biblio provinciale si fece in 4 per trovarmi un articolo in cui si esaminava l’interesse che ebbe per Salgari Antonio Gramsci; il tutto con grande affabilità.
Una bibliofimmina della biblio regionale, oberata di lavoro ed assediata dai richiedenti mi ha detto dove trovare le opere di Aristotele: si trovavano all’ultimo piano di uno scaffale molto alto e mi ha pregato di prenderle da me, ma non ha assolutamente voluto che le portassi la scala.
Insomma, se ripenso a quelle che ho scherzosamente chiamato fallite storie d’amore, devo riconoscere che gli antichi equivoci contano quanto uno zero sfondato.
Senza le bibliofilles la vita in biblioteca sarebbe muy triste, perciò w le bibliotecarie. E non scherzo!

giovedì 8 settembre 2011

Sulle montagne del Perù


Era una sera di marzo, Pablo Sanchez ed i suoi compagni Incas marciavano ormai da settimane. Nell’inerpicarsi su per le montagne l’aria si faceva sempre più rarefatta, ma la vegetazione rimaneva lussureggiante. Come aveva detto una volta il suo maestro, fray Bartolomè de Las Casas, le terre del Nuovo mondo erano “il Paradiso o poco meno.”
“Un Paradiso”, aveva commentato in lingua quechua un Inca, “che voi spagnoli state trasformando in un Inferno.”
Era vero: un’infinità di indios furono (e lo erano ancora!) sottomessi, derubati e sottoposti a violenze sessuali, fisiche e psicologiche d’ogni tipo, quindi sterminati in massa… i loro villaggi rasi al suolo o dati alle fiamme, i pochi superstiti ridotti in schiavitù e come diceva fray Bartolomè nella sua Breve storia della distruzione delle Indie, i loro bimbi venivano dati in pasto ai cani: ancora vivi o dopo esser stati fatti a pezzi dalle lame spagnole.
Avendo finalmente gli indios messicani impugnato le armi, el fray ben definì la loro reazione “santa”; infatti, la Chiesa non sosteneva la legittimità della guerra di difesa? E quella non era una guerra ma peggio, l’immotivato sterminio di un popolo.
Lui, Pablo, già capitano di fanteria e prossimo alla vita religiosa, era tornato in Spagna e col suo maestro aveva seguito le dispute filosofico-teologiche in cui magister Bartolomè aveva difeso i diritti degli indios, affermato la loro appartenenza al genere umano e per il Sangue del Cristo, la redenzione anche di quelle miti genti.
Pablo ricordava che furibondo aveva così argomentato col fray: “Ma come, come sottrarre a quelle ottime e sventurate persone terre e beni che appartengono loro da sempre? Con quale mai motivazione giuridica? Lo stesso atto del Requerimiento, che vien letto loro nella nostra lingua (che essi non conoscono affatto) impone di cedere qualsiasi cosa noi desideriamo, pena il massacro!”
“Infatti”, rispondeva Las Casas, “qui il diritto è il grande assente.”
“Va bene, ma chi può credere che gli indios non siano umani? Essi costruiscono abitazioni, strade, templi, parlano una lingua, creano dell’arte, si associano in famiglie, stringono amicizia, vivono in Stati, tengono assemblee, lavorano i campi, vari materiali ecc. Insomma, qualsiasi filosofo dai tempi almeno di Aristotele (se non da quelli di Socrate e di Platone) direbbe che ciò conferisce loro le caratteristiche di animal rationale, socialis et politicus!”
“Ma qui non c’entrano neanche la filosofia o la teologia. Certo, Dio ha creato il mondo e tutte le genti che lo abitano e ha creato anche i popoli delle Indie, che sono anch’essi umani. E poiché dal Cristo sono stati redenti tutti gli uomini ed anche gli indios sono uomini, allora sono stati redenti anche loro. Ma di fronte alla prospettiva dell’oro e del poter schiavizzare ogni uomo ed ogni donna, pochissimi vogliono onorare le ragioni di diritto, filosofia e teologia.”
“Allora”, concluse Pablo, “bisogna fare come Cortès e Pizarro: impugnare la croce al rovescio, a mo’ di spada… ma contro loro ed i loro amici.”
El fray sospirò e forse quel sospiro equivalse ad una benedizione.
“Pablo”, che cosa pensi?”, disse il capo Inca. Lui glielo disse e l’altro: “Las Casas è un nostro grande, grande fratello.”
“Già. E se non l’avessi mai incontrato, forse avrei partecipato anch’io a quei massacri.”
“No, un cuore generoso come il tuo si sarebbe rifiutato anche se certo, ci sono uomini che sono per noi come dei padri e le cui parole ci germogliano dentro dando frutti meravigliosi… rendendoci delle persone migliori.”
“Questo è verissimo, capo.”
“Ora ascoltami: stamattina ho avuto una visione, ho visto tanta gente. Parlava lingue forse non ancora nate, comunque subivano violenze ed inganni d’ogni tipo, a volte i loro oppressori non usavano le armi ma i testi sacri, i codici delle leggi, i versi dei grandi poeti e le sentenze dei filosofi più profondi, ricorrevano ai labirinti dei numeri e del calcolo. Ho visto i nostri fratelli del Messico che combattevano contro Cortès e quelli di un paese chiamato Frankenhausen… esiste un paese che si chiama così?”
“Sì, si trova in Germania, nel Vecchio mondo”, disse Pablo. “Là anni fa i contadini combatterono contro i nobili, ma furono sconfitti.”
“Ho capito. Ma ho visto anche i loro nipoti e gente dai vestiti e dai capelli strani, viaggiavano su carri di ferro con ruote di gomma. Ho visto i figli dei figli dei loro nipoti e dei nostri, anch’essi in lotta contro altri spagnoli… che forse si chiameranno diversamente. Vinceranno prima gli uni poi gli altri e così via daccapo, sarà duro distinguere tra le vittorie di chi considera l’altro uomo un cabròn, un caprone o un cane oppure uno schiavo e quelle di chi lo considera un fratello. Capisci ancora la mia lingua o passo al castigliano?”
“Continua pure col quechua. Ma alla fine chi vincerà?”
“Chissà. Comunque, tra qualche anno chi potrà sapere se tutti noi siamo mai esistiti? Ma finchè un uomo vorrà trattare il suo simile come un verme, bisognerà impedirglielo perché chi si comporta così è fatto non ad immagine di Dio ma del Diavolo… come dice anche el fray.”
Pochi minuti dopo un tiro incrociato di frecce, sassi e pallottole falciò una trentina di conquistadores.
Il tempo di raccogliere le armi dei loro nemici e Pablo e gli Incas si rimisero subito in marcia.

lunedì 15 agosto 2011

Per i bloggers e le bloggers che lasciano


A volte mi capita (penso che non capiti solo a me) di vedere che compagne/i di web decidano di chiudere il blog.
Al massimo lo lasciano in rete ma non ci scrivono più… allora le loro sono come delle bottiglie di parole che vagano nel mare dello spazio, del tempo e delle idee in cui alcuni di noi continuano ad aggirarsi con la tastiera.
E’ una decisione che rispetto, come in generale cerco di rispettare tutte quelle civili.
Eppure sapete, mi dispiace sempre, soprattutto quando si parla di persone con le quali scorgevo una certa affinità e  simpatia sul piano umano.
Talvolta ho scritto ad alcune/i di loro chiedendo (spero senza risultare fastidioso o invadente) di continuare, se potevano, a scrivere. A volte mi è stato risposto, altre no. Pienamente legittimo: forse quell’affinità non era così… affine o più semplicemente, chi ha deciso di ritirarsi preferiva dare davvero un taglio netto.
Tutto questo mi porta ad interrogarmi sui motivi che possono condurre una persona a voler evitare uno scambio come quello bloggistico, senza (repetita iuvant) però per questo pretendere di sindacare scelte altrui.
Bene, il motivo più grave può essere dato dalla salute, propria o di chi vive con noi.
Un altro può essere il tempo, di cui non si può disporre come si vorrebbe quando ci si trovi sotto la pressione del lavoro, dei doveri legati alla famiglia, da passioni diverse da quelle della scrittura sul web ecc.
Del resto, chi ha problemi di salute può averne anche di tempo, poiché deve utilizzare quello che ha per curare sé o per occuparsi di amici o parenti che appunto, non stanno bene.
Talvolta c’è chi scrive su fb e così dà l’addio al blog; o lavora a libri, articoli di giornale, riviste e così via.
Altro motivo può esser dato dalla pura e semplice noia o dalla mancanza di voglia; ogni tanto nella vita è bello cambiare ed in questo non c’è niente di male.
Perciò, ripeto: abbandonare il blog è una decisione, una scelta senz’altro legittima.
L’unica cosa che mi sentirei ma sommessamente di dire è che spiace vedere che chi non scrive più sul suo blog, spesso tronchi la comunicazione anche con persone con le quali non c’è mai stata neanche una lite.
Ma forse, se qualcuno si è allontanato in modo così drastico, qualcosa devo pur aver fatto… benché involontariamente.
Comunque spero sempre che chi ha lasciato torni, perché le cose che scriveva mi hanno fatto sorridere, riflettere ed in alcuni casi hanno anche ispirato quelle 4 scemenze che scrivo.
Quanto a me, temo proprio che continuerò ad infliggervi le scemenze di cui sopra perché io scrivo sempre, anche quando non pubblico e spesso anche quando dormo.
Scusate, mi pare che in cucina sia entrato qualcuno… ah, ma è I.I., il mio Interlocutore Immaginario! “Come stai I.I., tutto bene?”
“Sì. Senti, ma ‘sto post deve durare ancora molto? Guarda che se continui così poi ti metti a parlare di te e vai fuori tema.”
“E perché mai? Ho anch’io un blog quindi è giusto che parli anche di me.”
“Sarà… ma che bisogno c’era di dire che scrivi in cucina?”
“Questo l’hai appena detto tu.”
“Sì, ma io sono te. Insomma, noi siamo la stessa persona, possibile che non lo capisca? Come ha detto uno dei tuoi personaggi, per essere una persona intelligente sei molto stupido.”
“Non mi sono mai definito intelligente.”
“Va bene, lasciamo perdere. Senti, per ferragosto vai fuori?”
“Di testa?”
“Fa un po’ meno lo spiritoso e riservami un posto in auto ed a tavola, perché io a ferragosto me la spasso alla grande.”
“Allora rimani a casa: non ho nessuna intenzione di fare una figuraccia.”
“Va bene, va bene, scherzavo… Ma posso darti un suggerimento? Il prossimo post, scrivilo sul cardinal Danielou. E’ solo un suggerimento, beninteso.”
“Danielou era una persona straordinaria ma non accetto suggerimenti da te, anche se sei me. Però l’idea è buona. Ed ora saluta tutti.”
“Bene. Signore e signori, io e Riccardo vi salutiamo ed auguriamo un ottimo ferragosto, all’insegna dell’amore, dell’amicizia, del fantasmagorico rock-blues, del buon vino, degli stupendi malloreddus (gnocchetti sardi), del sole, del mare, dei laghi, delle montagne o eventualmente, all’insegna dei ruscelli. Cogliamo inoltre l’occasione per invitare i/le bloggers che avessero intenzione di ritornare sui loro passi, a farlo. Stateci bene o possibilmente, meglio. Ciao!”
(“Sono stato bravo, Riccardo?”)
(”Sì, I.I., bravissimo.”)
(“Non è che sono sembrato retorico, oppure troppo rigido, noiosamente filosofico o magari lunghetto?”)
(”No, stai tranquillo, hai fatto un grande discorso. Adesso però vai a metterti il costume.”).

martedì 2 agosto 2011

Le nuvole sopra Bologna


I binari corrono e scorrono,
si allungano sulle colline
si arrampicano sulle montagne…
una volta, ricordo… e ricordare è importante!,
si usava uno strano termine
(o che strano sembra ai giovani):
strada ferrata.

Gli alberi guardano i treni,
voi non ci crederete
(ma i miei nipotini ci credevano)
eppure quando un treno corre bene e sorride sincero,
gli alberi corrono con loro…
ma in amicizia.
Orribile esser stato assassinato,
anche se ero già così vecchio!

Prendere il treno e correre con lui, brava gente,
è come suonare il blues:
ma un blues allegro!
Quando prendevo il treno sentivo Langhston Hughes,
Langhston che cantava del Freedom train
il treno della libertà
che è reale solo se possono salirci tutti.
Altrimenti, aggiungevo ed aggiungo io,
è solo una presa in giro!

Vedevo Langhston
che faceva correre la sua penna
come io facevo correre le mie dita
sulla chitarra o sulla pelle della mia donna,
sentivo Jimi che cantava The wind cries, Mary
e davvero quel vento urla e piange
come il vento che fischia e la bufera che urla,
oggi come allora.
Non meritavo quella fine, non a 19 anni…
In realtà, non la meritava nessuno.

Una notte intera di nave e poi tante ore di treno,
da Cagliari a Civitavecchia ed infine a Bologna…
triplice o quadruplice provinciale
come diceva l’Antonio dei Quaderni,
io diretto non a Torino ma a Bologna
e non valevo neanche un millesimo di quell’uomo
ma fui stroncato anch’io dalla violenza fascista.

Non troverò più i miei secchielli o la mia palla.
A volte… a volte mi sembra…
sì, mi sembra di vederli ancora andare via,
rubati da un’onda burlona e ladra…
ma l’onda peggiore fu quella piena di fuoco,
quella mattina del 2 agosto.

In certe giornate
le nuvole sopra Bologna
non fanno vedere il sole:
neanche quando in cielo non esiste una nuvola.
In certe giornate
le nuvole sopra Bologna
non promettono grandine, fulmini né pioggia…
in certe giornate quelle nuvole
che “in realtà” non esistono
e che nessun meteorologo saprebbe spiegare,
ebbene, in quelle giornate
si tratta dei pensieri e delle anime dei morti
e dei vivi
che continuano a chiedere una giustizia
che raggiunga anche
chi mandò gli assassini.

giovedì 21 luglio 2011

La “Lauda" di Francesco di Angelo Branduardi


Quanto alle musiche, questo spettacolo si base su quelle dell’album L’infinitamente piccolo in cui Branduardi si è accostato con grande finezza alla figura di S. Francesco.
Ma questa Lauda non è un musical, benché gli elementi diremmo strutturali siano simili: musica, delle parti recitate, scene di danza ecc.
Ma nego l’appartenenza di questo spettacolo al mondo del musical non per attaccare quella forma artistica (che anzi apprezzo1) bensì per almeno cercare d’evidenziare come Branduardi si sia collegato proprio alla Lauda medievale… quella composizione poetica e musicale che se non erro, si sviluppò tra il XIII ed il XIV secolo; composizione di carattere e d’argomento religioso e che in Francesco toccò vette di particolare, notevole dolcezza ed ebbe un certo valore letterario.
E’ peraltro nota l’importanza che le composizioni di Francesco ebbe per lo sviluppo della futura lingua italiana; inoltre, io penso che lo stesso pensiero del Nostro meriterebbe un’analisi filosofica: questo anche volendo estendere il discorso oltre la dimensione religiosa del Poverello.
Ma torniamo allo spettacolo.
Le musiche sono di Branduardi, i testi di Luisa Zappa Branduardi, la regia è stata curata da Oreste Campagna, la coreografia da Alberta Palmisano, la scenografia da Paola Benvenuto. Francesco è stato interpretato da Alberto Salvi; Bernardo da Quintavalle, il primo seguace, è stato interpretato da Walter Tiraboschi, Chiara da Maria Tirelli.
La Lauda ha come voce narrante quella di Branduardi che compare nelle vesti di un trovatore; essi erano così chiamati “perché trovavano rime, accompagnandole col liuto.”2
Egli segue le vicende di Francesco fino al momento della morte, che chiamò sora nostra cioè nostra sorella. Nota bene: la Lauda inizia con un lungo estratto dall’XI canto del Paradiso di Dante… i versi 43-117, quelli in cui Dante celebra Francesco e che Branduardi ha musicato.
Forse quello è il “pezzo” musicalmente meno trascinante ma: 1) è già un’impresa musicare Dante; 2) comunque il tono scelto dal menestrello si imprime nella memoria: insomma, il brano rimane in testa.
Inoltre, durante tutta la Lauda Branduardi non fa di certo il mattatore, lascia anzi parecchio spazio agli attori ed al balletto. Di lui ci si accorge solo per le parti che si è ritagliato come musicista e come voce narrante.
Poi, quando attacca col suo violino le prime note di ogni pezzo, c’è da esaltarsi! A me, almeno, è successo. Inoltre egli, messo in un’occasione l’archetto da parte, ha suonato il violino con le dita e sembrava che da esso ricavasse degli arpeggi, come se avesse una piccola chitarra. Altro strumento da lui utilizzato, appunto una chitarra dalla forma inusitata: probabile antenata della chitarra moderna.
Molto sobria la recitazione dei protagonisti. Il Francesco interpretato da Salvi è gioioso senza essere troppo estatico e talvolta tormentato da un profondo sentimento di inadeguatezza e di impotenza a cambiare in profondità e permanentemente il cuore degli uomini. Ma anche in questo Salvi mantiene una certa misura.
Benché la spiritualità del Bernardo di Tiraboschi si basi spesso su alcuni (anche forti) sbalzi d’umore, perciò non paia sempre fondata sulla solida roccia che è invece tipica della fede di Francesco o di Chiara, è comunque la figura più simpatica.
Quel Bernardo è probabilmente necessario all’interno dell’universo francescano, che forse è più complesso di quanto non sembri: un universo quindi fatto di serenità ma anche di forti dubbi e di repentine esaltazioni.
Forse la figura di S. Chiara rimane un po’ troppo sullo sfondo ma del resto, lei avrebbe meritato una Lauda a parte. Tuttavia la Chiara della Tirelli risulta molto forte ed anche entusiasta, ma senza mai risultare esaltata.
Il brano che per intensità espressiva mi ha colpito di più è Il lupo di Gubbio.
Applicherei a quel lupo il discorso impostato da Eco nel Nome della rosa quando Guglielmo da Baskerville afferma che Francesco era sconfortato dalla durezza di cuore degli uomini; perciò non avrebbe predicato realmente agli uccelli3: quella sarebbe stata un’allegoria, figura retorica la cui importanza “per l’arte e la letteratura medievale” è stata ben colta da Auerbach.4
Analogamente, forse dovremmo intendere il lupo come un “malvivente” o come un “signorotto feroce, di quelli che frustavano a sangue i servi, strappavano gli occhi ai prigionieri, aizzavano i mastini contro i visitatori importuni, e legavano i nemici per i piedi alla coda di un cavallo in corsa.”5
Ma niente di quanto ho scritto può rendere la metà della bellezza dell’opera branduardiana, perché l’armonia tra l’essenzialità della scenografia (davvero… francescana), la fantasia ed il ritmo di musica e danza, la sobrietà comunque coinvolgente della recitazione ed il sapiente gioco di luci è davvero qualcosa di incantevole…


Note
1) Apprezzo infatti parecchio Jesus Christ superstar che però appartiene ad un universo di spazio, di tempo, di musica (rock-soul!) e di valori moderno. Gli stessi dubbi espressi dal Cristo di J.C. superstar, soprattutto quando dice a Dio nel Getsemani: “Va bene, uccidimi!”, sarebbero stati impensabili nell’ambito dell’ortodossia medievale.
2) Maria Sticco, San Francesco d’Assisi, O.R., Milano, 1994, p.24.
3) Umberto Eco, Il nome della rosa (1980), Bompiani “I Grandi Tascabili”, Milano, 1986, p.205.
4) Erich Auerbach, Studi su Dante, Feltrinelli, Milano, 1990, p.229.
5) M. Sticco, San Francesco d’Assisi, op. cit., p.169.

martedì 21 giugno 2011

La rivista “Coloris de limbas”


E’ uscito da poco il 1° numero della rivista semestrale di letteratura, arti visive, società ed attualità Coloris de Limbas, titolo che può essere tradotto con “Colori di (o delle) lingue"; infatti essa contiene contributi in italiano, sardo, castigliano, inglese e portoghese.
I testi non in lingua italiana sono comunque tradotti appunto nella lingua di Dante e trovo questo approccio multilinguistico davvero interessante: esso permette l’incontro tra uomini e donne che appartengono a culture tra loro anche molto diverse.
Del resto, tale approccio si collega alla storia di una città, Cagliari, che si è sempre trovata “tra” varie civiltà: fenicia, cartaginese, romana, araba, spagnola, pisana, genovese ecc. E considero lingue, sistemi di valori etici, sociali e così via dei ponti tra gli esseri umani.
Entrando nel… vivo della rivista, devo dire che ho trovato davvero valido pressoché ogni “pezzo” (articolo, racconto, poesia o disegno) da me finora visto.
Vari Autori o Autrici hanno toccato temi o atmosfere a me molto vicini: per es. la tragedia dei desaparecidos1 o quella dei migranti e dei minatori di Marcinelle, in Belgio2, laddove in un incidente morirono 262 minatori di varie nazionalità (ma la maggior parte italiani).
Trovo a me molto vicino anche l’articolo, dall’impostazione storico-saggistica di Nicoletta Lampis sul cimitero monumentale di Bonaria, a Cagliari3. Vicino perché anche su di me un luogo come quello ha sempre esercitato un certo fascino e perché visitare un cimitero (benché certo non costituisca un divertimento) non mi turba. Tra quei vialetti penso più del solito ai miei amici ed ai parenti scomparsi e mi sento in pace se non con me stesso, almeno con loro.
E quel che più conta, l’articolo di Nicoletta è animato da un tono di dolente pietas per le sfortunate donne che morirono giovani e nello stesso tempo, è sostenuto da una documentazione seria, rigorosa.
In Coloris troviamo poi un racconto di Alessandro Serra4 che si svolge proprio nel mio vecchio liceo… e prendete alla lettera il riferimento alla vecchiaia: quando il sottoscritto frequentava il liceo, aveva come compagno di banco il celebre Noè.
Ma tornando seri, c’è qualcosa di molto inquietante nella storia della passione frustrata della bidella per il professore di storia dell’arte che somigliava a Mastroianni; è una storia che potrebbe succedere e forse succede e comunque, quanti amori sono destinati a rimanere nel limbo della solitudine o sprofondano nell’inferno della follia?
Bene, il trait d’union della rivista, ciò che accomuna i vari “pezzi” consiste in una certa capacità visiva che ricorda quel che diceva Socrate, per il quale “un poeta, per essere veramente tale, deve scrivere per immagini e non per deduzioni logiche.”5
Dirò di più: il poeta non può far altro che uscire fuori di sé; in una sua canzone Van Morrison esorta così il poeta inglese del ‘600 John Donne: “Rave on, John Donne” cioè delira, vaneggia, John Donne.
Del resto uno ben poco incline ai vaneggiamenti come Kant disse: “Nessun Omero o Wieland potrebbe mostrare come si siano prodotte e combinate nella sua testa le sue idee, ricche di fantasia e dense di pensiero, perché non lo sa egli stesso, e non può quindi insegnarlo agli altri.”6
Comunque non è detto che la visività, che può anche essere intesa come visionarietà sia poi lontana dalla realtà: per es. nel pezzo di Annalisa Puddu7 assistiamo all’assopirsi (o alla morte?) del vecchio minatore che descrive i suoi “polmoni” come se fossero “di gesso” o di “carbone”: un riferimento forse questo alle malattie dei minatori o anche al trasformarsi il minatore nell’ambiente in cui ha lavorato e penato per tanto tempo.
Questi versi di Annalisa mi ricordano, ma con una forte dose di amarezza in più un canto indiano in cui un artigiano che sta costruendo un’ascia dice: “Io sono l’ascia,/ io sto fabbricando me stesso./ Noi due siamo una cosa.”8
Tuttavia quel pellerossa esprime gioia per la creazione del suo utensile fino ad identificarsi con esso; il minatore sardo (forse il padre di Annalisa?) manifesta un doloroso stupore nel vedersi diventare i materiali contro i quali ha combattuto per tutta la vita.
Eppure qualcosa consola quest’uomo quando dice: “Reclino la testa, è la mia prima volta. Il viaggio comincia, e sono farfalla.”9 Il riposo del minatore diventa leggero come non è mai stato e ricorda quanto disse nel VI sec. il cinese Lao Tzu sul vecchio che sognava d’essere diventato una farfalla.10
N.b: la rivista intende l’arte oltre che come creazione di opere appunto artistiche, anche come “liberazione dal disagio esistenziale”11 ed in effetti anche da quello sociale. Del resto, il bluesman John Lee Hooker è stato chiamato the healer, il guaritore: a testimonianza di come la musica possa guarire (secondo convinzioni mi(s)tiche e poetiche nel senso più alto del termine) dal dolore.
E già l’Aristotele della Poetica parlava della tragedia e della musica come catarsi, purificazione o cura dalle emozioni spiacevoli.
Nel film di Norman Jewison Hurricane sul pugile Rubin “Hurricane” Carter, ingiustamente condannato per omicidio, Rubin riesce a controllare la sua ira e la sua frustrazione attraverso la lettura e la scrittura; tutto ciò indica a Carter un senso ed una strada ben diversi da quelli che poteva trovare sul ring.12
Bene, mi sono dilungato parecchio ma se leggerete Coloris vedrete che lo meritava!

Note

1) Simonetta Murtas, Nunca màs. Le atrocità della dittatura argentina nelle parole di una giovane sarda, pp.30-32; Gianni Mascia, Plazas de Mayo, pp.33-34, testi di G. Mascia illustrazioni di Ferdinando Sanna, trad. dall’italiano al sardo di Gian Gavino Irde.
2) Eliano Cau, Animas affartadas, pp.55-56. La traduzione proposta dalla rivista rende “Animas affartadas” con “anime tristi.”
3) N. Lampis, Quel primissimo fior della vita. Suggestioni leopardiane nel Cimitero monumentale di Bonaria, pp.47-54.
4) A. Serra, L’amore e l’odio, pp.69-72.
5) Platone, Fedone, Garzanti, Milano, 1980, IV, p.77.
6) I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari, 1982, p.168. Ma Socrate anticipò forse Kant dicendo che “i poeti componevano le loro opere non facendo uso del loro cervello ma per una certa disposizione naturale, per una sorta di ispirazione, come gli indovini e i profeti.” Platone, Apologia di Socrate, Garzanti, Milano, 1980, VII, pp.11-12.
7) A. Puddu, La miniera, pp.57-59.
8) 49 Canti degli indiani d’America, Mondatori, Milano, 1997, p.25.
9) A. Puddu, op. cit., p.59.
10) Purtroppo, non avendo sottomano il testo di Lao Tzu cito a memoria. Ma la canzone di Branduardi Il vecchio e la farfalla, contenuta ne Alla fiera dell’Est mi sembra abbastanza vicina allo spirito del Cinese; cfr. A. Branduardi, Canzoni, a c. di Giampiero Comolli, Latoside editori, Roma, 1979, pp.106-107.
11) Gianni Mascia e Coloris de Limbas, Editoriale, p.1.
12) Su Carter Bob Dylan scrisse la famosa Hurricane, contenuta nel lp del 1975 Desire.

giovedì 12 maggio 2011

Su “Summer of ‘69” (e non solo) di Bryan Adams


Ci sono delle canzoni magari non tanto complesse ma di forte impatto. Se parliamo di rock, a me piace sentire una bella chitarra ritmica, una voce ruvida, un basso ed una batteria essenziali, un sax potente. Non sto dicendo che quello sia o debba essere il rock; sto dicendo che è soprattutto quello il rock che piace a me.
Fine della parentesi (di solito, dopo la decimillesima smetto).
Uno dei brani che per me dovrebbe essere insegnato in un’ipotetica università del rock ‘n roll è Summer of ’69 di Bryan Adams; in quella facoltà io farei al massimo le pulizie, ma pazienza.
L’estate del 1969 inizia con un duro riff di chitarra e racconta la tipica, forse l’eterna storia (sia pure senza troppo estro narrativo) del rock. I got my first real six-string/ bought it at the five-and-dime/1, canta il buon Bryan: avevo la mia prima vera chitarra/ comprata al five-and dime.
Il ragazzo di Summer dice: la suonavo till my fingers bleed, finchè le mie dita sanguinavano. Quando è molto giovane, per l’appassionato di rock quello è una questione di vita o di morte.
Ma: “Jimmy quit and Jody got married”; è anche il momento in cui qualcuno lascia il gruppo, qualcun altro si sposa ecc. Si cresce, come si dice; o si cambia.
Con la fine dell’estate che seemed to last forever, sembrava che dovesse durare per sempre, si vede come  niente possa durare per sempre. Comunque, il protagonista afferma: “Those were the best days of my life”, quelli erano i migliori giorni della mia vita.
Del resto: “Standin’ on your mama porch/ you told me you’d wait forever/ oh and when you held my hand/ I knew it was now or never/, seduti sotto il portico di tua madre/ dicevi che mi avresti aspettato per sempre/ e quando stringevi la mia mano/ sapevo che sarebbe stato ora o mai.
Ma ripetiamo: niente dura per sempre, né una rock-band né l’amore, se Adams canta: “And now the times are changin’/ look at everything that’s come and gone/ sometimes when I play that old six-string/ I think about you wonder what went wrong, ora i tempi sono cambiati/ guardo a tutto quel che è venuto ed andato/ a volte quando suono quella vecchia chitarra/ penso a te e mi chiedo che cosa andò storto.
Già, perché all’inizio del brano il protagonista dice che avrebbe dovuto sapere che non sarebbero mai andati far, lontano; comunque che cosa puoi fare quando sei young and restless, giovane ed inquieto?
Stando alla storia raccontata dagli ottimi Jagger e Richards in Street fighting man:But what can a poor boy do/ except to sing in a rock ‘n roll band/ ‘cause in the sleepy London town/ there’s just no place for street fighting man, ma che cosa può fare un povero ragazzo/ tranne cantare in un gruppo rock/ perché nella sonnolenta Londra/ non c’è proprio posto per un combattente di strada.2
E la città del protagonista di Summer non è Londra, probabilmente è solo una piccola città di provincia; Adams sviluppa il tema nel singolo Rebel, contenuto in Into the fire.
Del resto, come canta zio Bruce in Rosalita:Now I know your mama, she don’t like me ‘cause I play in a rock/ and roll band”, so che non piaccio a tua madre perché suono in un gruppo rock.3
Comunque, in fondo che cosa cercava il protagonista di Summer? Un po’ di divertimento, l’amore, seguire strade creative e forse, diverse… magari con una chitarra in mano. Forse questo era troppo, o troppo poco… chissà.
In Summer Adams canta: “And if I had a choice/ Ya- I’d always wanna be there, se potessi scegliere/ vorrei essere sempre lì; ancora ”nell’estate” del 1969, insomma.
Il che ci porta a chiederci: ma il rock non sarà un sogno d’eterna giovinezza, qualcosa quindi di impossibile e forse anche di poco sperabile?
L’idea o l’ipotesi è tutt’altro che peregrina, ma io penso che valga solo per chi decida di fermarsi lì; non vale per chi decida d’andare avanti e d’utilizzare il rock come una grande fonte d’energia e d’ispirazione per la propria vita… perfino quando non faccia più attivamente del rock.
Infatti, come scrive Dave Marsh nel suo 2° libro su Springsteen (Glory days) col tempo sembra che quei pochi accordi diventino + importanti di quando avevamo 17-19 anni, benché (questo lo dico io, per quel poco che vale il mio pensiero) ad un livello più complesso e problematico.
Di certo, come ho detto in altri post rifacendomi ancora a Marsh, nella stessa Born to run di Bruce ed in quelle auto lanciate in corsa possiamo trovare del fatalismo, una sorta di condanna a correre… come in una versione moderna del mito di Prometeo… con tanti Prometei, ognuno incatenato in eterno a quelle 4 ruote.
Ma (ecco la complessità tematica di una musica tecnicamente poco raffinata come quella che piace a me) già nel successivo Darkness on the edge of town Bruciuzzo iniziò a parlare anche d’altro.
Alla fine, condivido il parere del grande Dylan quando in Forever young canta: “May you have a strong foundation when the/ winds of changes shift”, possa tu avere una base solida quando soffiano i venti del cambiamento.4
Tornando ad Adams: quella base strong, forte, solida ti permette di fare la tua scelta anche con la giusta dose di dubbio, che però non impedisce appunto la scelta.
Infatti in Rebel Adams conclude: “For a moment he stands undecided/ looking back on the days of his youth/ as two worlds collide in a moment of truth/, per 1 istante rimane indeciso/ guardando indietro ai giorni della sua giovinezza/ come 2 mondi che si scontrano nel momento della verità.
Per un istante, ma poi capiamo che il protagonista di Rebel lascerà la città benché pensi a suo padre ed al padre di suo padre “prima di lui” ed a come lui sia o sia stato “il primo ad andarsene.”
Insomma: un po’ di rimpianto, che è anche un legame col passato rimarrà, perché noi siamo anche il nostro passato… ma non si vivrà in un’eterna estate o in una continua giovinezza.
Del resto, come canta Adams in Summer “non c’è alcun vantaggio nel lamentarsi” “when you got a job to do”, quando hai un lavoro da fare.

Note

1) Non so tradurre l’espressione “five-and-dime”, che comunque dovrebbe corrispondere a qualcosa come un negozio di articoli venduti a basso prezzo.
Comunque, per i testi di Adams cioè Summer of ’69 e Rebel il colpevole delle traduzioni sono solo io.
2) Per la traduzione dei versi di Street fighting man dei Rolling Stones mi sono avvalso del lavoro compiuto da Pani Galeazzi in “Rolling Stones. Volume primo, Arcana editrice, Milano, 1983, pp. 186-187.
3) Dei versi di Rosalita ho proposto la versione che troviamo in Bruce Springsteen, Arcana editrice, a c. di Guido Harari, Milano, 1981, pp.80-81.
4) Per la traduzione dei versi di Forever young cfr. Bob Dylan. Tutte le canzoni (1973-1980), Lato side 41, Milano, 1980, pp. 56-57.
D’eventuali errori, forzature ecc. sono… fucilabile solo io.

sabato 23 aprile 2011

“Nanneddu meu”, di Peppino Mereu


Nella poesia Nanneddu meu Mereu si rivolge al suo grande amico, il dott. Nanni Sulis (Nanneddu significa Giannino, Giovannino ecc.); essa consta di 33 strofe, ognuna composta di 4 versi.
Di Nanneddu esistono varie versioni musicali: una è quella che fu eseguita a suo tempo dai Tazenda del grande e purtroppo scomparso Andrea Parodi; ne esistono comunque molte altre: molto bella anche quella del Coro Su Nugoresu (il nuorese) e quella del Coro di Neoneli, col quale ha collaborato anche Elio delle storie tese.
La 1/a strofa inizia coi versi che concludono il brano: “Nanneddu meu,/ su mundu est gai,/ a sicut erat/ non torrat mai”, Giovannino mio, così va il mondo, com’era un tempo non torna più1.
A quale tempo allude Mereu? Ad uno forse felice o che almeno, fu migliore dell’attuale; un tempo mitico? Chissà.
Intanto, possiamo notare l’ironia del latino sicut erat che a sua volta potrebbe rimandare al “latino da chiesa” di cui parlava Rimbaud nella Stagione all’inferno2.
Non sappiamo se Mereu, che era un autodidatta abbia mai letto Rimbaud e quali siano state, in generale, le sue letture; tuttavia gli si ascrive una “conoscenza del latino e della mitologia classica.”3
Il sicut di Peppinu ricorda il sicut in caelo et in terra (Matteo, 6,10), come in cielo così in terra che segue il fiat voluntas tua del Padre nostro. Ma se in quella preghiera si chiede che sia fatta la volontà del Padre, come vedremo Mereu dice come quella volontà (non certo per colpa del Padre) non si compia.
Quel sicut chiede infatti che ci sia dato il “pane quotidiano” (Mt., 6,11). Ma qual era la situazione che sperimentavano sia Mereu che tanti suoi contemporanei?
Como sos popolos/ cascant che cane,/ gridende forte:/ Cherimus pane, ora i popoli sbadigliano come cani affamati, gridando a gran voce: vogliamo pane. Ma noi: “Affamati, mangiamo pane di castagne, terra con ghiande.”4
Si verifica così un’evidente ed inquietante regressione sul piano morale ed umano se Mereu aggiunge: “Siamo assetati, alle fontane, lottando per l’acqua, sembriamo rane”5 ed ancora: “Avvocatucci, laureati, a tasche vuote e spiantati nelle campagne mangiano more, come capre magre lungo le siepi.”6
Ripeto: la regressione investe qui la stessa sfera umana e morale, si fa vera e propria involuzione; la fame conduce a negare in sé stessi l’umanità. Del resto, a proposito del pane Gramsci studiava con doloroso stupore l’atteggiamento dei suoi compagni di detenzione ed anche in lui si trova un’analisi del Pater noster e del pane quotidiano.7
La fame, il non potersi procurare il necessario per vivere neanche dopo lunghi e faticosi anni di studio8, la miseria che da fatto economico conduce ad una dimensione animalesca, non-umana, in Mereu sembra evocare un’autentica danse macabre. Una danza macabra ed insieme, folle.
Ma qui, a differenza dei celebri dipinti (tra gli altri) di Bosch, gli invitati al ballo non sono scheletri né figure comunque stregonesche bensì povera gente che cerca solo di sbarcare il lunario. E certo, questa condizione ricorda parecchio quella “generale tensione degli spiriti vitali” di cui parlava Gramsci nella lettera citata.9
Ed il ditirambo di Mereu colpisce con tutta la violenza che è concessa a chi con la sua arte si fa voce di chi, storicamente, non ne ha mai avuto.
Del resto egli: “Figlio di medico proprietario, si ribellò alla famiglia ed alla sua condizione piccolo-borghese” e dopo aver attraversato una profonda crisi esistenziale, diventò “su cantadore malaittu”, che “ripudiato dai ricchi parenti borghesi, viene assunto dalla comunità popolare tonarese a coscienza critica dell’ingiustizia sociale e dell’egoismo di classe.”10
Ancora, in Nanneddu si parla della filossera (Mereu morì nel 1901) e di impostas, tasse che nos distruint/ campos e binzas, ci distruggono i campi e le vigne.
Addirittura: “Terra c’a fangu/ torrat su poveru, la terra trasforma il povero in fango.11 Quella stessa terra che dovrebbe sostenere l’uomo diventa la sua maledizione; anzi, se prima alcuni regredivano allo stadio animale, ora eccoli perdere perfino la dimensione senziente, eccoli inghiottiti dalla materia inanimata.
Il furore del Nostro non risparmia neanche la Chiesa perché: “S’intulzu apostolu/ de su Segnore/ si finghet santu,/ ite impostore!”, l’avvoltoio del Signore si mostra santo, che impostore!12 E mentre Mereu attacca gli sgherri dell’avvoltoio, afferma con amarezza che tutti noi ci combattiamo l’un l’altro “Pro pagas dies/ de vida in terra, per pochi giorni di vita.13
Così non ci uniamo per cambiare alla radice questa situazione e coltiviamo solo la discordia, se non la classica guerra tra poveri,… sì che alla miseria si aggiunge la lacerazione del tessuto umano e sociale.
Tutto ciò perché “Semus in tempus/ de tirannias/ infamidades/ e carestias, viviamo in tempi di tirannia, soprusi e carestia: Mereu aveva infatti una chiara visione dei problemi storico-sociali della Sardegna e forse, non solo di quella.14
Certo, sia in Nanneddu che in altre poesie Mereu ha spesso un tono violento, in apparenza volgare, plebeo. Ma qui bisogna distinguere: il Gramsci del periodo “torinese” opererà appunto una fondamentale distinzione tra essere volgari e plebei.
Per Gramsci è volgare l’esibizione di un buon cuore che non si possiede, il che conduce spesso ad elargire doni tanto sfavillanti quanto inutili, espressione quindi un “filantropismo spagnolesco che irrita, non benefica.”15
E’ plebeo invece chi polemizza anche aspramente ma con finalità etico-sociali e mai per porsi in luce con alcuno, né per “una bassa ragione di risentimento personale.”16 Mereu è plebeo in questo senso: lo stesso che rivendicava per sé Gramsci.
Inoltre Peppino esclama: ”Scellerati, affamati, ladri, creiamo disordine e non si opponga nessuno.”17
Io penso che questo sia solo uno scherzo amaro, fatto per aggiungere nuovi “attori” a quella danza macabra che era iniziata con esseri umani che sbadigliano come cani affamati, mangiano terra con ghiande, uomini mutati in fango, altri assimilabili a capre o a rane e che si aggirano per la campagna… braccati da corvi ed avvoltoi “umani.”
Peraltro, le relazioni parlamentari del tempo, evidentemente non tenute alla presentazione di immagini di una poesia diciamo visionaria, non sono lontanissime dai versi di Mereu.
Risulta infatti da un’inchiesta condotta dal deputato Pais Serra su incarico di Crispi (con decreto ministeriale del 12 dic. 1894) che in vaste aeree della Sardegna si era ormai creato un intreccio davvero perverso comprendente criminalità comune, corruzione ed intrighi spesso orditi da funzionari ed amministratori pubblici, nascita illecita di grandi patrimoni ecc.18
E già tra il 1880 e l’82 l’avv. Salaris parla di chi “ è costretto a vagare di campo in campo in traccia di cardi selvatici, o di altre erbe per sfamare la sua famiglia”19; il viaggiatore francese Gaston Vuillier vede dei contadini che si sfamano con un “pane di ghiande, d’orzo e d’argilla.”20
Così, la ribellione cui Mereu pare inviti i sardi del suo tempo non parrebbe troppo irrazionale. Inoltre, la Sardegna fu spesso terreno di scontro armato tra dominatori prima spagnoli e poi sabaudi da una parte e popolo e nobiltà sarda dall’altra; il che abbracciò (benché con qualche stasi) il periodo compreso tra l’inizio del ‘600 e buona parte dell’’800. 21
Si può così parlare di “autentici corpi di guerriglieri che battono la montagna dopo aver rotto tutti i legami con la società civile.”22
Lo stesso Garibaldi denunciò come già dopo il 1860 un sistema economico-sociale iniquo avesse prodotto “nella parte meridionale della penisola, l’anarchia, il brigantaggio e la miseria”23.
La tesi di Garibaldi sarà riproposta ed ampliata, certo con maggior rigore argomentativo dal Gramsci che nella Questione meridionale parlerà (ma senza assolvere le locali camarille) de: “La borghesia settentrionale” che “ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento.”24
Naturalmente, come diceva Socrate “un poeta, per essere veramente tale, deve scrivere per immagini e non per deduzioni logiche”25; così, Mereu non era tenuto alla formulazione d’analisi di tipo storico, economico-sociale ecc. Eppure dal suo cuore di poeta e di uomo geniale, tormentato e generoso fuoriusciva comunque tutto lo sdegno per uno stato di cose ormai insostenibile… ed egli sapeva individuare e centrare i bersagli giusti.
Quando poi dice a Nanni: “Adiosu, Nanni/ tenedi contu,/ faghe su surdu,/ ettad’a tontu, arrivederci, Nanni, rifletti su questo, fai il sordo e fingi di non capire26, è come se lo invitasse ad indossare una maschera di bonomia. E’ come se dicesse: noi non la beviamo, conosciamo i rapporti di forza, sappiamo chi e dove siano i nemici ma per ora, fingiamo d’essere stupidi.
Questo è un atteggiamento che spesso gruppi e classi subalterne hanno dovuto assumere quando si trovavano nell’impossibilità di cambiare le cose: anche a costo di confermare nei loro dominatori l’idea di un’inferiorità sul piano morale, intellettuale ecc.27
Ma benché Mereu auspichi un radicale cambiamento28, egli non appoggiò mai il banditismo o fenomeni simili. Io penso che non avrebbe considerato, alla Satta, i banditi “belli, feroci e prodi”29 ma anzi, avrebbe condiviso il tagliente giudizio di Dessì.
In ogni caso, per Mereu lo scopo ed il senso dell’esistenza umana consiste nel superamento di tutte quelle ingiustizie e sofferenze che ci opprimono; per lui bisogna essere liberos, rispettados e uguales.30
Ed in questo spirito faccio a tutti voi i miei migliori auguri di buona Pasqua e di buona festa della Liberazione!


Note

1) Peppinu Mereu, Poesias, a c. del collettivo di ricerca « Peppinu Mereu », Sassari, 1978, pp.88 e 93.
2) Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno, Ten, Roma, 1995, p.57.
3) Nota biografica a c. del collettivo di ricerca “P. Mereu”, in P. Mereu, op. cit., p.16; egli inoltre, lesse i libri della “biblioteca paterna”; ibid. Il padre di Mereu era un medico.
4) P. Mereu, op. cit., pp. 88 e 93.
5) Ibid., p.94.
6) Ibid., p.94.
7) A. Gramsci, Lettere dal carcere, a c. di R. Uccheddu, D. Z. Editore, Cagliari, 2008, p.52.
8) Riferimento all’avvocazia, la classe degli avvocati; cfr. P. Mereu, op. cit., p.91.
9) A. Gramsci, op. cit., p. 51.
10) F. Masala, Un poeta, a Tonara, in P. Mereu, op. cit., pp. 10, 13. Senza nulla togliere ai maudits francesi, Masala traduce “cantadore malaittu” con “poeta maledetto.”
11) Ibid., pp. 88, 93.
12) Ibid., pp. 92, 94.
13) Ibid., pp. 92, 94.
14) Cfr. A Genesio Lamberti, in Ibid., p. 69 sgg.
15) A. Gramsci, Sotto la Mole (1916-1920), Einaudi, Torino, 1960, p.20.
16) A. Gramsci, op. cit., pp.38-39.
17) P. Mereu, op. cit., p. 95.
18) Manlio Brigaglia, Storia e miti del banditismo sardo, La biblioteca della Nuova Sardegna, Sassari, 2009, pp. 86-90.
19) M. Brigaglia, op. cit., p. 83. I corsivi sono miei.
20) Ibid., p. 84.
21) Ibid., pp. 47-60.
22) Ibid., p. 49.
23) G. Garibaldi, Clelia: il governo dei preti, a c. di R. Uccheddu, D. Z. Editore, Cagliari, 2008, p. 136.
24) A. Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma, 1969, p. 132.
25) Platone, Fedone, Garzanti, Milano, 1980, IV, p. 77.
26) P. Mereu, op. cit., pp. 93, 95.
27) Nel caso dei Neri d’America abbiamo la deliberata autocaricatura che si trovava in spettacoli comico-musicali come la negro-minstrely, vicina nello spirito all’umorismo yiddish, quello ebraico-orientale; su questo cfr. F. Valentini, Sulle strade del blues, Gammalibri, Milano, 1984, pp. 81-85. Vi è poi un legame tra il parlare con “infinite sottigliezze”: F. Valentini, op. cit., p. 103 e le parole del siciliano principe di Salina sullo “spaccare i capelli in quattro”; cfr. Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, Feltrinelli, Milano, 158/a ed., p.161.
28) Mereu “manifesta idee che si ispirano al nascente movimento socialista”; cfr. Nota biografica, cit., pp. 17-18.
29) G. Dessì, Un pezzo di luna, Edizioni della torre, Cagliari, 1987, p. 86. Per Dessì i banditi “di oggi” sono “volgari ladri di strada, bastardi criminali”; G. Dessì, op. cit., p. 87. Ma con quel “di oggi”, in fondo neanche Dessì sembra del tutto immune dal fascino (?) degli antichi banditi.
30) Nota biografica, cit., p. 18.

sabato 12 febbraio 2011

Per il 2011… per “tutti”, anche per i prossimi!


Sia pure fuori tempo massimo, auguri di felice anno nuovo a tutti quelli che (l’anno scorso) hanno fatto o (questo) faranno qualcosa per chi soffriva o soffre gravi malattie o disoccupazione, amore deluso o tradito, falsi amici  e per la perdita di persone care.
Auguri chi è stato o sarà voce di chi non può far arrivare la sua a chi sta molto, anzi troppo in alto…
Auguri a tutti i lavoratori che difendono il loro posto ed i loro diritti, perché senza diritti il lavoro è schiavismo.
Auguri a chi pensa che la pace non possa esistere senza la giustizia, perché come diceva S. Agostino nella Città di Dio, gli Stati senza giustizia sono solo magna latrocinia, grandi associazioni di delinquenti.
Auguri a chi con una penna o una chitarra, una cinepresa, uno scalpello, con le mani, un pennello o la voce ha creato Bellezza senza aprire prima il portafogli.
Auguri a chi pensa che la vita e la libertà non possano esistere senza un pensiero che scavi sempre: infatti, come diceva Socrate a chi aveva già deciso di condannarlo a morte (Platone, Apologia di Socrate): “Una vita senza ricerca non è degna d’esser vissuta.”
Auguri a chi crede che l’allegria ed il gioco siano cose troppo serie e belle per abbassarle a volgari schiamazzi.
Auguri a chi non si prende troppo sul serio ma non per questo fa carta straccia delle sue convinzioni.
Auguri anche a chi non ha mai condiviso questi pensieri ma inizierà a coltivarli.

Ed ora, se permettete, vorrei fare gli auguri anche a me stesso. Lo so, di solito non si fa… ma vi chiedo d’aver pazienza.
Chi segue questo blog sa che talvolta discuto con I.I., il mio interlocutore immaginario; allora pensate che stia parlando con lui e non badatemi…
Quindi… auguri anche a me stesso soprattutto ora che sto imparando ad accettarmi (non a piacermi, sia chiaro!).
Infatti Marco Aurelio avrà anche avuto ragione di dire: “E’ difficile per un uomo sopportare sé stesso”… ma io dico che chi non lo fa, chi non riesce a sopportarsi, poi vive un Infernuccio niente male.
Perciò auguri anche a te, Riccardo!
Grazie!

Chiudo il post dicendo: auguri di vero cuore a tutte, a tutti; non potremo esser sempre bersagliati dalla grandine; parola di scrittore ed armonicista idrofobo.
State bene, stiamo bene… per quanto possibile, ma senza esitazioni.
Al prossimo post... speriamo non a Pasqua!