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sabato 24 maggio 2014

Su “Senza tregua”, di Giovanni Pesce


Presentazione generale

Giovanni Pesce (1918-2007) è stato uno dei grandi comandanti dei GAP (Gruppi di azione patriottica) una formazione partigiana che durante la Resistenza davvero non diede tregua ai nazifascisti. Il suo libro non possiede però il carattere spesso retorico o accademico della memorialistica e di certi lavori storici, quel che non di rado allontana molti lettori.
Senza tregua è infatti scritto col ritmo e la densa concisione di un ottimo romanzo, ma le vicende narrate dall'A. non sono frutto di fantasia: le scene delle battaglie contro i franchisti (i fascisti spagnoli), quelle delle azioni contro le spie repubblichine (i fascisti italiani che aderirono al regime-fantoccio di Salò, che agiva alle dirette dipendenze dei nazisti) sono vere, così come lo sono le descrizioni dei vari scontri armati in montagna ed in città, l'esecuzione di traditori, torturatori (nazisti e fascisti), di soldati e poliziotti, rastrellatori ecc.
Né è meno vera la descrizione di quel perverso insieme di ferocia e scherno che guidava l'azione repressiva e criminale oltre che dei nazisti, anche dei loro complici fascisti: quel che si manifestava perfino davanti ai corpi “massacrati” e “quasi irriconoscibili” di quindici uomini appena fucilati e lasciati per quasi una giornata sotto il sole, senza sepoltura, a cui si negarono i conforti religiosi ed ammucchiati per strada come nient'altro che spazzatura.1
Eppure Giovanni non indugia su questi orrori: li ricorda con grande dolore e con un senso di umana pietas, così come denuncia con un senso di repulsione il “volto” di un repubblichino che di fronte allo scempio fatto da lui e dai suoi compagni di quelle povere vite, “ride istericamente”2
Ma poi Giovanni va avanti, perché sa leggere le vicende di quella guerra in un modo che non si limita solo ad essa: egli inquadra infatti gli scontri della II guerra mondiale come uno scontro tra visioni inconciliabili della vita e del mondo.

Lo scenario nazifascista

Del resto, i nazisti cercarono di giustificare la loro barbarie con la “proclamazione del principio della superiorità del popolo germanico come Herrenvolk”;3 Herrenvolk cioè popolo di signori mentre pressoché tutti gli altri “gruppi etnici o anche sociali” erano considerati “minderwertig (inferiori) razzialmente.”4
Queste deliranti idee prevedevano l'occupazione di vastissime aree di territori europei (soprattutto ad est), la loro “germanizzazione”, ciò che comportava come conseguenza finale la progressiva soppressione fisica dei popoli ivi residenti.5
All'eliminazione quindi di circa 6 milioni di ebrei, 3 di zingari, 1 di omosessuali e di varie centinaia di migliaia di resistenti, avrebbe dovuto seguire anche quella di vari altri milioni di slavi, persone per vari motivi ritenute anch'esse inferiori come per es. artisti “depravati”, vecchi, oppositori politici, “asociali”, uomini e donne con gravi handicap fisici, mentali ecc. Ed in non piccola misura, il regime hitleriano realizzò questi piani.
Comunque, alla fine della guerra si contarono oltre 50 milioni di morti e le crudeltà e le violazioni di ogni norma morale, civile, razionale e giuridica da parte nazifascista sono rimaste tragicamente proverbiali.
Basti pensare oltre ai lager ed alle camere a gas, alle stragi di Marzabotto, Sant'Anna, Cefalonia, Fosse Ardeatine ecc., all'esempio costituito dalla città olandese di Rotterdam. I militari olandesi accettarono la resa imposta dai nazisti che avevano minacciato “di radere al suolo la città. Gli olandesi accettarono la resa, ma mentre si svolgevano le trattative, la Luftwaffe, a buon conto, distrusse la città.”6 Tale bombardamento costò la vita a circa 900 persone e provocò quasi 80mila senzatetto.
Ed il regime fascista condivise i piani nazisti, rendendosi per esempio complice della deportazione degli ebrei italiani.7
Del resto, a riprova del carattere indiscutibilmente criminale del fascismo, Mussolini dichiarò che esso: “Non crede alla possibilità né all'utilità della pace perpetua”; per esso: “Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla.”8
L'esaltazione quindi della guerra, considerata dal fascismo addirittura come fatto dotato di dignità morale, il disprezzo per i valori della pace, della giustizia e della riflessione critica, si collegavano alla negazione della stessa uguaglianza, se Mussolini disse che: “Il Fascismo (…) afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini.”9
Esisteva dunque tra fascismo e nazismo un'affinità, un forte e comune sentire che condusse i due regimi ad un'alleanza che si rivelò del tutto naturale. Questo, benchè la Germania nazista possedesse rispetto all'Italia fascista una netta superiorità economica, tecnologica e militare che del resto, Hitler non mancava mai di far pesare all'alleato italiano. Si tratta: “Dell'ambigua situazione dell''alleato occupato' ricostruita di recente dal Klinkhammer”, alleato cui però Hitler riconosceva una “'primogenitura' sul piano politico”10

La guerra di Giovanni e dei GAP

Giovanni, nome di battaglia Visone (probabilmente perché originario di Visone d'Acqui, in Piemonte) esordì come combattente antifascista nella guerra civile spagnola.11
Già nei primissimi capitoli del libro si spiegano bene senso e direzione della lotta di quest'uomo, che non si atteggia mai a “superuomo” (falso mito, quello, tipico della sottocultura nazifascista): Giovanni, che da ragazzo fu minatore sente per natura un legame speciale col mondo del lavoro ed appunto coi suoi componenti, se scrive: “Cento fili mi legavano ai minatori: i loro sigari e le loro pipe m'erano familiari non meno del cigolio intermittente della porta d'ingresso: di ognuno conoscevo il volto, l'umore, anche se non capivo sempre la lingua.” 12
L'incomprensione (iniziale) della lingua derivava dall'essere egli “il figlio dell'operaio piemontese fuggito in Francia per non subire la prepotenza dei Cesarini di ieri e di oggi.”13 Cesarini, responsabile della deportazione di “centinaia di operai e di tecnici, quasi tutti ad Auschwitz”, era infatti “l'immagine stessa del fascismo repubblichino.”14
Così, ogni partigiano conduceva una lotta che non era solo militare ma che anzi coinvolgeva visioni morali, politiche, culturali diametralmente opposte a quelle nazifasciste. Infatti, ad un certo punto Visone scrive: “Mando a dire ai miei gappisti che ci sarà una breve pausa e che ne approfittino per leggere e studiare, come insegnava Gramsci.”15
Possiamo immaginare un ufficiale nazista o repubblichino raccomandare ai suoi sgherri di leggere alcunché? E' molto più facile che invece costoro andassero (come testimonia Visone) per bar ed osterie, dove si rilassavano dopo un'infame giornata di rastrellamenti, torture e massacri, in compagnia di prostitute e dandosi a grossolane chiassate, volgari scherzi, sbronze ecc.
Ben diversa la statura morale di un uomo come Curiel 16 , così come quella di Matteotti, di Gobetti, don Minzoni, Pertini, Gramsci, dello stesso Pesce e di tanti altri, grandi figure di uomini e donne rimaste magari anonime.
Qui penso alle staffette, penso soprattutto a certe giovanissime ragazze che pur consapevoli dei rischi mortali e delle intollerabili offese che potevano subire sul piano intimo, non solo accettarono di correre certi rischi, ma mantennero una freschezza ed una naturalezza davvero commoventi. E con pochi ma poetici tratti di penna, l'A. ha saputo consegnarle al nostro ricordo. Ed alla nostra riconoscenza.
Del resto quel legame speciale che il movimento partigiano ebbe con la classe operaia e col mondo contadino, dipendeva dal provenire partigiani/e proprio da quello, o (quando l'origine sociale di alcuni/e di loro era altra), comunque dal loro battersi per chi ha sempre subito il peso della struttura sociale. Partigiani come “avanguardia in armi” dei lavoratori17; lavoratori che col grandioso sciopero del marzo 1944 nell'Italia del nord, che la “Voce di Londra” definì “unico, finora, nella storia della guerra”18, diedero alla lotta contro il nazifascismo uno straordinario appoggio morale, politico ed anche pratico: per es. sabotando la produzione bellica di cui appunto il nazifascismo si avvaleva.19
Certo non vi sarebbe stata liberazione dal nazifascismo se la Resistenza non avesse potuto contare su un coraggioso e costante appoggio popolare. Come dice magistralmente Giovanni, si trattava di: “Brava gente che non aveva nulla da guadagnare con me, ma tutto da perdere.”; ed aggiunge: “Questo è qualcosa di più della bontà. E' l'antica aspirazione alla giustizia.”20

Giustizia e diritto di resistenza

La distinzione di cui sopra è fondamentale perché quelle che Gramsci ha definito “classi subalterne”, hanno dovuto vivere una bontà che era poi sottomissione, rinuncia ai propri diritti e spesso alla stessa vita, accettazione di abusi, umiliazioni, sfruttamento lavorativo, abbruttimento psicofisico, violazione della propria sfera intima, repressione militare e poliziesca... negazione insomma di quella irrinunciabile dignità cui ha diritto ogni essere umano.
Ma la giustizia distrugge questa crudele e complessa trappola: la giustizia, che Ulpiano definì come “volontà costante e perpetua di dare a ciascuno il suo”21 e che per Aristotele è la “virtù più eccellente”: anche perchè appunto egli citando il poeta Teognide la dipinge come ciò in cui “si riassume ogni virtù.”22 E tutto questo perché chi possiede ed attua la virtù della giustizia è capace di servirsene “anche nei riguardi del prossimo; e non solo in relazione a se stesso”; soprattutto, “noi diciamo 'giusto' ciò che produce e preserva la felicità, e le parti di essa, nell'interesse della comunità politica.”23
Attenzione: il Greco parla di comunità politica, non di alcune sue parti o di determinate classi; parla quindi di una giustizia che deve esistere per tutta la comunità e senza limitazioni di tempo, di spazio, di cultura ecc. Per essere tale, la giustizia deve quindi essere completa, totale: di essa, insomma, devono godere tutti e sempre.
Ma quando sia negata la natura sociale ed egualitaria appunto della giustizia, allora non si potrà pretendere che chi subisce la violenza di un potere ingiusto, continui a subirlo. La stessa bontà fornirebbe il miglior puntello ad una tirannide che a quel punto non incontrerebbe più alcuna opposizione.
Nel corso della storia tanti pensatori hanno elaborato il concetto di un diritto di resistenza dei popoli ad un potere che violi le leggi di giustizia. Già nel XII secolo un allievo di Abelardo, Giovanni di Salisbury, parlò della legittimità del tirannicidio che consiste nell'uccisione di un sovrano ingiusto o comunque nella ribellione ad un potere brutale.24 Tali atti sono giustificati dal fatto che chi governa è tenuto alla strettissima osservanza di legge ed appunto giustizia, sì che propriamente parlando, egli più che un governante è un servo di legge e bene comune: che non può tradire in nessun caso.25
Dopo l'uomo di Salisbury il concetto di tirannicidio fu ripreso anche da altri26 e perfino prima che ai rivoluzionari francesi, a quelli marxisti o a quelli anarchici, dobbiamo ad un teorico del liberalismo (!) come l'inglese Locke un'esplicita teorizzazione del diritto di resistenza, che lui chiama anche di guerra. Egli formula chiaramente quel diritto nell'opera Due trattati sul governo (1689). 27

Conclusioni

Si vede quindi bene come nel nostro (ed in ogni altro) Paese ferocemente oltraggiato dal nazifascismo, il diritto di resistenza fosse indiscutibile. Inoltre, tale diritto condusse all'effettiva liberazione perché tra masse popolari e movimento partigiano si realizzò una fortissima e naturale saldatura.
Quel che sarebbe stato impossibile se di fronte ad uno spietato ed organizzatissimo avversario come quello nazifascista e di fronte al servile complice fascista, lo scontro si fosse svolto solo sul terreno militare: dimensione in cui la Resistenza era più debole.
Ma la Liberazione avvenne perché (per citare Pascal): “Il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce.”28
La ragione avrebbe detto ai resistenti che i nazisti erano invincibili, o almeno che era meglio attendere l'arrivo degli Alleati; il cuore diceva che bisognava battersi comunque e quello, il cuore, vinse.
Così, ricordando il 25 aprile a Milano, Giovanni scrive: “Io, in mezzo a tutta questa gente, a questi operai, a questi giovani, a queste donne mi sento immerso in un grande mare di affetto”; ed ancora: “Dietro di noi a sorreggerci, ad aiutarci, a sfamarci, a informarci, c'è sempre stata questa massa di popolo.”29
A noi, oggi, il compito così difficile ma anche così bello di saper essere degni eredi di una lotta tanto gloriosa, soprattutto oggi... quando perfino chi dovrebbe situarsi nel campo progressista ed antifascista, non fa davvero molto per difendere le conquiste (penso per es. alla Costituzione) e la memoria di quella lotta.


Note
1G. Pesce, Senza tregua (1967), Feltrinelli, Milano, 2009, pp.202-204. Cfr. anche http://www.anpi.it/piazzale-loreto-15-martiri-per-comunicare-ferocia/
2 G. Pesce, Senza tregua, op. cit., p.204.
3 Enzo Collotti, Hitler e il nazismo, Giunti, Firenze, 1996, p.110. In tedesco nel testo.
4 E. Collotti, Hitler e il nazismo, op. cit., p110. In tedesco nel testo.
5 E. Collotti, op. cit., pp.112-113 e 125-128.
6 Robert Katz, Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine (1967), Editori Riuniti, Roma, 1996. Nuova edizione aggiornata. La Luftwaffe era l'aviazione militare tedesca.
7 E. Collotti, La soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei, Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp.15-18 e 65, 71.
8 Marco Palla, Mussolini e il fascismo, Giunti, Firenze, 1996, p.67. I corsivi sono miei.
9 M. Palla, Mussolini e il fascismo, op. cit., p.67. Il corsivo è mio.
10 Cfr. E. Collotti, Hitler e il nazismo, op. cit., rispettivamente alle pp. 107 e 106-107.
11 G. Pesce, Senza tregua,, op. cit., p.27.
12 G. Pesce, op. cit.,. p.2813 Ibid., p.299.
14 Ibid., pp.299 e 293.
15 Ibid., p.297. I corsivi sono miei.
16 Ibid., pp.301-302.
17 Ibid., p.69.
18 Ibid., p.77.
19 Per l'intreccio tra scioperi del marzo '44 e lotta partigiana cfr. Ibid., pp.68-77.
20 Ibid., p.151.
21 Ulpiano, Digesto, I, 1, 10. I corsivi sono miei.
22 Aristotele, Etica nicomachea, Laterza, Roma-Bari, 2001, V, 3, p.175.
23 Aristotele, Etica nicomachea, op. cit., V, 3, p.175. Il corsivo è mio.
24 Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Le bugie di Isotta. Immagini della mente medievale (1987), Laterza, Roma-Bari, 2002, pp.60 e 67-68.
25 Maria Teresa F. B. Brocchieri, Le bugie di Isotta, op. cit. pp.50-60.
26 Cfr. voci monarcomaco e tirannide in Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Tea, Milano, (1971), 1999, pp. 594 e 877.
27 Cfr. N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, op. cit., p.877; Luigi Bonanate, Diritto naturale e relazioni tra gli Stati (1976), Loescher, Torino, 1978, pp.63-64 e 176-177; Rosario Villari, Storia moderna, Laterza, Roma-Bari, 1973, pp.247-249.
28 Blaise Pascal, Pensieri, Edipem, Novara, 1974, Articolo IV, 277.
29 G. Pesce, Senza tregua, op. cit., p.306.