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sabato 20 agosto 2016

"Stabat mater", di Tiziano Scarpa


Un romanzo straordinario.
Bene, Scarpa ha scritto un testo di sole 136 pagine. Ad esso ha poi aggiunto una Nota di altre 6 in cui ha spiegato il suo legame con Venezia e con Vivaldi, il suo compositore preferito, e ha fornito una bella bibliografia-discografia sulla città e sul prete rosso.
Infine, ha spiegato il suo legame con l'Ospedale della pietà (vi nacque!), quel luogo cioè in cui le orfane della Serenissima venivano allevate: “Per dare loro un'educazione, un mestiere e una possibilità di intervento sociale, non solo attraverso il matrimonio ma anche concedendo loro di impartire lezioni private di musica.”
L'Ospedale era quindi molto più di questo o di un orfanotrofio, ma per l'Europa del tempo, un'istituzione che potremmo anche definire all'avanguardia.
Certo, per l'Europa del tempo... perché era un'istituzione religiosa, retta da suore che accoglievano le bambine (molte delle quali ancora neonate) che venivano abbandonate appunto alle loro cure da donne che intendevano disfarsi di quel che fino a non molto tempo fa era chiamato il frutto del peccato.
Talvolta, a distanza di anni, qualche madre tornava a riprendersi la sua bambina, ma di solito, le sfortunate vivevano isolate dal mondo dal momento in cui erano consegnate all'Ospedale (la madre rimaneva sempre rigorosamente anonima) fino alla morte.
La protagonista della storia si chiama Cecilia: di lei sappiamo solo questo. Per cercare un contatto con la madre sconosciuta, fin dai 15-16 anni inizia a scriverle delle lettere. Queste cominciano tutte con un austero Signora Madre ed in esse Cecilia utilizza sempre il “voi.” Sono lettere il cui tono oscilla tra una forte e direi rancorosa freddezza ed un disincantato desiderio d'amore e di accettazione.
Nelle sue missive Cecilia riflette sul tempo, sull'acqua, sulle più antiche origini di Venezia, quando l'insieme di isolette che la compongono era solo una distesa di paludi percorsa dal vento e dagli uccelli... e su molto altro ancora.
Non è sempre netto il confine tra le lettere di Cecilia e le sue riflessioni più personali, quelle cioè staccate dall'ideale rivolgersi alla madre: ma questo rende il romanzo ancora più stimolante, perché ogni tema si intreccia ed incastra nell'altro, come in un insieme di note che si rincorrano per poi scomporsi, separarsi e riprendere ad intrecciarsi. Come uno stormo di rondini che entri ed esca da una serie di lunghi e tortuosi corridoi e da una lunga teoria di stanze.
Compare spesso la Morte, che assume le sembianze di una donna dai capelli neri ed aggrovigliati come serpenti, ma che tratta Cecilia con gentilezza, quasi con affetto. Sarà certo un'allucinazione o una forma di compensazione per la solitudine ed il senso di abbandono che tormentano la ragazza, eppure il “personaggio” è molto riuscito e convincente.
La notte Cecilia, che non riesce a dormire, si accoccola sulle scale, al buio: l'Ospedale è un labirinto di stanze, corridoi, scantinati, sottopiani ed appunto, scale. Lì lei continua ad interrogarsi su tutto. Sono frequenti le riflessioni sulla morte, che però dimostrano grande lucidità ed assenza di paura: Cecilia appare così molto più forte, matura e consapevole dei suoi sedici anni.
E' centrale anche la figura di Antonio Vivaldi. Nel suo grande amore per le orfane e soprattutto per Cecilia, Scarpa compie (ma consapevolmente) una grave ma bella falsificazione: attribuisce quasi la creazione delle Quattro stagioni ad una sorta di “furto” che Vivaldi avrebbe compiuto ai danni di Cecilia.
L'idea cioè di fondo delle Stagioni, come dice lei, consiste in questo: “Imitare i rumori del mondo”; ma per lei, questo è “così infantile.”
Inoltre, prima che don Antonio componesse la sua opera più nota, Cecilia aveva insegnato a delle bambine (che lo rivelano appunto a Vivaldi) a: “Fare le voci delle rondini con i violini, e lei ha suonato come fa l'usignolo!”
L'idea di Vivaldi, nelle Stagioni, è appunto imitare gli elementi naturali e gli animali attraverso gli strumenti musicali, benché concordi con Cecilia che quell'opera sia “la cosa più stupida” che abbia scritto. Stupida! Ma ve ne rendete conto?
Eppure la cosa ha un senso. Vivaldi dichiara, infatti, che gli serve “per arrivare alle orecchie di tutti”, perché: “Dobbiamo avere l'umiltà di farci capire. Dobbiamo usare la nostra complicazione per tirarne ingegnosamente fuori la semplicità.”
In effetti, la musica e forse qualsiasi altro tipo di arte dovrebbe fare proprio questo: estrarre dal caos e dal dolore da cui spesso il mondo è dominato, qualcosa che possa parlare alla mente ed al cuore di tutti. Perché come dice Cecilia: “La musica è la cosa che più assomiglia a un'idea pura.”
Pura non significa staccata da tutto il resto, quindi staccata soprattutto dall'equivoco, dalla solitudine, dalla malattia, dalla povertà, dalla follia, dall'ingiustizia.
No, pura significa ciò che le cose, il mondo e le persone dovrebbero essere per valere davvero, ma non come se il male non esistesse. La musica come “idea pura”, è il bene che trionfa sul male purificando il nostro cuore e la nostra mente da tutta quella sofferenza, che spesso subiamo senza nostra colpa.
Ecco che allora quei violini apparentemente facili ed allegri, risultano tali solo in apparenza. In realtà, è la musica che cerca e trova la strada per il nostro cuore: e che cosa c'è di più triste e difficile di quello che ci ostiniamo a considerare un semplice muscolo?
Così Cecilia, che troverà la sua strada anche oltre la musica, non dirà più: “Noi siamo sepolte vive in una delicata bara di musica.” Non lo dirà più perché ad un certo punto la musica diventa per lei strumento di liberazione, ricongiungimento alla vita.
E questo (concedetemi una battuta certo scontata) è davvero degno di nota.

martedì 9 agosto 2016

Crescere e sentire attraverso lo sport


A me lo sport piace molto.
Nello e dello sport non mi piacciono solo la competizione e la vittoria: anche quelle, perché se in esso mancano quegli elementi, allora è come una bottiglia di vino senza vino.
Analogamente, soltanto un alcolizzato berrebbe del vino che si trovi per terra.
Insomma: nello sport è importante il risultato ma anche ciò che lo racchiude.
Dirò di più... nello sport è importante, prima di ogni altra cosa... lo sport in sé stesso.
Quando un bambino impara a correre, non vuol far altro che correre. Comincia a calciare un pallone? Di dove vada a finire, gli importa quanto può importagli di una catena arrugginita; forse anche meno.
Secondo me, se recuperassimo quel disinteressato piacere che ci porta a fare un dribbling per il solo piacere di farlo, uno scatto per sentire l'aria che ci sibila attorno al corpo, un tuffo per vedere come sia fatto il fondo del mare ecc. ecc., ebbene, forse allora staremmo molto meglio.
Insomma, portiamo i nostri figli in una scuola-calcio e che cosa vediamo? Semplice: molte di queste sono delle caserme, con allenatori-cerberi che paonazzi, urlano (benché meno che ai nostri tempi) ed imbottiscono i pargoli di schemi, formule e sensi di colpa.
A quel punto, fate loro studiare le equazioni di 2° grado e la dialettica di Hegel: i nostri cari boys si annoieranno di più, ma almeno impareranno qualcosa!
Qualche amico mi dirà: “Ma come! Dici queste cose tu, che hai sempre ammirato il senso tattico perfino dei tedeschi?!
Esatto, my friends, esatto.
Vi spiego: prima di fare sul serio, c'è il gioco.
Perché mai uno dovrebbe inseguire un pallone, che tra l'altro è già inseguito da uno o più avversari (col rischio magari di rompersi una gamba) se non lo divertisse?
Sto correndo, ormai ho 54 anni: non sono ancora vecchio, ma non sono più un ragazzino.
Però riesco ancora, e questo perfino a prescindere dal fatto che oggi o domani debba giocare a calcio o a calcetto, a correre col caldo e col freddo ed a divertirmi. Anche se qualche buontempone abbassa il finestrino dell'auto super-refrigerata e mi grida: “Oh marocchinu!
Sento il sole che mi picchia sulla testa, al 2° km (o anche prima) ho dimenticato il contratto scaduto; un minuto dopo la doccia mi darò da fare per ottenerne un altro... ma ora sto correndo.
In campo, sole a picco o pioggia a catinelle, sono solo e sto palleggiando e/o tirando in porta: i miei piedi sono di legno come sempre, ma mi sto divertendo.
Beh, per oggi basta così; ma tornerò sull'argomento.