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martedì 30 ottobre 2007

Spazio ai Lettori - n° 7 del 2007


Brani tratti da commenti particolarmente significativi o che si prestano ad ulteriori interventi da parte di coloro i quali vorranno interagire e approfondire i temi trattati. Un click sul titolo dell’articolo Vi condurrà ai testi integrali e Vi consentirà di inserire il Vostro pensiero.

Grazie a tutti Voi.

venerdì 19 ottobre 2007
L’uccello di fuoco di Stravinskij a Cagliari

Walter (BO) ha detto...
Conoscendo le opere e la musica di Stravinskij, questo post solletica il rilevamento di circostanze o casualità singolari e perchè no divertenti. Nel suo libretto 'Poetica della musica' Stravinskij dichiarava che "la musica è incapace di esprimere niente altro che se stessa". Ora scopriamo che sa esprimere anche un prurito d'infanzia.
Altra famosa dichiarazione del nostro fu: "La mia infanzia è stata un periodo di attesa del momento in cui potessi mandare al diavolo tutto e tutti di quel tempo." e infine una frase nel libro Cronache recita: "il nostro rapporto col passato è vivo solo se è il presente che ci sollecita." Mi chiedo se hai scritto il post mentre indossavi pantaloni di vigogna.

lunedì 21 maggio 2007
Il mio libro

Arnaldo Cuccu ha detto...
Certo, la vita talvolta la si prende in corsa senza che vi sia un istante per poter contemplare quanto ci è stato donato ed è in nostro possesso. Si corre troppo in fretta e il tempo ci uccide senza che noi si sia vissuto. Si ha bisogno d’aiuto, d’una parola sincera, di un gesto anche il più semplice a farci comprendere quanto sia importante necessario ciò che si vive. Per le strade d’un qualsiasi paese o città è difficile camminare sebbene si abbia l’accortezza di farlo sulle strisce.

martedì 23 ottobre 2007

Las Casas, un frate contro gli schiavisti (parte seconda)

Per sfruttare meglio le ricchezze americane, nel 1503 il re di Spagna istituì l’encomienda, affidamento: gli indios venivano ripartiti in gruppi, riuniti in villaggi ed affidati all’encomendero che li sottoponeva a regime di lavoro forzato nei campi e nelle miniere. Gli indios, spesso incatenati e marchiati a fuoco come il bestiame, erano sorvegliati da guardie armate, frustati di frequente, malnutriti, alle loro donne si usava violenza carnale e gli spagnoli (gioco della “fionda”) lanciavano i loro bambini in aria o contro delle rocce. Talvolta, i civilizzatori per sfamare i cani tagliavano a dei bambini ancora vivi le gambe e le braccia. Se i cani avevano ancora fame, gettavano “il piccolo corpo alla muta perché finissero di divorarlo.” Le condizioni di vita e di lavoro degli indios erano tali che alcuni si suicidavano. Delle madri, per risparmiare tutto ciò ai figli, li uccidevano appena nati. Niente di tutto questo provocava negli spagnoli alcuno scrupolo morale, né metteva in crisi il loro sistema economico: la forza-lavoro era tanta… Molti conquistadores tagliavano agli indios naso ed orecchie, e li costringevano ad andare in giro per gli altri villaggi per farsi “ammirare.”
Proteste e scritti di domenicani e francescani non sortirono nessun effetto; anzi, chi protestava poteva essere ucciso. Chi non subiva quella sorte era da ignorare o da compatire: le ricchezze che affluivano dall’America erano tante e tali che solo un folle poteva aver qualcosa da ridire.
Tra il 1512 ed il 1513 fu istituito il requerimiento, intimazione: prima d’attaccarli, i capitani dovevano leggere agli indios un documento con cui si notificava che le loro terre appartenevano ai re di Spagna. Costoro le avevano ricevute dal Papa e lui dall’unico vero Dio. Dovevano scegliere tra la sottomissione a tali sovrani oppure essere attaccati e fatti schiavi. Si negava così agli indios ogni diritto sulle loro terre, si parlava di re e Papi appartenenti ad un popolo che non avevano mai conosciuto e di un Dio che ignoravano. Dovevano accettare il tutto sotto una minaccia militare e schiavistica. Il testo del documento era redatto in una lingua (spagnolo o latino) ed intriso di tecnicismi giuridico-filosofici che non potevano certo capire. Talvolta il testo era letto a miglia di distanza dal villaggio: in modo che qualcosa di incomprensibile e di inaccettabile, non fosse neanche udibile. Ma la legge non ammetteva ignoranza…
Fino al 1514 fu encomendero, benché molto umano lo stesso Las Casas. Questi entrò in crisi dopo aver assistito a certi massacri ed aver letto Siracide 34, 18-21 che condanna chi si macchia di ingiustizia sanguinosa. Rinunciò così alla ricca encomienda di Cuba e minacciando l’Inferno ingiunse a tutti gli encomenderos di rinunciare subito agli indios in loro possesso. Era come ordinare la totale distruzione del mondo coloniale. Da allora iniziò la sua battaglia per la liberazione degli indios. Guidato da grande senso logico e di giustizia, ritenne il re di Spagna “obbligato” (se vuole “salvare la sua anima”) a restituire agli indios i loro regni ed a muovere guerra ad eventuali oppositori. Certo, gli interessi economici erano fortissimi: Las Casas non era un ingenuo. Ma sapeva che è dovere del cristiano opporsi all’orrore. Così, nel 1544 diserterà una ambasciata spirituale presso nuovi popoli: che pure aveva patrocinato. Qualche studioso si chiede perché. Per me il motivo è evidente: egli aveva già visto quante volte altri frati avevano, seppure involontariamente, aperto la strada ai massacratori.

venerdì 19 ottobre 2007

L’uccello di fuoco di Stravinskij a Cagliari

Avevo 13 o 14 anni quando una sera mia madre ci annunciò che il giorno dopo avrebbero dato L’uccello di fuoco di Stravinskij. Confesso che mi scandalizzai: si trattava di un film porno sovietico? Da una donna così attenta ai valori morali come lei, non me lo sarei mai aspettato.
Tuttavia mio padre mi spiegò, con sorridente senso storico e cinematografico che in Urss non si faceva pornografia. Aggiunse che Stravinskij era uno dei più grandi musicisti del ‘900; in fatto di musica, un genio. Per il resto, postillò il genitore in modo forse impietoso, non sarebbe stato in grado neanche di girare un cortometraggio su una cooperativa agricola dell’Asia centrale.
Sia come sia, avremmo seguito il concerto presso il conservatorio statale della nostra meravigliosa Cagliari, detta (ma non si sa da chi) la seconda San Pietroburgo.
Fummo tutti avvertiti, quasi minacciati dell’opportunità d’abbigliarci in modo acconcio… per non dire elegante. Ricordo ancora con grande fastidio certi pantaloni, pungentissimi.
Talvolta mi sveglio in piena notte, urlante: sogno d’essere intrappolato in quei dannati pantaloni ed in una giacchetta stile collegio austro-ungarico. Risale a quel periodo il mio odio per le frequenti ed accurate rasature, nonché per l’abbigliamento cosiddetto decente… molto cosiddetto.
Tuttavia il concerto fu bello, bellissimo. L’orchestra eseguì l’uccello (nel senso di Stravinskij) come meglio non avrebbe potuto, anche se all’inizio il grande musicista russo mi ricordò Wagner. Al che mio padre osservò con molto tatto, che “forse” a pranzo non avrei dovuto bere “quel secondo bicchiere di vino...”
Ad ogni modo, ricordo che non appena tornato a casa mi strappai via quei vestiti come se fossero stati pieni di puntine da disegno.
Inoltre, rimembro ancora con piacere la musica di Stravinskij, luci ed interni del conservatorio ed il tatto di mio padre: un tatto quasi parigino.
Ma quei maledetti vestiti “eleganti”, con tutto l’affetto che potevo avere e che ho per mia madre, non smetterò mai d’odiarli!

martedì 16 ottobre 2007

L’angelo calciatore di H.J. Nielsen

In Italia che cosa si sa della Danimarca? Qualcuno citerà Copenhagen, “città dell’amore”, altri diranno: ah, la birra danese! Certi sanno che la Danimarca vinse 1 titolo europeo sconfiggendo ai rigori l’Olanda. Ma se uno cita Amleto ed il suo: “C’è del marcio in Danimarca”, molti sbadigliano. Se poi un altro ricorda Kierkegaard, il geniale e tormentato filosofo cristiano, rischia d’esser sommerso da 1 coro di pernacchie. Io, sfidando sbadigli, pernacchie, fischi ecc. ricordo il Paese per il romanzo L’angelo calciatore di Hans-Jorgen Nielsen.
Ora, L’angelo si articola su + livelli. Al centro della storia abbiamo Frandse, all’interno di tale centro si inseriscono fatti e discussioni di tipo politico-culturale piuttosto complesse: ma che Nielsen rende in modo per niente astratto. Anzi, lo stile sintetico e le situazioni del romanzo ci fanno tifare di volta in volta per Frandse, per sua moglie Katrin o per il bimbo, Alexander. Lui è 1 intellettuale che deve barcamenarsi tra la fine degli studi, il suo lavoro di giornalista e traduttore ed il duplice ruolo di marito e di padre. La questione è complicata dalla crisi della sinistra, cui egli appartiene ma di cui critica certe carenze di dialettica e qualche seriosità: che non è serietà.
Inoltre, nel romanzo “irrompe” il corpo. La dimensione fisica è basilare, per un uomo che a 35 anni riprende a correre sino a sfiancarsi, riflette sul distacco che si è creato con la moglie, infligge al proprio fisico grandi bevute ed ha una storia di puro sesso con la moglie del suo migliore amico. Ed il corpo irrompe anche con l’interesse per il calcio: che la moglie di Frandse ed i loro compagni snobbano, o disprezzano. Frandse fu giocatore di buon livello ed amico di Franke, che farà carriera all’estero come professionista; con lui Frandse va per bettole e del figlio d’operai Franke, assume certi atteggiamenti da bullo che irritano la moglie. Comunque è Franke, “l’angelo calciatore”: l’appellativo, ironico, è di Katrin. Il corpo irrompe anche nelle discussioni sul terrorismo.
Per me il valore del romanzo è dato anche dal fondere Nielsen, l’uno nell’altro, vari piani (personale, politico, erotico, culturale, sportivo). Ma egli riesce a comporre quei piani in 1 tutto armonico, sicchè ognuno di essi mantiene un suo senso. Per es., Frandse che corre non vuol presentarsi alle sue donne col corpo dell’atleta che non è più, bensì sentirsi in armonia con se stesso. Il corpo di Frandse non deve attrarre o ri-attrarre la moglie o altre: deve piacere a lui, l’ex calciatore che si sente ancora tale. Quel corpo è Frandse e vale in sé. Tuttavia, lo sportivo è anche l’intellettuale, per es. quando riflette sulle varie componenti dell’industria sportiva; non c’è scissione tra il corpo dello sportivo e la mente del sociologo.
Poi, la tragica fine di Rita, la moglie di Franke e della loro bambina Tanja fa precipitare tutto nel dramma. Ma del resto, Frandse sa che la “visione d’insieme si frantuma in un brulichio labirintico”: perciò sì, quella visione (politica, intellettuale ecc.) rimane una necessità, ma nella vita come nel calcio “bisogna lanciarsi nella mischia e dribblare.” Nessuno può fornirci garanzie su dove andrà la palla e tutte le tattiche si applicano in campo, o tattiche e strategie diventano alibi per sottrarci al confronto.

venerdì 12 ottobre 2007

Las Casas, un frate contro gli schiavisti (parte prima)

Per i manuali di storia, il 12 ottobre 1492 Colombo scoprì l’America. Lo precedettero di secoli i vichinghi o altri popoli? Egli era ebreo spagnolo o ebreo italiano? Tutto possibile ma in fondo, poco importante. Infatti, più che di una scoperta si trattò di una conquista; così è stata infatti ricordata dalle originarie popolazioni americane, per es. in occasione del cinquecentenario. Storici appartenenti ai pochissimi nativi americani superstiti parlano esplicitamente di Indian holocaust; quelli di colore parlano di Black holocaust. Ma del primo olocausto o meglio genocidio avvenuto in America furono responsabili i cattolicissimi re di Spagna. Già nel 1493 Colombo aveva ridotto in schiavitù alcuni indiani.
Pochi anni dopo Cortez arrivò in Messico. E’ noto che fu accolto come un dio e lui, forse poco informato sull’etica degli dèi, derubò gli indios, ne sterminò parecchie migliaia, schiavizzò i superstiti e distrusse il loro regno. Il domenicano Las Casas, testimone oculare anche di saccheggi, torture, ricatti, stupri, mutilazioni ed umiliazioni di varia natura, salvò alcuni indios e denunciò la “civiltà” del bianco “cristiano” con grande collera ed in modo davvero documentato. Afferma che su territori come quelli di Messico, Florida, Haiti, Cuba, Nicaragua, Guatemala, Perù, Venezuela ecc. gli spagnoli compirono massacri tali, da trasformarli in cumuli di cadaveri e di rovine.
La sua Brevissima relazione della distruzione delle Indie (1552) fa riferimento a rapporti stesi anche da altri frati, poi a verbali di inchieste condotte ma presto insabbiate da funzionari regi, lettere di Cortez, testimonianze degli indios, di vescovi, di “commercianti” spagnoli… E fonti tanto differenti tra loro collimano tutte con le sue analisi e testimonianze. Infine, per i moderni storici della demografia della “scuola di Berkeley”, nel ‘500 in quelle terre vivevano 80 milioni di persone. Alla metà del secolo ne erano rimasti 10! 70 milioni di esseri umani sterminati. Nella II guerra mondiale, combattuta tra il 1939 ed il 1945 ma con mezzi tecnologico-militari immensamente più potenti, morirono circa 50 milioni di persone.
Comunque, la carneficina compiuta dagli spagnoli prevedeva una sorta di schema. Costoro, dopo aver scoperto un villaggio ed esser stati colmati dagli indios di cibo e di doni, ordinavano la consegna di pietre preziose, oro ecc. Ottenute queste ricchezze ne chiedevano delle altre. Non ottenendole, massacravano tutti insieme 50 indios. Ripetevano la richiesta varie volte: che pur soddisfatta, continuavano a ripetere. A scopo dimostrativo, uccidevano qualcun altro: spesso dei bambini. In seguito gli spagnoli entrarono nei nuovi villaggi uccidendo direttamente 50 indios o più, allo scopo di terrorizzarli. Poi avanzavano la loro “richiesta.” Nel conquistare un villaggio, il capitano rapiva la moglie del capovillaggio, la stuprava quindi chiedeva un riscatto in oro o pietre. Ottenutolo, spesso rapiva di nuovo la donna e la stuprava un’altra volta per chiedere un ulteriore riscatto. Molti indios furono ammassati in capanne e poi, che avessero consegnato le loro ricchezze o meno, bruciati vivi.
Durante la noche triste (1520) gli indios del Messico si ribellarono uccidendo molti spagnoli. Legittimamente, Las Casas definì la rivolta “santa e giustissima azione.” Cortez fece torturare e bruciare vivi parecchi rivoltosi; i più fortunati furono passati a fil di spada. Inoltre, per uno spagnolo ucciso loro giustiziavano 100 indios.

martedì 9 ottobre 2007

Liverpool-style

Penso alla finale di Champions League del 2005, Milan-Liverpool. Alla fine del 1° tempo il Milan vinceva 3-0. Una nostra squadra avrebbe pensato: è finita. Loro no. Avranno detto: ok, abbiamo perso. Ora giochiamocela. Così dallo 0-3 sono passati all’1-3: gol di Gerrard. Dall’1-3 eccoli al 2-3: gol di Smicer. Infine, gol di Xabi Alonso. Milan 3, Liverpool 3. Supplementari. Il risultato non cambia. Rigori. Il Liverpool batte il Milan e porta a casa la Coppa. Ciao Milan: nel calcio serve la classe ma anche fiato, grinta, fiducia in se stessi.
Serve anche una buona dose di follia, perché come puoi lanciarti all’assalto di una squadra che t’ha già centrato 3 volte, e che è una delle + forti del mondo? Il Milan poteva andare sul 4, 5, 6-0… Bisogna essere un po’ pazzi e 1 po’ pirati, per fare quel che fece il Liverpool. Ma loro giocano da sempre con quella mentalità. Nel ’75, durante la finale d’andata della Coppa Uefa coi belgi del Bruges, perdevano in casa per 2-0. Vinsero 3-2, poi andarono a Bruges (1-1). Nel ’76 vinsero la Coppa dei Campioni strapazzando il Borussia per 3-1. Era quel Borussia che nel ’72 fece 7-1 all’Inter di Burnich, Facchetti, Boninsegna ecc e che con giocatori come Simonsen , Stielike e quel Bonhof dal tiro esplosivo, seminava terrore su tutti i campi d’Europa.
Il Liverpool è come Jesse James o come Henry Morgan, il pirata che prese la super-fortificata Panama.
Nel parlare dei reds (rossi, dal colore della maglia della squadra) non dimentichiamo il loro pubblico: che all’Anfield Road, lo stadio di Liverpool, fornisce 1 sostegno impressionante. Per Lattek, allenatore del Borussia, in confronto l’Inferno era roba da ridere. Ecco perché giocano in modo così spettacolare ed insieme con tanta sicurezza. Il loro gioco non è mai stato solo “inglese” (lanci lunghi, sgroppate sulle fasce): anzi preferisce una ragnatela di passaggi in velocità, con la palla giocata di prima. Alla costruzione di tale gioco contribuiscono tutti i giocatori, il che crea + soluzioni in tutte le zone del campo. Gli avversari sono storditi da questo ritmo, dalla palla che viaggia di continuo, giocata non solo dai giocatori più tecnici ma ripeto, da tutti. E’ un gioco corale: perché è 1 coro che parte dalla loro difesa e sale come un’onda verso centrocampo e difese avversarie.
Ed in coro i tifosi cantano l’inno, quel You’ll never walk alone che intonarono anche nell’intervallo del 2° tempo dello stupendo match col Milan. Quell’inno che cantato da 40mila tifosi fece correre 1 “brivido lungo la schiena” perfino al freddo Cruijff, spinse i reds alla rimonta.
Rimonta che fu possibile anche perché nell’intervallo i giocatori milanisti cominciarono a festeggiare e si fecero sentire…
Ma per la mentalità dei reds, la parola a Souness, centrocampista del Liverpool anni ’80: “Mangiavamo pesce fritto e bevevano birra. Che fossero gli altri, a preoccuparsi di noi!” Ritiri, tattiche, marcature? Tutte balle. In All you need is love 1 grande liverpooliano come John Lennon disse: “Non c’è niente che puoi fare che non possa essere fatto.” Questo non è ovvio, se tanti non fanno neanche il possibile. A Liverpool, invece, fanno anche l’impossibile. E’ quello il Liverpool-style, lo stile di Liverpool.



venerdì 5 ottobre 2007

Odio il telefono

Sì, odio tutti quegli infernali aggeggi: fissi e cellulari. Certo, non se ne può fare a meno: così come non si può rinunciare a pc, radio, tv, aerei ecc. Lo so, infatti mi servo di tutte queste meraviglie della scienza & della tecnica. Non sono un fanatico dei segnali di fumo, dei tam tam e delle piroghe.
Eppure, ogni volta che sento squillare il mio fisso o il cellulare comincio ad ululare come un lupo mannaro. Perché, mi chiederete, hai qualcosa da nascondere? Macchè, nulla (a parte la pancia).
Tra l’altro, l’editore mi ha comunicato il gradimento di meus libro, via telefono. E quelle non molte volte che ho avuto qualche incarico come insegnante o collaboratore culturale, il lieto annunzio (lavorativo) mi è arrivato sempre via telefono. Idem e dulcis in fundo, per la nascita di mia figlia.
Ho come familiari, parenti, amici e conoscenti delle bravissime persone, da cui ho ricevuto aiuto nei momenti difficili. E modestamente, ne ho avuto parecchi.
Quando sul display si accende il nome di mia moglie, il mio cuore ammattisce. Altro che Little Tony!
Allora perché mi urta tanto lo squillo telefonico? E’ questo, infatti, il punto: so che il telephonus è pressoché indispensabile; ma non sopporto quel petulante trillo.
Direte: metti il vibro. Sì, bravi, così ho i Rolling Stones o il canto gregoriano a tutto volume e chi lo sente, il dannato vibro? Certo che date proprio dei bei suggerimenti! Ri-suggerirete: metti una musichetta o uno squillo piacevole. Mi dispiace, non funziona: il mio cellulare irradia L’inno alla gioia di Beethoven, eppure sui miei nervi ha l’effetto della sgommata di un tir.
Insomma, tra me ed il telefono c’è odio. Eterno.
Quando squilla il maledetto affare, mi sembra d’essere un evaso su cui stiano per mettere le mani tutte le polizie del mondo. Vi sembra bello? Vi sembra giusto? Io penso di no, anche perché rispondo sempre. Ululati o meno. E quello, sì, insomma, l’apparecchiaccio come mi ricompensa? Continuando a squillare!
Mah, non so più che cosa fare.
Comunque fatemi uno squillo; magari ne parliamo.

martedì 2 ottobre 2007

Ricordo di Carlos Monzon (parte seconda)

Monzon è stato una figura tragica. Spesso nel parlare di pugili si crede che questo sia scontato, ma non lo è. Non tutti i pugili son stati o hanno continuato ad essere delle figure tragiche; Monzon sì. In un punto del Padrino di Mario Puzo si parla di persone che col loro comportamento pare vaghino per il mondo dicendo: “Uccidetemi! Uccidetemi!” Con loro arroganza possono anche trovarla, la morte. Ora, tutta la vita di Monzon è stata sotto il segno di violenza, fama, ricchezza e miseria. Tutto è stato estremo.
Per Jean Verdon la grande invenzione del Medioevo fu l’importanza che ascrisse alla carne. Inoltre, nel M.E. ogni cosa superava i propri limiti: l’amore, la guerra, la gioia… Perciò vedo Monzon come un medievale, per es. come 1 tercio, uno di quei fanti spagnoli che appena sbarcati, da qualsiasi porto marciavano verso le mura della città nemica per metterla a ferro e a fuoco. Oppure, vedo Monzon come un conquistadore al contrario: cioè come un indio che sbarchi da noi… con la stessa ferocia degli spagnoli. Una sorta di nemesi, di vendetta della storia.
Monzon nacque in una famiglia poverissima, 6° di 12 figli. La madre lo mise al mondo sdraiandosi su una coperta in una stamberga senza pavimento. Suo padre? Un becchino. Lui ha 8 anni quando i suoi decidono di spostarsi dal misero villaggio di San Javier a Santa Fè; sono 5 giorni a piedi, muchacho. Becca una rara forma di tifo, perde i capelli. Per molti, il figlio del becchino sarà il prossimo “cliente” del padre. Non muore. Lascia la scuola a 13 anni. Impara l’arte del furto. E’ tormentato dai ragazzi più grandi perché suo padre lavora coi morti; lui risponde: “Es cosa de ombre”, e li sfida. Il 1° ring? La strada. Passa alla boxe ufficiale e diventa una macchina da guerra. Prossima tappa, la corona di campione del mondo dei pesi medi: che strappa a Benvenuti. Difende il titolo con successo ben 13 volte, in grandi matchs con pugili come Griffith, Briscoe, Bouttier e soprattutto contro Rodrigo Valdez, il “cacciatore di squali”, di cui definì i colpi (per la precisione e la secchezza) taglienti.
Il 30 agosto del ’77 l’indio si ritira: imbattuto, probabilmente imbattibile. Nel girare il film El macho spedisce all’ospedale una comparsa. A solo 1 mese dal ritiro, ne trascorre uno in carcere per possesso illegale di armi da fuoco. Ha 3 figli dalla 1/a moglie, Mercedes: che gli spara quando le confessa una storia con la Jimenez, la “Bardot sudamericana”. Ha altre 2 mogli ed un 4° figlio con l’altra, la ballerina Alicia Muniz; con lei sono violenti e continui litigi. Carlos gusta la dolce vita di Montecarlo: champagne, stars del cinema, roulette e molte belle donne… per es., a Nizza fa sesso in ascensore con Ursula Andress, a ruota incontra (in corridoio) Nathalie Delon e concede il bis.
Il 14 febbraio dell’89, nuova lite con la Muniz: volano dal balcone, il collo di lei tra le mani di lui. Gli amici di Monzon, all’obitorio incidono e rubano i muscoli del collo della donna; ma qualche prova rimane e lui è condannato a 11 anni. In carcere Monzon cambia, ma l’8 gennaio del ’95, ottenuto un permesso (nel rientrare con l’auto che va a 140) ha un incidente e muore con l’amico ed ex pugile Geronimo Motura. Una figura davvero tragica, quella di Monzon, ma non lo giudico. Dico solo: “Vaya con Diòs, Carlos.”