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sabato 15 dicembre 2007

Pablo Escobar (parte seconda)

Ormai Escobar aveva esagerato.
Io penso che se si fosse limitato a sequestri di persona, spaccio di coca, uccisione di rivali, lusso pacchiano, festini con attricette, torture, mutilazioni e riciclaggio sarebbe ancora vivo.
Ma osò troppo, pensò insomma d’essere davvero El patròn (suo soprannome preferito): ma gli sfuggiva il fatto che non era un vero padrone.
Beninteso, nello sfavillante benchè sanguinario firmamento della criminalità, Pablo Escobar sarà sempre ricordato come uno dei gangster più feroci, spregiudicati, forse anche come uno dei più abili. A fatica qualcuno potrà rubargli la corona di re dei narcotrafficanti.
Del resto, dopo che per un anno i suoi avvocati negoziarono la resa col governo, si consegnò alla polizia. Scelse lui i reati da confessare: il più grave, una cosuccia relativa a 20 chili di coca.
Naturalmente, sul fatto d’essere mandante ed esecutore di decine e decine di omicidi tra i più sanguinari della storia del crimine, svariati attentati ed altri reati sui quali avrebbe avuto qualche remora di tipo morale perfino Al Capone, neanche una parola.
Don Pablo chiese ed ottenne che il carcere fosse costruito nella sua tenuta, dove disponeva di un ristorante aperto 24 ore su 24, discoteca, piscina, possibilità “d’ordinare” squallidi spettacolini con minorenni ecc.
Alla fine, ad ulteriore testimonianza di un’indole irrequieta, insofferente di oppressive routines ( quindi in certo modo artistica) si seccò di quel dorato esilio e fuggì eludendo la sorveglianza di 400 poliziotti.
Fu scoperto grazie ad una telefonata un po’ più lunga col suo amor, a conferma della tesi peraltro già sostenuta dall’amico e celebre calciatore Higuita: “Anche i narcos hanno un cuore.” Il che, anatomicamente parlando è senz’altro vero.

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