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sabato 29 dicembre 2007

I miei vecchi capodanni e l’attuale

Sono nato in Italia nel 1962 ed in fondo mi è andata anche bene: se fossi nato nel 1896 (come mio nonno) o nel 1921 (come mio padre) avrei rischiato in guerra la mia kalaritan skin, questa pellaccia cagliaritana. Certo, se nascevi sempre en Italie ed in quell’anno, ma in zone ad alta concentrazione camorristico-mafiosa, rischiavi di perderla comunque, la pellaccia. Idem per chi fioriva dove si combattevano altre guerre, o dove verdeggiava il terrorismo.
Benché la mia vita non sia stata delle + tranquille, a Cagliari per non inguaiarti davvero devi solo evitare certi quartieri e la loro lussureggiante vegetazione di coltelli, siringhe e pistole. Ciò contraddice la tesi sostenuta da qualche mio amico, secondo il quale non capirei niente di botanica.
Comunque, il 1° capodanno che ricordo è quello del ’67: mi vedo ancora davanti alla finestra della mia camera, rivedo il bambino che ero osservare stupito il vetro appannato… o si trattava di brina? Ricordo (ma in modo un po’ confuso) i fuochi d’artificio, i rituali botti che in fondo, mi spaventavano.
Rimembro, in occasione del capodanno ’68, forse anche in occasione di quello del ’69, le visite alle zie nella casa di viale S. Avendrace, il ptang! dei petardi per strada, l’aspro aroma delle loro tabacchiere (quello delle tabacchiere ziesche).
I capodanni degli anni ’70 erano affollati di sogni di varia natura: tutti comunque segnati da molta malinconia e da tanta speranza.
Quelli degli anni ’80, ’82 ed ’89 esclusi, sono stati dei bravi ragazzi; non male neanche quelli degli anni ’90.
L’attuale Cap d’any, come mi pare si dica ad Alghero ed a Barcellona, si presenta bene: tra qualche mese pubblicherò il mio 2° libro; benché non manchino problemi lavorativi e legati alla mia famiglia d’origine, forse si comincia a vedere 1 po’ di luce.
Già, la luce: che auguro a tutti (se non addirittura a tutti quanti) e già che ci sono, auguro anche a me. Buon anno!

P.S.: ma non chiedetemi che cosa sia esattamente la luce...

sabato 22 dicembre 2007


Buon Natale dal pulmo

Prendo il pulmo alle 16.49; alla fermata del suddetto, l’aria è meno tagliente del solito.
Arrivati quasi all’angolo tra via Sauro (Nazario, non dino) e via Pola, una signora ci comunica che la parte centrale del vecchio mercato sarà demolita. Sulla sua area, quella del mercato, non quella della signora, sorgerà un “centro di aggregazione.” Bene: molti cagliaritani avranno un’alternativa alle solite risse e sbronze.
All’altezza del Largo Carlo Felice vedo che procedono i lavori per la trasformazione del distretto militare nella nuova biblioteca universitaria. Caro Comune (o chi per te), bravo. Solo, come direbbero i Fleetwood Mac: “Don’t stop.”
Sì, perché se non erro, per certi lavori che si dovevano effettuare nell’attuale via Manno, all’epoca occorsero 300 anni. Chi non ci crede può leggere, del prof. Giuseppe Luigi Nonnis Cagliari. Passeggiate semiserie. Marina (ed. La Riflessione, Cagliari, 2007).
Nei pressi della chiesa di S. Agostino si erge qualcosa che dal pulmo non riconosco: mi sembra una specie di bunker o di fortino risalente alla II guerra mondiale, uno dei tanti che continuano a deturpare le nostre spiagge.
Ora sono le 18.40, sono reduce da fruttuose ricerche in biblioteca ed il pulmo va alla velocità di una lumaca supersonica.
Auguri di buon Natale all’aria che sta scongelando Cagliari.
Al centro di aggregazione.
Al bunker o nuova campana della chiesa di S. Agostino ed al parroco, il simpatico don Fois.
Auguri ai pulman ed ai loro autisti.
Auguri a tutti i lettori di questo blog.
Auguri a chi ha letto il mio libro.
Auguri alla mia famiglia, ai miei parenti ed ai miei amici.
Soprattutto, auguri di buon Natale agli operai della Thissenkrupp ed alle loro famiglie.

martedì 18 dicembre 2007

La biblioteca dell’alchimista di Stefano Benni

Oggi l’inverno si è ricordato di Cagliari; molto gentile da parte sua, ma avrei preferito 1 po’ di scortesia. Certo però che il clima è un tipo strano: ho avuto davvero freddo solo una volta ed al sud… a Taranto in novembre, per il Car. Comunque, stamateina ho piazzato la caffettiera sui fogli e l’inedita Excalibur mi sta riscaldando, bella fumante, il tavolo e la cucina tutta. Bene!
Mentre i monaci benedettini di Santo Domingo de Silos cantano il Viderunt omnes ed il De ore leonis, vi parlerò del racconto di Benni Il nuovo libraio, contenuto ne L’ultima lacrima (Feltrinelli, Milano, 1994). Il vecchio libraio non riesce a mettere + insieme i soldi per l’affitto, così deve passare la mano; la Libreria dell’alchimista finisce in quelle dell’immobiliare Vinvesto e del suo “dinamico” proprietario, il cav. D’Alloro. Costui, non pago di mietere allori economici, vuol ora trebbiarne di culturali se dichiara che dalle mura della Libreria avrebbe potuto intraprendere attività ben + remunerative. Ma egli ama la cultura e soprattutto esser considerato suo amico.
Quella frasetta rivela tante cose. Con la cultura è come con una donna: ti importa della sua considerazione, non di quella degli altri. Tuttavia, grazie all’ottimo D’Alloro, nuovo direttore diventa l’accademico prof. Acanti, + o meno insigne che sia. Nuovi criteri di catalogazione, 4 linee telefoniche, smaltimento non di rifiuti ma di antichi capolavori e rarità, una nuova porta, sicurissima, cocktails letterari ecc.: sulla Libreria piomba 1 tornado.
A sera l’insigne è solo e stanco ma soddisfatto. Ride del suo predecessore, il vecchio Solari. La Libreria mantiene 1 che di medievale, al massimo di secentesco… alcuni suoi lati rimangono in ombra, ogni tanto Acanti sente strani rumori, pare che le pareti lo stringano. L’insigne ride di Solari, uomo che spesso non vendeva libri da cui pure avrebbe potuto ricavare milioni ed ai quali parlava, o che “accompagnava” alla posta ed accarezzava, quando proprio doveva spedirne qualc1. Per me, se Solari avesse parlato ad 1 fucile da caccia (per pernici o per extracomunitari) ciò sarebbe sembrato normale. Inoltre Solari, che coi libri aveva 1 rapporto affettivo, anzi affettuoso, in base a certe sue simpatie poteva vendere libri rarissimi a prezzi stracciati ed a qualche cliente parlava in latino.
Dopo alcune ore la sera diventò notte (lo fa spesso) ed Acanti cominciò ad innervosirsi: gli sembrava che i libri lo spiassero; anzi, finì per convincersi d’essere odiato da quei noiosi rottami culturali. 1 volume tratta del processo e dell'assoluzione di certi assassini di una rivolta bracciantile. Costoro sono assolti per insufficienza di prove; cose che potevano accadere nel 1823, certo. Poi, quelli avevano semplicemente sgozzato dei contadini che volevano pane e chissà che altro, razza di rompiscatole. Curioso: Il giudice che assolse i sicari si chiamava Acanti.
L’A. del libro, l’alchimista Fulcanelli, auspicava che il suo testo potesse preservare almeno la memoria di quei contadini e minacciava chi si fosse opposto a tale disegno. L’insigne, con accademico e bottegaio scetticismo, pensa a quanto ricaverà dalla vendita del libro. Inoltre “filosofa” sul fatto che la storia cancellerebbe ogni traccia e parola.
Qui Acanti sembra il ragioner Fantozzi, che quando vede uno centrato in pieno da una fucilata, commenta: “Il tempo cancella tutto”. Ma i libri ed i topi faranno giustizia.

sabato 15 dicembre 2007

Pablo Escobar (parte seconda)

Ormai Escobar aveva esagerato.
Io penso che se si fosse limitato a sequestri di persona, spaccio di coca, uccisione di rivali, lusso pacchiano, festini con attricette, torture, mutilazioni e riciclaggio sarebbe ancora vivo.
Ma osò troppo, pensò insomma d’essere davvero El patròn (suo soprannome preferito): ma gli sfuggiva il fatto che non era un vero padrone.
Beninteso, nello sfavillante benchè sanguinario firmamento della criminalità, Pablo Escobar sarà sempre ricordato come uno dei gangster più feroci, spregiudicati, forse anche come uno dei più abili. A fatica qualcuno potrà rubargli la corona di re dei narcotrafficanti.
Del resto, dopo che per un anno i suoi avvocati negoziarono la resa col governo, si consegnò alla polizia. Scelse lui i reati da confessare: il più grave, una cosuccia relativa a 20 chili di coca.
Naturalmente, sul fatto d’essere mandante ed esecutore di decine e decine di omicidi tra i più sanguinari della storia del crimine, svariati attentati ed altri reati sui quali avrebbe avuto qualche remora di tipo morale perfino Al Capone, neanche una parola.
Don Pablo chiese ed ottenne che il carcere fosse costruito nella sua tenuta, dove disponeva di un ristorante aperto 24 ore su 24, discoteca, piscina, possibilità “d’ordinare” squallidi spettacolini con minorenni ecc.
Alla fine, ad ulteriore testimonianza di un’indole irrequieta, insofferente di oppressive routines ( quindi in certo modo artistica) si seccò di quel dorato esilio e fuggì eludendo la sorveglianza di 400 poliziotti.
Fu scoperto grazie ad una telefonata un po’ più lunga col suo amor, a conferma della tesi peraltro già sostenuta dall’amico e celebre calciatore Higuita: “Anche i narcos hanno un cuore.” Il che, anatomicamente parlando è senz’altro vero.

mercoledì 12 dicembre 2007

Gli stivali incantati di William Butler Yeats.

Non affermo che gli stivali di Yeats fossero incantati. Confido però nella pazienza dei miei lettori: spero insomma in quella pazienza che si ha coi matti, almeno con quelli non pericolosi. Ora, il titolo del post si spiega col fatto che Yeats ad occulto, fate, spettri, maghi, anche alla banshee (in gaelico bean sidhe, la donna delle fate, annunciatrice di morte) credeva moltissimo.
Oggi parlerò del racconto L’uomo e gli stivali contenuto in Crepuscolo celtico (The celtic twilight). Il protagonista, all’occulto non credeva per niente; peggio per lui. Ma credo che a W.B. sarebbero piaciuti, degli stivali incantati, perciò il titolo del post vuol essere un omaggio al grande poeta. Bene, poiché spero che i miei eventuali (nonché poveri) lettori non abbiano ancora esaurito le loro riserve di pazienza, vediamo un po’ di che cosa parli il racconto.
Ci troviamo nella cittadina di Donegal, nell’omonima contea. Abbiamo un uomo che non credeva a spiriti, fate ecc. Chi di noi non conosce qualcuna di queste persone? Io, che a spiriti e fate credo forse + di chiunque, Yeats incluso, ne conosco tante. Ma poiché cerco d’essere tollerante, evito d’imporre loro le mie convinzioni.
Lo scettico sapeva di una casa “abitata dagli spiriti.” Notate l’eleganza con cui si esprime Yeats: mica dice, come gli esorcisti (peraltro bravissime persone) che la casa era infestata. Infatti, il termine infestazione è negativo. Chi direbbe: “La casa di via Verdi, a Cagliari, è infestata dalla famiglia Sanna”? Certo, si potrebbe vedere tale ipotetica famiglia costituita da esseri umani viventi mentre gli spiriti appartengono ad altra realtà. Ma perché discriminare tra esseri umani ancora viventi ed altri non più o mai stati tali? Così, cari miei, ospitalità e tolleranza vanno a farsi friggere.
Vabbè. Lo scettico entrò in casa e si mise comodo. Accese il fuoco, si sfilò gli stivali, in assoluta tranquillità prese a riscaldarsi. Conosco l’umido, in + soffro il freddo: perciò almeno fin qui l’uomo gode di tutta la mia simpatia. A poco a poco si fece sera poi notte (questo capita anche nella cosiddetta realtà). L’uomo stava bene, lì al calduccio. Possiamo immaginare le fiamme che guizzano nel caminetto, il ciocco che arde lentamente, le ombre che corrono sui muri. Fuori piove, o nevica; come volete voi. Forse gli occhi dell’uomo cominciano a chiudersi. Ma uno degli stivali si muove.
Gli stivali, forse stanchi di muoversi solo quando lo esigeva 1 uomo tanto piatto quanto ad immaginazione, decisero di saltellare qua e là per la casa. Andarono alla porta, poi salirono al piano di sopra… a sgranchirsi le suole. L’uomo sentiva gli stivali scalpicciare. Poi li sentì sulle scale quindi in corridoio. Bè, si rilassavano 1 po’ anche loro. Alla fine presero a calci il loro padrone e lo buttarono fuori.
A parte tutte le idee che possiamo avere sul soprannaturale, trovo che la letteratura non possa (pena una certa sterilità) prescindere dall’elemento fantastico, né debba temere d’essere talvolta assimilata al mondo delle fiabe. Ma di questo, in un prossimo post.

venerdì 7 dicembre 2007

Note su Pablo Escobar (parte prima)

Su Internazionale di ottobre ho letto un servizio sul colombiano Pablo Escobar(1949-1993): forse il narcotrafficante più famoso di tutti i tempi; di sicuro, il più spietato. Mescolate Sonny Corleone, Nerone o Caligola, aggiungete un po’ di Peròn, condite con vari problemi psichiatrici, allungate il tutto con le dovute dosi di mammismo e sessismo tipiche di (quasi) ogni maschio latino… ed il boss dei narcos è servito.
La vita di Escobar sembra scritta da Benni o da Fo; certo, in essa manca l’elemento comico e paradossale che troviamo in loro. Ma non si possono far uccidere circa 4mila persone (per certi furono almeno il doppio) e reggere un impero economico-criminale in modo paradossale e comico. Ciò non toglie che nella vita del boss fossero presenti elementi anche grotteschi: di un grottesco macabro, se esordì come ladro di lapidi! Del resto, per una sorta di nemesi una volta morto, qualcuno rubò la sua lapide. Un passaggio di testimone; magari un testimone piuttosto pesante…
La carriera di Escobar proseguì, come per ogni delinquente che si rispetti, come ladro di macchine, contrabbandiere di sigarette ecc. Comunque, dalla foto segnaletica scattatagli in occasione del primo arresto (nel ‘76 per contrabbando di coca) egli sorride sereno ed il suo faccione ispira simpatia. 27enne, sposerà la 15enne Victoria Henao che rimarrà sempre l’amore della sua vita... eppure alla sua morte 700 donne, molte delle quali sarebbero state sue amanti, misero il lutto.
Ma sul lavoro Don Pablo non tollerava debolezze. Faceva uccidere i suoi nemici: che fossero narcos rivali, politici o giornalisti scomodi, non importava; di fronte alla morte (la loro) per lui erano tutti uguali. Prima d’essere eliminato, chi aveva tradito doveva assistere alla tortura e successivo assassinio di moglie e figli. Escobar faceva torturare e mutilare perfino i neonati. A volte ordinava ai figli dei suoi nemici di dare il colpo di grazia al padre, che era stato torturato per ore. Spesso eseguiva la sentenza di persona.
Ma per i poveri era un santo: fece costruire dei quartieri popolari, nella sua tenuta di Antioquia piantò un milione di alberi. Fu eletto in parlamento(!) con 1 gruppo liberale e proclamato da un’importante rivista colombiana “Robin Hood di Antioquia.” Tutt’ora si dubita della sua morte (avvenuta in uno scontro con la polizia) o almeno si aspetta la sua resurrezione. C’è chi racconta: stavo morendo ma mi è apparso Don Pablo, vestito di bianco; ora io vivo.
Passò dalle semplici sparatorie, torture e mutilazioni all’uso sistematico delle bombe: nell’attentato al palazzo di giustizia di Bogotà (6 novembre ’85) morì 1 centinaio di persone. Ormai Escobar teneva in ostaggio il Paese e perfino un altro sanguinario come il boss del cartello di Cali, Gilberto Orejuela (detto El ajedrecista, lo scacchista) lo definì “uno psicopatico megalomane.” A fine novembre ’89 Escobar fece saltare in aria un aereo, 107 le vittime; pensava che a bordo ci fosse il candidato presidenziale Gaviria. Del resto, aveva già fatto uccidere 1 ministro della giustizia e Galàn, altro candidato alle presidenziali.

martedì 4 dicembre 2007

Il mondo dei conquistadores (parte seconda)

A chi rivolgersi, al re? Ma nella sua encomienda l’encomendero godeva d’ampia autonomia. Al papa? Egli aveva assegnato quelle terre e quei popoli al re, che a sua volta le aveva concesse agli encomenderos ed ai suoi funzionari. Al vescovo? Alcuni vescovi erano encomenderos e/o potevano essere anche funzionari reali. Allora a chi rivolgersi: al papa o al re? Le questioni che regolavano la schiavitù degli indios erano un affare laico e relativo alla Corona o di pertinenza ecclesiastica?
Si doveva insomma dirimere la questione in base al diritto romano ed al pensiero di Aristotele (come pensavano alcuni filosofi e giuristi) o in base al codice di diritto canonico? Si creava quindi un groviglio concettuale e politico-istituzionale da cui si poteva uscire solo, come proponeva Las Casas, col liberare tutti gli indios, subito e restituendo loro le terre, di cui erano soli e legittimi proprietari.
Certo, per il perverso intreccio economico, politico, teologico e giuridico che si era creato, la proposta lascasiana era scartata a priori. Anzi, col passare del tempo tale intreccio diventava ancor più difficile da sciogliere; del resto, l’oro accecava le menti e paralizzava le volontà. Fonti e testimonianze di parte india presentano gli spagnoli come degli esseri privi d’ogni decenza ed umanità, per es. quando si buttano sull’oro e sulle pietre preziose da loro razziate urlando, ridendo e facendo versi “come le scimmie”, lanciando appunto oro e pietre in aria e passandosi il tutto tra i capelli e sulla persona. La loro acqua e la loro igiene erano le ricchezze, peraltro estorte.
E’ interessante notare come anche l’indio attuasse una sorta di despecificazione (termine e concetto che accolgo da Losurdo): considerava quindi lo spagnolo come al di fuori della specie umana. Ma lo spagnolo despecificava l’indio del tutto a torto; la sua vittima, a ragion veduta. Poi, l’indio limitava tale operazione ai conquistadores, non la estendeva a tutti gli spagnoli e certo non a frati come Las Casas.
Inoltre, allo spagnolo mancava perfino quel sostrato teologico che avrebbe potuto “giustificare” il suo dominio sugli indios: con la bolla Dominus Sublimis (1537) papa Paolo III aveva affermato che essi erano “uomini veri”. L’imperialismo spagonolo si poneva quindi contro quella stessa religione cattolica di cui pure si definiva difensore.
Ma ora abbandoneremo il terreno teologico-religioso per spostarci principalmente su quelli pratico e giuridico-filosofico. Vedremo così che perfino un canonista innovatore (ed infatti considerato tra i fondatori del diritto internazionale) ma prudente come il Vitoria, considerava inaccettabili prassi e teoria del Requerimiento.