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giovedì 31 dicembre 2015

Solo poche righe sul vento


Il vento tra gli alberi
rilassato
ma non indifferente
soffia e si insinua
spettinando di continuo la parrucca delle foglie.

Stamattina
la radio non si accende:
sarà che non ho avuto voglia
d'andare
a far legna?

Il vento fischietta una canzoncina
e chissà perché,
penso che sarebbe bello, stamattina
incontrare Bukowski, S. Girolamo e Bertolt Brecht.

A Brecht direi:
“Senti, Bert, prenotami una birra,
ci incontreremo
nella mia seconda vita
e berremo insieme un bel boccale o forse tre,
di sera, sull'Alexanderplatz.”

Poi direi a S. Girolamo:
“Caro Jerry, non ti parlo come un
asinello a 2 gambe
e neanche, credimi, come una
spada cosparsa di miele...
perciò ti prego,
dammi qualche grammo della tua eloquenza!”

Incassata la risata di Bukowski
per le citazioni da S. Jerry
continuerei, davvero continuerei ad insinuarmi
tra le pieghe del tempo
così come potrei
dribblare le erbacce
che ridacchiano tra le rotaie di vecchie
o vecchissime stazioni...
con solo un sottile ma ben presente vento
a farmi compagnia.

Il vento fischietta tra le foglie,
sembra un flauto elettrico ma piuttosto sfiatato:
però non chieda del fiato a me...
io ne ho solo per correre
e per correre senza inutili traguardi
da tagliare
o da fare a fette.

Poche ore prima dell'anno nuovo un pistolero
verrà da me,
vorrà qualche consiglio
per cavarsela con sciocche, disinvoltissime gatte o donnine
e con arroganti e feroci desperadoes
ma anche a loro dirò
che ho fiato solo per correre
e per correre
dove si affilano penne, armoniche, futuri
e possibilmente, cuori.

Dirò al pistolero
che la Nerissima Signora
dovrà fare della sua lurida falce
un certo uso,
perché sarò troppo occupato ad ascoltare il vento
ed a ridere
con chi amo ed amo,
e ad ascoltare chi ancora mi parla
anche se non c'è più
perché vedete,
il punto è che
sono
io,
il vento...

giovedì 24 dicembre 2015

Il Natale dell'investigatore


Quella sera di fine dicembre Joe Evans se ne stava solo soletto nel suo studio al penultimo piano del Robert Mitchum Building a Los Angeles, California.
Lui era Joe Evans. Ma forse questo l'ho già detto.
Joe si sarebbe ricordato quella sera per molto, molto tempo: anche perché mancavano 5 minuti a mezzanotte quando nello studio entrò una tipa dai capelli ramati e dai celtici occhi verdirlandesi.
Una così Joe non l'aveva mai vista, ma comunque, che differenza avrebbe fatto? Una rossa come quella non avrebbe mai visto lui; neanche se lo avesse fissato fino a diventare strabica.
Se lui, Joe Evans, investigatore privato ed anche comunale fosse stato un poeta, le avrebbe scritto poesie d'amore ululante.
Se lui, ex-sergente dei marines avesse potuto sposare una come lei, sarebbe diventato astemio come un tenente dell'esercito della salvezza.
Se non fosse stato quel gallese romantico e selvaggio che era, si sarebbe consacrato a quella donna come un eremita vegetariano...
“Ok, Joe, ok”, dissi, “ora basta con le metafore; lo sai che non ti escono bene.”
“Ma a te”, ringhiò lui, “entreranno bene le pallottole in testa, se non la smetti con le parolacce! Che diavolo è, una metafora?!
Fatto così, Joe. Ma gli voglio bene, perché è mio fratello.
Una sera, per sfida, riempì di whisky uno strano contenitore e ne bevve una buona parte. Poi mi fissò e disse: “Be'? Se l'alcol fa così male, come mai io sto ancora così bene?”
“Joe, Joe... Non è l'alcol che ti farà male, ma averlo bevuto...”
“In un secchio?”
“No, fratello: quello non è un secchio. E' la pattumiera.”
Insomma, scoppiammo a ridere poi andammo a comprare i regali di Natale.
Comunque, da quell'instancabile segugio che era, Joe aveva raccolto un sacco di prove sulla mala amministrazione cittadina e dello Stato: pubblica, privata, laica o religiosa che fosse.
Il sindaco voleva risanare le periferie di L. A. Bene. Ma aveva dimenticato di dire che sulle aree da risanare sarebbero sorti interi quartieri residenziali, la cui costruzione avrebbe arricchito suoi amici, parenti ed amanti.
Il vescovo di L. A. amava molto i bambini; fino alla pedofilia.
I rifiuti radioattivi sarebbero stati smaltiti nei “campi di accoglienza” riservati alla gente delle periferie.
Era stata appena approvata una legge che “sospendeva” la Costituzione ed i diritti civili onde “sviluppare ulteriormente il mercato.”
Era previsto il ripristino della pena di morte e la cancellazione del reato di tortura.
A fini di “prevenzione sociale” si stava chiudendo il 40% delle scuole.
E più Joe scavava, più marcio trovava.
Per questo la mattina del 23 dicembre inviò alla giunta comunale della città un biglietto d'auguri la cui scrittura, appena entrata a contatto con l'aria, fece esplodere il municipio, che saltò in aria col sindaco, decine di consiglieri e tutte le loro collezioni di fruste, manette, pistole e provviste di cocaina.
La notte di Natale il mio telefono squillò alle 4 del mattino. Io ero sveglio, stavo preparando una lezione su Kierkegaard ma avevo avuto una giornata pesante, perché non avevo aiutato mia moglie a cercare il pastorello che nel presepe, cerca i cardi selvatici.
Al telefono era Joe. Mi disse che aveva deciso d'entrare in clandestinità, anche perché si era messo alla testa di certi messicani che volevano riunire la California al Messico.
Da allora è passato un anno e non l'ho più visto né sentito. Lui era Joe Evans, investigatore comunale.
Purtroppo la lezione andò male: il pronipote del presidente Bush non aveva nessuna inclinazione per la filosofia. Così persi la cattedra all'università e fui internato in manicomio.
Ed è da lì che scrivo, o meglio, dal blog del reparto.
Ma Joe può stare tranquillo: nessuno userà mai come prova contro di lui quello che scrive un pazzo.
E comunque, buon Natale a tutti!





sabato 19 dicembre 2015

Scusa, ti richiamo!


Scusa, ti richiamo!, è la risposta che certi danno quando non hanno voglia di sentirci.
O quando vogliono farci credere d'essere occupati. Perché molte volte non hanno proprio niente da fare, ma non hanno il coraggio d'ammetterlo... né con noi né con se stessi.
Be', forse a volte sono davvero occupati; ma allora, perché Satanasso non spengono il telefono?
Secondo me perché vogliono far sapere che appunto sono occupati. Cercate di capirli, poveretti: loro hanno così tanto da fare e noi come ci permettiamo di non saperlo? Forse fa parte del loro durissimo sgobbare il fatto di farci sapere che non hanno un attimo di respiro.
Perciò ci richiameranno, su questo non dobbiamo nutrire alcun dubbio. Questo annuncio di futura chiamata è proclamato con voce metallica e tono quasi intimidatorio; di sicuro, parecchio infastidito.
Solo, non si sa quando ci richiameranno. Né possiamo chiederlo: sarebbe considerato segno di maleducazione.
Del resto, non appena iniziamo a dire: “Sì, ma scusa, io vorrei sapere se...”, loro ci chiudono il telefono in faccia.
E non richiamano.
Mai.
Per niente al mondo.
Ho notato (e l'ha notato anche la mia faccia, ormai parecchia tumefatta) che di solito si comportano così: ufficiali; banchieri; ecclesiastici; commercialisti; avvocati; professori universitari; medici; funzionari di enti pubblici e/o privati; belle ragazze; idraulici.
Non è quindi questione di colore della pelle, religione, età, sesso, professione ecc.
Ma c'è qualcosa che accomuna tutti questi tipi umani: il potere.
Per motivi spesso discutibili o casuali, ognuno di questi tipi si trova al di sopra di tanti altri.
Ma voi ce lo vedete un operaio, un ragazzo o una ragazza di call center, un lavapiatti, un contadino, un precario della scuola, un soldato semplice, un piccolo impiegato, un disoccupato, un immigrato o chi volte voi, a rispondere così?
Sì, qualche P.U. (perla umana) potrà anche essere occupata. Ma potrebbe comunque risponderci in modo meno sbrigativo e diciamolo pure, sprezzante. Il sapere però d'avere il coltello dalla parte del manico fa sentire certe persone dei padreterni.
Perché certo, anche a parte tutto questo, c'è qualcosa che sta alla base di certi comportamenti: la semplice, volgarissima maleducazione. Che non necessita di ulteriori aiuti, sia pure tecnologici.


sabato 12 dicembre 2015

"Houdini. L'ultimo mago",di Gillian Armstrong (2007)


Per me è difficile collocare il film, girato dalla regista australiana G. Armstrong, in un genere definito. Benché il protagonista sia l'illusionista o mago Houdini, la magia e l'illusione non sono tutto il film.
Intanto, va detto che nel corso della sua vita Houdini ha fatto tante cose: è stato aviatore, attore, regista: per es. ha lavorato con Melliès, il grande regista francese. Ed è stato anche “mago”, certo.
Probabilmente su di lui sono stati girati tanti films, ma prima di questo io ne ho visto solo uno, protagonista Tony Curtis: si intitolava Il mago Houdini (1953) e si basava anche sul rapporto del mago, figlio di immigrati ungheresi negli Usa, con la madre.
In effetti, riprende questo tema anche la Armstrong. Solo, lei assegna un ruolo centrale anche a Mary Mc Garvie, una donna che con la figlia, la piccola Benj (Saoirse Ronan) vive di espedienti e soprattutto, cerca di farsi passare per una grande medium.
Sia il vero “mago” sia quello presentatoci dalla Armstrong furono sempre ossessionati dalla figura della madre o meglio, dal rimorso per non essere stato presente al momento della sua morte...
Nel film con Curtis (il cui regista era George Marshall) la madre di Houdini appariva come una donna piuttosto fredda, autoritaria, inflessibile: soprattutto per quanto riguardava le scelte sentimentali del figlio, a cui non perdonava l'amore per una donna non ebrea.
La Armstrong non fa comparire mai la madre del mago, però lei è sempre presente: il figlio è infatti disposto a pagare ben 10mila dollari a chiunque possa rivelargli le sue ultime parole in punto di morte. Questo dato corrisponde poi alla realtà: Houdini, che conosceva vari trucchi, smascherò in questo modo molti imbroglioni.
Bene, la regista fa arrivare Houdini ad Edimburgo, in Scozia (altro fatto realmente accaduto) affinchè possano essergli rivelate le ultime parole della madre.
Ma l'incontro con Mary si rivelerà fondamentale: anche perché egli dovrà affrontare una realtà che non conosce o che addirittura teme... quella dell'amore.
La Armstrong e i suoi sceneggiatori (Tony Grisoni e Brian Ward) ci presentano un uomo tormentato dal senso di colpa come uomo e come figlio, pieno di dubbi e di speranze circa l'aldilà, attratto ma anche spaventato dalla prospettiva dell'adulterio, talvolta quasi rozzo eppure affascinato dall'arte ecc. ecc.
Un uomo che cerca sempre di superare i suoi limiti: quelli fisici come quelli mentali, ma questo non per dimostrarsi un superuomo, quanto per cercare di sconfiggere ciò che lo tormenta.
La recitazione poi di Guy Pearce (Houdini) e dell'incantevole Catherine Zeta-Jones (Mary) è molto naturale, così come quella di Saoirse. I tre sono un grande e credibilissimo terzetto.
I dialoghi sono di buona qualità letteraria ma per niente cartacei.
Talvolta, certe battute sono, nella loro lapidarietà, naturali... come quando Benj dichiara: “Spesso l'amore porta dolore e qualcuno viene messo da parte.”
Talaltra, il tema del legame tra l'amore, l'adulterio e le convenzioni sociali è affrontato con grande spregiudicatezza ed onestà. Per es., di fronte alla prospettiva di tradire la moglie, Houdini, dice a Mary che ciò: “E' scandaloso.”
Lei: “Scandaloso? Chi lo dice? Non è scandaloso. E' quello che fanno gli uomini e le donne. Lottiamo contro l'inverno che è in noi, contro la solitudine. E a volte, se siamo fortunati, abbiamo la possibilità di provare, anche solo per un attimo fugace, il vero amore.”
Lui: “Hai mai provato il vero amore?”
Lei: “No. Dicono che è facile, che è come cadere.”
Certo, questa caduta può essere un bene o un male: non a caso, in inglese, innamorarsi si dice to fall in love, che letteralmente significa cadere in amore.
Comunque per me questo film intreccia con una certa maestria molti e complessi temi.
E come scenario la Edimburgo notturna è davvero intrigante: un complimento anche a lei, oltre che agli attori, alla regista e agli sceneggiatori.
Ora non vi resta da fare che la cosa migliore: cercare il film.
E godervelo. 

sabato 28 novembre 2015

L'allevatore


Indubbiamente, è difficile allevare dei piccoli: tu sei un adulto, hai idee, aspirazioni ed esigenze ben diverse dalle loro. A volte, sembra di appartenere a 2 specie differenti, se non opposte.
Tanto più se i piccoli che devi allevare sono dei pesci.
Sì, perché (da qualche tempo) io sono un allevatore ittico e posseggo regolare licenza.
I soliti maligni sostengono che come allevatore non varrei molto; tutte balle.
Il fatto che mi siano morti 14 pesci su 15 non significa per niente che io (come ha scritto la rivista Mare marino) sia: “Incapace di una solida programmazione a livello di alimentazione”, e che non conosca “neanche le basi della psicologia animale.”
Tutto questo è falso: infatti, il pesce che si è salvato, è di plastica. E quando muore, quello? Secondo voi questo non è brillante (se non geniale) programmazione?
Ma la composizione appunto di plastica della loro carne e del loro scheletro, non significa che allevare degli Ogvn (oggetti galleggianti non viventi) sia una faccenda banale o addirittura semplice.
Comunque la mia passione per l'allevamento dei pesci artificiali è piuttosto recente: fino a pochi anni fa ero un archivista.
Amavo le biblioteche polverose e credetemi, anche quelle tirate a lucido, col linoneum che splende come uno specchio di cristallo; adoravo i vecchi codici, i manoscritti antichi e tutto sommato, stimavo le connessioni internet.
Ma un bel giorno mi cadde a terra un timbro, che rimbalzando urtò la stilografica del Coordinatore Centrale.
L'urto fece schizzare dell'inchiostro sui riccioli unti di gel del Coord. Centr., che mi licenziò in tronco.
La sera stessa aspettai l'elegante schiavista sotto casa e lo uccisi con 5 colpi di fucile.
Be', io intendevo solo spaventarlo, infatti quando mi vide (il Coord., non il fucile) disse: “Ma che cosa vuol fare, con quell'arma?!”
“Una bella partita di baseball... con la sua testa! Non è meglio un fucile, di una volgare mazza?”
Lui iniziò a strillare che ero un pazzo, un criminale, un rifiuto sociale.
Io: “Ma dottore, ormai mi ha licenziato, perché non si gusta la dimensione scherzosa, ludica, giocosa della mia frase?”
Macché: quello continuò ad insultarmi allora feci fuoco.
Non fui mai scoperto, ma da quella sera sogno sempre il suo cervello spappolato sul muro; un incubo disgustoso, credetemi.
Meno male che sono diventato un allevatore ittico! Uno mica può vivere per sempre con certe terrificanti visioni, e senza confidarsi mai con nessuno. Per fortuna, quando nutro Ludus, gli parlo di quell'increscioso incidente... ed anche di tante altre cose.
E lui mi capisce, mi capisce sempre.




venerdì 20 novembre 2015

Gli inizi delle canzoni


Per piacermi, una canzone deve avere un bell'inizio: magari è bella comunque, eppure un bell'inizio mi rimane impresso: è il marchio di fabbrica di un pezzo.
Per la musica che piace a me cioè rock, blues, country, reggae e canzone d'autore, l'inizio consiste soprattutto nel riff cioè nella frase musicale ripetuta dai vari strumenti. Un riff è alla base di un brano ed anche lo strumento solista non può mai uscire dal riff. Esso ha funzione soprattutto ritmica perciò in generi musicali di solito scarni, essenziali come il rock ed il blues (qui non penso certo ai Pink Floyd o ai Genesis), il riff è fondamentale.
Il riff conferisce slancio ad una canzone e: a) ci crea una certa esaltazione; b) fa ricordare il pezzo a distanza anche di anni.
Pensiamo a come inizia Satisfaction dei Rolling Stones e trovatemi qualcuno che almeno per quei primi, pochi secondi, riesca a non muovere a tempo almeno un'unghia!
E trovatemi qualcuno che sempre per quanto gli Stones, non salti su ad urlare di gioia ululante non appena senta l'incalzante e martellante chitarra di Jumpin' Jack flash!
Idem per quanto riguarda la Sweet Jane di Lou Reed con alle chitarre Dick Wagner e Ian Hunter.
Si dirà: ma questo vale per il rock, soprattutto per quello più classico (che io ed i miei amici chiamavamo di strada).
No, secondo me vale anche per altro rock: pensiamo all'inizio di Like a rolling stone di Dylan, che comincia con un colpo di rullante, a cui segue subito dopo un piano fluttuante, qualcosa che evoca il passo di un ubriaco o di mr. Magoo... ed il piano è accompagnato, oltre che da agli altri strumenti, anche dall'organo suonato da Al Kooper: anch'esso piuttosto fluttuante o ondeggiante.
Sempre per quanto riguarda un altro musicista che solito non ha fatto molto rock di strada, come per es. David Bowie, la sua Heroes ha un inizio con dei sintetizzatori che cattura subito e che a me crea un senso di intrigante inquietudine.
In campo più pop-rock, quello che notiamo nella Help! dei Beatles è la centralità che assume la voce: essa letteralmente grida e chiede aiuto, un grido che non possiamo ignorare anche se poi il pezzo prosegue situandosi tra il rock e la ballata.
Sempre nei Beatles, notevole l'impatto della chitarra ritmica in Get back: un pezzo questo che anche a distanza di tanto tempo, fa ancora la sua figura. L'ho sentito eseguire perfino in scalcinate feste di piazza: ha distolto vari e pericolosi avvinazzati dai loro tentativi coltelleschi. Cantate e ballate, ragazzi: l'obitorio è un posto noioso.
Ottima anche l'introduzione di armonica di Neil Young in Comes a time: qui mi riferisco alla versione che Nello eseguì coi Crazy Horse nel live Rust never sleeps (1979). Quell'armonica mi evoca sempre la nebbia che si sta appena diradando dalla cima di qualche montagna coperta di neve. Quelle note mi danno un po' di malinconia ma anche una sensazione di grande serenità.
Insisto sull'armonica: mi piace molto come con quella Lennon attacca Love me do. Quel riff è deciso e coinvolgente. Poi per me il brano contiene degli sviluppi, anche in senso rock, piuttosto interessanti.
Io ho cercato, purtroppo senza un gruppo, appunto di sviluppare la canzone in quel senso e vi assicuro che funziona. Basta soltanto suonare quell'attacco in modo più veloce ed anche spezzato; per il resto, se avete con voi un bel basso, una batteria forte ma non invadente e due chitarre che sanno fare il loro lavoro, perfino Love me do (che certo è distante dal rock stradaiolo) può incendiare la zona!
Per ora vorrei concludere con Jungleland di Springsteen e della “E” Street Band.
Il brano inizia con degli accordi di piano molto armoniosi, quasi allegri, che a me fanno pensare alla pioggia. C'è qualcosa di vivaldiano nell'inizio di Jungleland; del resto, fin dall'inizio, zio Bruce canta: “Barefoot girl sitting on the hood of a Dodge/ drinking warm beer in the soft summer rain”, una ragazza scalza siede sul cofano di una Dodge/ bevendo birra tiepida sotto la soffice pioggia d'estate...
Vorrei sottolineare come quel piano mi crei una sensazione di attesa ed insieme, di febbrile gioia: quella che provavamo quando, da ragazzi, ci riunivamo con gli amici per andare ad un appuntamento, a suonare o a giocare una partita piuttosto importante.
Questa introduzione al piano suonata da “professor” Roy Bittan, è il Carroussel waltz e sarà ripreso (alla chitarra) pochi anni dopo dai Dire Straits in Romeo and Juliet.
Benissimo, poi Jungleland decolla per fiammeggianti lidi rock e si spegne dolcemente con tutti i poeti, gli amanti e le vittime degli scontri tra le gangs che infine cadono “feriti/ ma non ancora morti/ stanotte, nella giungla d'asfalto.”
Ma tutto questo è stato reso possibile da quel piano che chiama a raccolta ogni energia, positiva e negativa, della notte e degli angeli e dei demoni che la abitano...



sabato 31 ottobre 2015

Tutta la fantasia che posso sopportare


Questo pomeriggio siedo tutto solo nella mia cucina. Nessun bicchiere davanti a me, nessuna caffettiera più o meno fumante, nessuna radio che mitragli canzoni.
Se attraverso il salotto posso sentire l'anziano amico di Emerson (il filosofo, non il musicista) chiedergli: “Dunque che cosa farai?”, e lui: “Seguirò la voce del mio cuore.”
Quell'altro: “Ma potrebbe anche essere la voce del Diavolo.”
Finardi con Sugo mi riporta il suono ed il sapore degli anni '70.... molte canzoni del disco sono invecchiate bene, sapete? Penso a Musica ribelle, La radio, Voglio, La C.I.A e ad Oggi ho imparato a volare.
La pioggia è andata via, penso che si sia spostata verso o sopra il mare, magari per fare il verso al vento.
Comunque potrei cogliere al volo qualche goccia di pioggia e volare a Venezia per una bella corrida: come dice el Marcèl Brusegàn, anticamente, a Venexia, si facevano... eccome!
Esploro la Serenissima con un vecchio e scalcagnato canotto cagliaritano: la città sembra deserta ma so che (dietro le finestre di aristocratico legno vecchio) mi osserva, mi studia e stende svariati capi d'accusa.
Così accuso il colpo e spicco il volo verso Salzburg o Salisburgo che dir si voglia: Mozart e Thomas Bernhard sono lì, alla stazione... con in mano una fisarmonica ed un clavicembalo.
Bernhard: “Ma benedetto ragazzo, ancora due minuti e ce ne andavamo! Ma sai quanto pesa un dannato clavicembalo?!
Con l'armonica suono distrattamente qualche accordo blues mentre Keith Richards ridacchia, accordando la chitarra elettrica.
Butta lì che: “Lennon sta arrivando, anche se dubita di trovare Vivaldi sobrio.”
Bernhard esegue un paio di gorgheggi mentre Keith piazza due pennate che spaccherebbero una montagna.
Io conservo la penna e tiro fuori la mia macchina da scrivere modello sumerico: sarà una lunga, lunga notte di canzoni, visioni e scrittura.


mercoledì 28 ottobre 2015

Che sia vero o che sia falso


Che sia vero o che sia falso
salgo su scale di nuvole
che tra scosse, tremolii, salti ed altro ancora
mi portano su ed anche un altro po'
quaggiù, sulla Terra...
o come la chiamano.

Che sia vero o che sia falso
percorro strade
che si spezzano, spezzano, si sfasciano,
il loro asfalto si squaglia
sotto un sole beffardo ed assassino
ed io sono lì,
in mezzo a quello sfascio...
in tutta la mia fondamentale inutilità.

Come il solito Don Chisciotte di quasi sempre,
nella mia mano compare
sempre
una lancia a forma di penna
e mentre cerco di nutrire con l'inchiostro e col gesso
chi proprio se ne infischia,
dentro di me, bramieramente, sputo su:
Quest'onore fetente!

Poi
che sia vero o che sia falso
sotto un sole che corre malaticcio verso il tramonto
salgo su pullman
che spero, spero conducano
ad una qualche gioia o verità...
mi basterebbe rivedere,
alla fine di tutte le fermate
(ma non sto pensando alla morte)
le persone che sono state nel mio cuore
senza mai ingombrarlo.

Continuo a camminare,
cammino ancora e spesso a Cagliari,
nelle vie di quest'antica città fenicia
e non dubiti, mr. Eliot,
prestissimo
porgerò
(me ne dia il tempo!)
i suoi saluti a Phlebas il marinaio...
ma ormai cammino e nuoto sempre più per dovere,
sempre meno per piacere.
Che sia vero o che sia falso.

sabato 3 ottobre 2015

Figure e situazioni interessanti nel cinema


Amo i films: molte volte ne guardo uno che magari è iniziato 40 minuti o che comunque non vale granché... ma io voglio capire che cosa succeda e come.
In questi casi immagino come avrei potuto girare io certe scene, impostare certi dialoghi, inserire determinate musiche ecc. ecc.
Del resto, l'arte ed il cinema racchiudono il classico ventaglio di possibilità: l'antieroe che scampa ad un tentativo di assassinio o di linciaggio, avrebbe anche potuto lasciarci le penne.
Che cosa sarebbe successo se fosse morto prima di scatenare il virus che fece morire 3 milioni di persone a Los Angeles o a New York... gli USA avrebbero almeno iniziato a trattare bene i reduci di guerra mentalmente disturbati?
E perchè tra i protagonisti dei thriller di rado si trova una donna? Di solito è la compagna del maledettissimo killer o la sua vittima.
E perché anche nei western i duri o comunque i protagonisti sono sempre degli uomini?
Eppure in C'era una volta il West di Sergio Leone, Claudia Cardinale era una protagonista credibilissima.
In un altro western le protagoniste erano la Bardot ed appunto la Cardinale: che inoltre, il regista ebbe il coraggio di non mostrare troppo discinte.
Eccezioni, purtroppo: di solito il cinema ci presenta la donna come vittima o come geisha.
In Attrazione fatale di Adrian Lyne, Glenn Close è davvero inquietante... purtroppo, per sottrarla alla falsa alternativa vittima/geisha, il regista non ha trovato di meglio che trasformarla in una psicopatica.
Ma in Miriam si sveglia a mezzanotte di Tony Scott, la Deneuve era una vampira piuttosto affascinante e complessa; in confronto, il pur valido David Bowie, sembrava uno studentello del liceo!
Notevole anche Catherine Zeta-Jones in Houdini. L'ultimo mago di Gillian Armstrong: sensuale ma in modo naturale, e questo perché? Perché, almeno secondo me, la Z.-Jones è una signora attrice. Ed anche quando prende fuoco per difendere un suo punto di vista, lo fa in modo realistico, mai caricato. Seguitevi lo scontro appunto con Houdini, verso la fine del film, e capirete che cosa intendo.
Ma vedo che ormai sto parlando solo di attrici che oltretutto, sono anche delle belle donne; ma questa è forse una colpa?
Del resto, io ho sempre apprezzato anche Anna Magnani, che certo non era una bella donna. Insomma, se una brava attrice è anche bella, non c'è niente di male; l'importante è che non reciti come Barbie.
Per es., in films come L'innocente di Visconti e Divina creatura di Giuseppe Patroni Griffi, Laura Antonelli ha dimostrato d'essere anche una discreta attrice.
E comunque, in films in cui la protagonista deve essere una donna intrigante e sottilmente sexy, ovviamente un regista deve scegliere una donna... intrigante e sottilmente sexy.
In Reds di Warren Beatty, Diane Keaton (che interpreta la compagna di Reed, Louise Bryant) vive la sua storia d'amore e di lotta appunto col giornalista (testimone della rivoluzione russa del '17) trasportandoci in quell'epoca... e con grande realismo. Avete presente poi la discussione con l'Eugene O' Neill impersonato da Jack Nicholson?
Ma vedo che sono andato un po' fuori tema.
Be', poco male: così avrò la scusa per scrivere un post sull'argomento.
E poi, forse non sono andato fuori tema: quando si tratta di cinema le possibilità sono come le pietre che (lo diceva Aristofane, giusto?) una volta lanciate, non si sa mai dove finiranno.
Anche se a dire il vero, a me le pietre finivano spesso in testa... e forse è per questo che scrivo pezzi come quello che state leggendo.
Ma a volte riuscivo a beccare anch'io la testa di qualcuno... ma non con esiti mortali, sennò avrei scritto questo post dalla cella di un carcere. In fin dei conti, una possibilità anche quella.


venerdì 25 settembre 2015

21 gennaio 1793


Ora il re si trovava a pochi passi dalla ghigliottina.
Il popolo di Parigi fremeva di rabbia, di gioia e di incredulità: oggi, 21 gennaio 1793, sarebbe stato giustiziato Luigi XVI.
Del resto lui, lui, Maximilien Robespierre, l'aveva detto chiaramente: “I popoli non giudicano i re, li fulminano.”
Luigi e la regina, Maria Antonietta, quella che il popolo chiamava con disprezzo l'austriaca (del resto lo era) avevano tramato nell'ombra col sovrano della casa d'Asburgo, il fratello appunto della regina perché scatenasse le sue truppe contro la Francia.
Ed in seguito i reali di Francia, ormai alla luce del sole, spinsero il governo rivoluzionario ad invadere l'Austria.
Si scopriranno delle lettere in cui l'austriaca si faceva beffe di chi non capiva come questo disegno puntasse a soffocare la Rivoluzione nel sangue. In esse l'augusta sovrana qualificava graziosamente chi tra i rivoluzionari non capiva i loro veri motivi ma li sosteneva, col gentile epiteto di “imbecilli.”
Per una volta, Robespierre era d'accordo con lei.
Comunque, lo sfarzo di Versailles, le umiliazioni, la violenza dell'esercito, la censura, i privilegi quasi medievali di nobili ed alto clero, le ingiustizie e gli abusi di polizia e magistrati, gli stupri, le guerre, le rapine legalizzate, le carestie, la fame nera ecc. ecc. erano una sola, enorme ed intollerabile offesa a tutto il popolo.
Ed un re ed una regina ancora in vita (soprattutto un re ed una regina come Luigi e Maria Antonietta) avrebbero fatto l'impossibile per ripristinare tutto ciò.
Presto, molto presto i vari re europei avrebbero mosso i loro eserciti contro la Francia... in nome del “diritto di Dio e degli uomini”, come dicevano sempre; in effetti, lo stavano già facendo...
Ma poi, di quale diritto si parlava?
Quello di trattare nove uomini su di dieci come bestie da soma salvo poi farli a pezzi quando si ribellavano?
O il diritto di farli a pezzi comunque... magari per divertimento?



sabato 19 settembre 2015

La mania del tempo (2/a parte)*


Bene, ho iniziato a trattare questo argomento parlando della mania del tempo, così ora vorrei esaminare l'esatto significato del termine “mania” in Platone.
Per lui, “i maggiori beni ci sono largiti per mezzo d'una follia”, (mania) che è un dono divino.”1
Platone ritiene inoltre che una forma di follia sia ispirata dalle Muse e che come tale conduca gli esseri umani alla creazione artistica.
“E colui che senza un siffatto furore picchia alla porta delle Muse, persuaso che basti l'arte a renderlo poeta, non conseguirà l'intento, e la poesia di chi ragiona sarà eclissata da quella di chi delira.”2
Come sappiamo, l'idea di un legame tra arte e follia sarà tipica dell'arte romantica e forse, non solo di quella. Oggigiorno, essa è diventata pressoché un luogo comune (esemplificato dal detto “genio e sregolatezza”) e non di rado, questo genere di arte riproduce stancamente forme ed atteggiamenti prevedibili e stereotipati.
Comunque, per Platone sia la profezia religiosa sia la stessa “indagine sul futuro”3, hanno come elemento comune la follia. La mantica o arte della divinazione, la previsione cioè di eventi futuri, che avviene attraverso l'interpretazione di elementi animali, vegetali, climatici ecc. ecc., necessita della follia (non in senso evidentemente clinico o psichiatrico) come di qualcosa che supera la semplice evidenza ed il mero presente.
Questo superamento ci pone di fronte a ciò che non è ancora, ci spalanca tutto un insieme non solo di possibilità ma di futuri e concreti eventi. Del resto, rivolgere il proprio sguardo a ciò che non è ancora avvenuto può risultare folle, ma solo se vogliamo fossilizzarci sul nostro orizzonte immediato e non sui suoi possibili sviluppi.
E' il caso questo dell'utopia, che si presenta come un progetto (per es. di trasformazione politica, economica, culturale, morale ecc.), che come tale non può certo consistere in una meccanica ripetizione del presente o del passato.






Note*


* Ho pubblicato la 1/a parte il 23/08/2015
1 Platone, Fedro, Bit, Milano, 1998, xxii, p.56.
2 Platone, Fedro, op. cit., xxii, p.56. I corsivi sono miei.
3 Id., op. cit., xxii, pp.56-57. Il corsivo è mio.




venerdì 4 settembre 2015

Scusa, ti disturbo?


Ricordo quando non esistevano ancora i telefoni cellulari: c'era solo il telefono fisso (in casa) e quello pubblico, che potevi utilizzare in strada (o al bar) e che si trovava nelle cabine.
A volte qualche amico della comunicazione si premurava di asportare il telefono dalla summenzionata cabina, oppure di bruciarla.
Allora dovevi girare mezza città in cerca di una nuova. Comunque rischiavi di non trovare un telefono funzionante se non dopo qualche decina di tentativi.
Ma non sempre perché le cabine fossero state arrostite o i telefoni estirpati come erbaccia, quanto perché c'era un numero davvero limitato di telefoni pubblici.
Ovviamente potevi tornare a casa e telefonare da lì, ma in quei tempi i genitori concepivano & concedevano l'uso dell'apparecchio telefonico (la terminologia di molti di loro era spesso curiosamente burocratica) solo per:
a) chiedere informazioni di tipo scolastico;
b) lavorativo;
c) chiamare il medico oppure il becchino. Era tutto.
Qualsiasi altra comunicazione telefonica veniva disturbata o troncata dopo circa 5 secondi (nei giorni di festa dopo 6).
Spesso al telefono si applicava il lucchetto o il contascatti. O entrambi.
Possiamo quindi dire che quella del telefonino sia stata una bella invenzione.
Ma... Ma! Perché c'è sempre un “ma.”
Bene, avete notato che ora abbiamo sempre il cellulare appresso? Diciamo la verità: siamo drogati di telefonia.
Certo, il cellulare è comodo e maneggevole... anche se la scheda va pagata; nonostante le varie offerte, mica te la regalano!
Comunque quando chiami uno devi dire: “Scusa, ti disturbo?”
Prima dicevi: “Pronto, sono il tale, vorrei parlare col tale o con la tale.”
Adesso la formuletta è questa del: “Scusa, ti disturbo?”
Al che uno potrebbe anche rispondere: “Sì, in effetti hai scelto il momento peggiore degli ultimi 25 anni. Sai, sono stato appena investito sulle strisce pedonali e sono mezzo morto. Arriverò tardi al lavoro perciò sarò di sicuro licenziato. E ho appena divorziato.”
Ma se ci penso anche prima quando chiedevi: “Pronto” ecc. ecc., uno poteva rispondere: 
“No, non sono per niente pronto a parlare con te. Hai la conversazione più noiosa di un giurista del 1200 e” (questo poteva dirlo una ragazza) “perfino al telefono l'alito ti puzza come una fogna dei tempi di Nerone. O per meglio dire, di quelli di Vespasiano.”
Comunque perché cavolo devi attaccare discorso chiedendo ad uno se lo disturbi? Chi si pone un dubbio del genere non dovrebbe neanche telefonare. Dico bene?
Io proporrei un più amichevole e realistico: “Ciao, sono X. Come va?”
Poi spetterà a quello/a dire: “Ciao. Mah, tiro avanti. Piuttosto, ora non posso trattenermi al telefono. Magari ti richiamo, va bene?”
Scusa, ti disturbo? Boh! Se uno andasse al mercato e dicesse una frase del genere al fruttivendolo o al macellaio, lui risponderebbe: “Ma che domande mi fa? Si metta in fila ed aspetti il suo turno. Appena potrò la servirò. E non mi frughi tutta la merce!

venerdì 28 agosto 2015

Vampiri, cowboys, killers, amanti, pirati, clowns ecc. ecc.


Mi piacciono films dei generi più disparati: storico, thriller, fantascientifico, gotico, impegnato, comico, western, di guerra, erotico ecc. ecc.
Il solo genere che non mi piace è quello porno, ma non per moralismo: semplicemente, per me un film deve avere uno sviluppo e raccontare una storia... tutto questo nel porno non c'è, perché succede sempre la stessa cosa.
Non mi dice molto neanche l'horror: non so, sarà che a me provare spavento non diverte....
Ma per il resto, ripeto: mi piacciono praticamente tutti gli altri generi.
Ecco, magari non sopporto la monotonia: per es., in una storia di vampiri, mi annoia parecchio la figura del mostro (è proprio il caso di dire) assetato di sangue.
Certo, sappiamo tutti che il non-morto segue una speciale dieta, che prevede l'assunzione di notturne bevande a base ematica, ma se il film segue sempre e solo questo schema, allora la vicenda non presenta alcuna variazione. Diventa anzi prevedibile e tutta uguale: esattamente come il porno.
Ma dopo il Dracula di Coppola (1992), che ci presenta un vampiro romantico, uno cioè che a distanza di secoli crede di trovare (o trova davvero, se crediamo nella reincarnazione) la sua donna, ma per amore la risparmia, secondo me in futuro qualsiasi altra storia di questo genere dovrà tenere conto dell'impostazione di Coppola.
Ma se non erro, il romanzo di Stoker (1897) non esce dalla solita routine vampiresca.
Coppola ci presenta invece un vampiro tormentato dal suo bisogno di sangue ma anche d'amore. Se egli vampirizzasse la sua donna (Mina) potrebbe averla con sé per l'eternità... ma nello stesso tempo, non vuole condannarla alla dannazione, anche questa eterna...
Come vediamo, qui Dracula appare ben più complesso di quanto non risulti da tanti altri films.
Beninteso, egli trova comunque il modo di soddisfare con altre vittime il suo vizio satanico, tuttavia è tormentato da scrupoli amorosi, morali e perfino teologici.
Nel western, il cowboy in stile John Wayne risulta (almeno per me) improponibile: il semplice fatto di vederlo tutto d'un pezzo ed imbattibile, mi fa ridere.
Purtroppo, molte volte, certi attori sono costretti (o si autocostringono) ad impersonare sempre la solita parte: oggi questo capita a Bruce Willis, Schwarzenegger, a Stallone ecc. ecc. Sarà colpa dello show-business, di tanti registi, di vari sceneggiatori, o della paura che certi attori hanno di allontanarsi da un ruolo che ormai interpretano da decenni, ma in ogni caso i loro films sembrano tutti dannatamente uguali.
E questo capita anche a grandi attori come De Niro e Jack Nicholson...
Ogni tanto, registi e sceneggiatori coraggiosi e creativi dovrebbero dire ad attori ed attrici che sono ormai i fossili di sé stessi: “Sentite, in questo film proviamo qualcosa di nuovo... per es. tu, Jack, sarai un frate francescano del 1300: un mistico. No, piantala col solito sorrisetto alla Shining! Corri a leggerti qualcosa di S. Francesco o di S. Bonaventura e solo dopo torna sul set.”
“Tu, Jennifer Lopez, sarai una professoressa di filosofia. Cercati un vestito che ti arrivi sotto i piedi e comprati un paio di occhiali con delle lenti grandi come fanali del 1800. Luogo comune, dici? Pazienza. E copriti le gambe, accidenti... dico anche a te, Monica Bellucci!”
Chiaro?
Vabbe', poi le cose dovrebbero essere molto più complicate... per fortuna.


 Ma non temete: le complicheremo, le complicheremo...

domenica 23 agosto 2015

La mania del tempo I parte


In greco antico il termine manìa significa soprattutto follia, furore ecc. ecc.
Ma allora dovremmo girare alla larga dal tempo? Data, infatti, la sua natura, esso è fonte di pericoli o almeno o almeno di grande confusione. Appunto il tempo potrebbe offuscare in parte o del tutto le nostra capacità di giudizio, sviare le nostre scelte morali, sociali, culturali...
Ma anche ammesso che sia possibile girare alla larga dal tempo, dobbiamo chiederci se questo sia desiderabile.
Intanto, appare evidente il fatto che viviamo nel tempo: dunque come possiamo “girare al largo” o uscire da qualcosa in cui viviamo?
Qualcosa che inoltre entra a far parte di noi: il tempo, infatti, è come un vento che ci avvolge e tocca di continuo... ed anche se decidiamo di chiuderci in casa, esso continua a soffiare.
Ecco perché nelle sue Confessioni S. Agostino afferma che: “Il tempo non perde tempo: il suo corso non è senza traccia nei nostri sensi, ma nell'animo il suo operato è mirabile.”1
In effetti, sia il tempo in generale che la sua azione possono essere colti solo da noi: come protagonisti ma anche come sue vittime. Ed Agostino scrisse la frase poc'anzi citata dopo aver ricordato la morte di un carissimo amico.2 Si trattava, direi, di un'affermazione che doveva servire a lenire quel grande dolore.
Ma questo sarà mai possibile? Stando infatti al Vecchio Testamento: “Ci sono compagni che conducono alla rovina, ma anche amici più affezionati di un fratello.”3 L'impresa sembra quindi quasi disperata.
Per gli antichi Greci: “Il tempo è il miglior rimedio, la miglior medicina.” Parrebbe quindi che il semplice trascorrere appunto del tempo possa farci superare qualsiasi sofferenza.
Il che equivale però a fare dell'uomo un essere passivo ed a trasformare il nostro dolore o comunque il particolare sentimento che ci legava a quella persona, come qualcosa che sarebbe sottoposto a... scadenza: più o meno come può capitare ad uno yogurt. Ma il dolore “a scadenza” non dimostra alcun rispetto per la figura dell'amico.
Ora, non si tratta di santificare un continuo e straziante dolore: bisogna soffrire con dignità, sapersi controllare e non cedere a manifestazioni esteriori o a moti interiori che potrebbero rivelarsi di cattivo gusto, denotare esibizionismo o sfiorare addirittura il ridicolo.
Ma anche quando si evitino questi eccessi, comunque difficilmente il dolore per la perdita di una persona per noi straordinaria, può essere sanata dalla mera dimensione temporale: ecco che allora si può sprofondare nella mania del tempo, nel senso di una continua rievocazione (quasi masochistica) dei bei momenti vissuti con quella persona.
Non voglio colpevolizzare né sbeffeggiare chi fa questo, anche perché si tratta di una dinamica che secondo me, dipende anche dal presentarsi l'amico o l'amica come un essere in un certo senso unico: il parente o il familiare non possiamo sceglierlo. L'amicizia dipende fortemente dalla libertà ed il legame che nasce tra i veri amici (che non a caso sono pochi) è raro.
Inoltre, quando l'amico non si riveli all'altezza delle nostre aspettative (più o meno ragionevoli) il legame si rompe.
Qui vediamo quanto avesse ragione Cicerone quando affermava che “dall'amore deriva il termine amicizia.”4 La radice, sia linguistica che affettiva, è in effetti molto simile.
Infatti S. Agostino, parlando della familiarità che si crea con gli amici e delle manifestazioni di gioia che ad essi ci legano, dice: “Tali e simili manifestazioni sgorganti da cuori che amano e che sono amati, nel viso, nei discorsi, negli occhi, in mille altri segni tutti graditissimi, erano come esca che infiamma le anime e, di molte, forma una sola.”5
Dunque Agostino concepisce l'amicizia come un legame davvero speciale, ma gli preme altresì sottolineare la ragione secondo lui più profonda, che provò per la morte dell'amico.
Egli si chiede: “Come mai infatti quel dolore era penetrato tanto addentro e tanto facilmente in me, se non perché io avevo riversato l'anima mia sulla sabbia, amando un essere mortale quasi non fosse mortale?”6
Come vediamo, si tratta di qualcosa che ha a che fare col tempo: l'eccessivo affetto per un essere mortale, che come tale dipende strettamente dal lato temporale, crea nel nostro animo un attaccamento che al momento della morte altrui, causa un dolore difficilmente sopportabile.
Inoltre, questo dolore si rivela intrinsecamente errato, in quanto non si dovrebbe amare troppo chi per sua stessa natura è comunque destinato alla fine. Questo affetto è (nella prospettiva però religiosa) solo un volersi legare ad un bene inferiore, quando si dovrebbe cercare innanzitutto quello superiore cioè Dio.
Ma in Agostino (il cui concetto di tempo è comunque molto complesso) troviamo un'idea di amicizia molto alta. Quando poi dipinge la sua sofferenza per la morte dell'amico, rappresenta la sua solitudine ed il suo dolore in un modo che non ha niente da invidiare alle angosce di un Kafka o ai tormenti interiori del Raskolnikov di Dostoevskij.
“Ed io costituivo per me stesso un luogo desolato, dove non potevo stare, donde non potevo fuggire. Avrebbe potuto forse il mio cuore evadere da se stesso? Dove allontanarmi da me? Dove il mio io non mi avrebbe seguito?”7



Note

1 S. Agostino, Le confessioni, Bur, Milano, 1978, 4, VIII, p.119. Per una trattazione più sistematica del problema del tempo in S. Agostino, cfr. almeno Id., Le confessioni, op. cit., 11, X-XI, pp.317-336.
2 Id., Le confessioni, op. cit., 4, IV-VII, pp.115-119.
3 Proverbi, 18,24
4 Marco Tullio Cicerone, Laelius. De amicitia. Lelio. L'amicizia, Mursia, Milano, 1987, I, VIII, p.93.
5 S. Agostino, Le confessioni, op. cit., 4, VIII, p.120. Il corsivo è mio.
6 Id., op. cit., 4, VIII, p.119.

7 Ibid., 4, VIII, p.119. I corsivi sono miei.

domenica 2 agosto 2015

Strage di Bologna: chiarezza e verità


Sono passati ben 35 anni da quando per mano dei neofascisti Mambro e Fioravanti, il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna furono dilaniate da materiali esplosivi 85 persone e rimasero ferite (alcune in modo anche molto grave) circa 200.
Trentacinque anni; all'epoca ne avevo 18.
Nel 1980 molti di quelli e di quelle che ora sono giovani non erano ancora nati/e.
Né probabilmente si erano ancora incontrati i loro genitori.
Nel 1980, i genitori dei loro genitori (insomma, i nonni) erano relativamente giovani, o comunque avevano davanti ancora alcuni anni di vita.
E' vero, su questo punto mi sto dilungando tanto.
Ora, serve a qualcosa riflettere su questo albero genealogico?
Riflessioni come la mia possiedono forse l'arcano potere di riportare in vita i morti?
Alla prima domanda rispondo : perchè ogni sincero democratico ed antifascista ha il dovere storico e morale di difendere il legame che esiste tra le generazioni; soprattutto quando quel legame è stato stroncato in modo così brutale, beffardo, ingiusto.
Alla seconda domanda, ovviamente rispondo di no.
Nello stesso tempo, penso proprio che riflettere su tragedie come queste (e quella di Bologna è stata la più grave dalla fine della guerra) sia un modo per dare a quelle povere, innocenti vittime, nuova vita. Una vita che consiste nell'ospitarle nel nostro ricordo, nella nostra nostalgia... benchè la maggior parte di noi non le abbia mai conosciute.
Qui farei insomma lo stesso discorso con cui Gramsci concludeva (il 15 giugno 1931) una lettera alla madre. Egli scriveva che lei era da sempre: “Nell'unico paradiso reale che esista, che per una madre penso che sia il cuore dei propri figli.”
Alle stesso modo, quelle innocenti vittime stanno nei nostri cuori: perchè anche se la maggior parte di noi non aveva con loro alcun rapporto di parentela, il legame con chi cadde senza alcuna colpa per mano fascista è un legame profondo, spirituale nel senso migliore del termine.
Anche se chi è caduto poteva non sapere nulla del fascismo o del neofascismo. Così come, durante la Resistenza, i nazifascisti massacravano anche chi chi sapeva ben poco della loro immonda esistenza. Del resto, tra le vittime del 2 agosto c'era anche una bambina di 3 anni!
Allora oltre al ricordo serve la giustizia, che offre effettiva riparazione al sentimento di dolore e punisce l'iniquità perpetrata.
La giustizia che come sosteneva Aristotele (Etica nicomachea, V, 3) è “virtù completa”, la “più eccellente”, quella cioè in cui (come diceva il filosofo citando il poeta Teognide) “si riassume ogni virtù.”
Giustizia che nel nostro caso non si riduce al mero, astratto ambito giuridico, se il presidente dell'Associazione familiari delle vittime del 2 agosto, Paolo Bolognesi, chiede al governo risposte circa questi punti:
risarcimenti ai familiari delle vittime;
reato di depistaggio;
declassificazione sugli atti delle stragi.
Sul reato di depistaggio Bolognesi afferma: “Doveva avere una corsia preferenziale invece ha avuto una corsia ad ostacoli.”
Sulla declassificazione sempre Bolognesi dichiara: “E' applicata in maniera assolutamente non corretta e non porta da nessuna parte.”
Bolognesi ribadisce infatti che il problema non è solo quello degli esecutori ma anche quello dei mandanti.
Ora pare che in parlamento si stia iniziando a discutere su questo e speriamo che la discussione porti a qualche risultato...
Altrimenti dovremmo sottoscrivere le parole del dott. Scarpinato, che nel suo libro Il ritorno del principe scrive che in Italia “lo stragismo” è stata (fin da Machiavelli) la modalità classica di gestione del potere.
E l'insabbiamento, aggiungo io, il suo osceno, indegno copricapo.


mercoledì 29 luglio 2015

"L'amuleto" (2014), di Claudia Zedda


Bene, Claudia scrive che il libro è dedicato alla Sardegna ed a tutte le donne che la abitano, forti come tori. Quest'ultima frase sarà ripetuta spesso dalle donne che popolano L'amuleto; come uomo e come sardo, posso confermarla.
Ora, non sempre la forza delle nostre donne contribuisce al relax... però origina rapporti fondati su un'indiscutibile onestà.
Il paesino de L'amuleto non esiste realmente. Come leggiamo nell'Introduzione esso: “E' un pot-pourri di tanti che ho avuto la fortuna di vivere, visitare e conoscere.”
Questo espediente ha permesso a Claudia la giusta libertà narrativa, ma col dirci che questa cittadina si trova a 2 ore di auto da Cagliari, l'A. ci fa capire che essa può trovarsi nella provincia di Sassari o di Nuoro.
E per la protagonista, Virginia, questo è già un bel problema: in alcune parti dell'Isola, chi viene da Cagliari è spesso malvisto.
Come le dirà una ragazza del paese, Elena Desogus: _ I cagliaritani ci incuriosiscono sempre, in un senso o nell'altro.
Sotto quella frase si celava un certo atavico fastidio, una certa innata diffidenza per lo 'straniero'.” (p.99. Il corsivo è mio).
Bene, dal punto di vista di Elena, Virginia è una ladra cagliaritana: viene dal capoluogo per “rubarle” Costantino, il suo uomo. Non conta il fatto che ormai per lui quella con Elena sia una storia chiusa. La faccenda è poi complicata dall'appartenere Elena ad una famiglia di possidenti, le cui donne avrebbero inoltre dei poteri magici, o malefici.
Virginia è l'ultima discendente di donne forti come tori. La loro capostipite è Cecilia (1860), a cui seguono Chiarella (1880), Callina (1898) e la nonna appunto di Virginia cioè Agnese (1920). Da Agnese nasceranno nel 1939 Luxia (Lucia) e nel 1941 la madre di Virginia, Dominiga (Domenica). Virginia sarà tra noi nel 1981.
Il rapporto tra lei e Domenica (come anche tra altre figure di donna del romanzo) è sempre stato difficile, conflittuale: ma nel romanzo ciò è rievocato solo da veloci (benché significativi) cenni e da qualche flash-back.
L'amuleto comincia con l'annuncio della morte di Domenica. Da questo momento V. dovrà tornare per qualche tempo al paese della madre.
Così lei va in cerca della casa dei nonni: “Quella bella casa dal tetto color del muschio vecchio e dalle pareti di un giallo sbiadito”, che “si sarebbe mostrata svogliatamente, come chi sta in un medesimo luogo da sempre, per sempre.” (p.11)
Quella casa indica la stabilità degli affetti nel tempo ed attraverso la tempesta delle passioni, personali e collettive. E' rifugio, salvezza.
Ma è circondata da un mare apparentemente tranquillo di persone e di ricordi. Per es., la famiglia della madre di Virginia (i Tanca) ebbe serissimi contrasti con quella dei Desogus. Ed in quel paese la credenza nel cosiddetto ogu malu (il malocchio) è ancora forte. Né manca chi confeziona delle pipias, vale a dire delle “fatture” (p.115).
Certe credenze nascono, o sono scatenate, da amori giudicati illeciti: come quello tra Luxia, la zia di Virginia ed Ilario, della famiglia Desogus.
E perfino giovani colti come Costantino pare che temano di poter incontrare sa reula: “La schiera dei defunti dannati.” (pp.149-150)
Sembra quindi che la vita di questo paesino scorra su due binari: quello della logica e della modernità e quello del soprannaturale, dove le janas (le fate) possono essere “invidiose” di una “coppia felice, inciampata nell'amore.” (p.125)
Sì, perché anche l'amore può essere qualcosa in cui inciampiamo: questa definizione di Claudia mi piace molto, indica la casualità appunto dell'amore, che non per questo si rivela meno bello. E' quasi un destino, a cui non possiamo sottrarci.
In effetti, L'amuleto è anche la storia dell'amicizia poi scemata tra 3 donne (Luxia, Dominiga, Chiriga).
Virginia è tormentata dal rapporto rimasto irrisolto (e non solo perché è morta) con la madre, ma vorrebbe anche scoprire che fine abbia fatto sua zia Luxia, scomparsa nel nulla oltre 50 anni prima.
Questo inquietante intreccio di passioni, credenze ancestrali, ricordi, rivalità ecc. ecc. ha poi come scenario una natura aspra, che sembra assistere alle vicende umane con affetto ed insieme con indifferenza. Claudia, del resto, dipinge appunto la natura in un modo che denota sia rispetto che timore.
Infine, protagonista è non solo Virginia ma anche le altre donne che ho già elencato, che si inseriscono nel flusso narrativo in modo molto armonico: così la prospettiva del romanzo risulta più complessa ma nello stesso tempo, anche più chiara.
La polifonia, il suono cioè di più voci, fa della vicenda narrata qualcosa di collettivo, che così sfugge alle sole emozioni della classica protagonista, tipica della maggior parte dei romanzi.
Ma una sola voce non è mai sufficiente (né in campo letterario né in campo sociale) quando si tratta di vicende complesse...


Brava, Claudia: davvero una bella penna, la tua.

giovedì 23 luglio 2015

Altre chiacchiere col mio Interlocutore Immaginario


Mi trovavo a casa mia, con un po' di tempo per scrivere, leggere e pensare. Per chi, come me, si nutre di inchiostro, la condizione ideale.
Avevo fatto colazione da quasi 2 ore ed in più, bevuto il caffè. Ma la testa non girava ancora come avrebbe dovuto... Comunque non stavo male, visto che in fondo stavo bene. Così accolsi con un certo piacere la visita del caro I. I.
L'amico planò a mo' di tortora sul davanzale del mio balcone (o della mia finestra?) ed imitando il saluto di una cornacchia mediamente educata, bofonchiò: “Ciao, Ric. Tutto bene?”
“Tutto bene, I.I., tutto bene. E tu?”
“Anch'io, Ric. Sai, stamattina stavo pensando di riprendere a studiare il tedesco. Potresti farlo anche tu, richtig, giusto? Anzi: potremmo studiarlo insieme, se ti va.”
“E' quello che vorrei fare anch'io. Ma come hai fatto a leggermi il pensiero?”
“Be', R., non avrai mica dimenticato che io sono te...”
“Ah sì, hai ragione! Quindi quando io penso qualcosa, la pensi anche tu. Invece quando la pensi tu, la penso anch'io. Giusto?”
“Riccardino bello, adesso stai semplificando un po' troppo: ma in effetti sì, è così. Senti, ma prima stavi pensando alle tortore. Perché?”
“Mi rilassano. Invece le lucertole mi preoccupano. Non so che cosa possa pensarne Jim Morrison, ma è così. I topi e le blatte, poi, mi fanno ribrezzo. Mi piacciono solo i pesci rossi, anche se questo devo averlo già detto.”
“Va bene. E senti, in questo periodo stai leggendo qualcosa di interessante?”
“Sì, L'amuleto, di Claudia Zedda: un romanzo davvero ben scritto. Lei ha scelto di alternare alla voce della protagonista (Virginia) quella di altre donne, che quindi diventando co-protagoniste, ampliano la visuale della storia.”
“Bene, questo per quanto riguarda la narrativa. Ma per quanto...”
“Riguarda la saggistica? Be', La rivoluzione giacobina di Robespierre. Molte sue frasi, oltre che largamente condivisibili, sono anche molto musicali.”
“La musica della ghigliottina, eh?”, rise I. I.
Risi anch'io ma poi citai a I. I. vari storici che spiegavano come Robespierre non fosse quel sanguinario che si diceva. I. I. si disse d'accordo ed al riguardo citò vari passi dal Soboul, dal Guillemin e mi parve, anche dal Losurdo.
“Bene, Ric”, riprese, e come stiamo a musicisti?”
“Ho ripreso ad ascoltare Guccini: Farewell ed Autogrill sono stupende; lui sa parlare anche d'amore... ed in modo profondo e commovente. Mi ha fatto piacere riascoltare anche Via Paolo Fabbri 43: sia il singolo che il disco. E tu?”
“Sono passato a Greg Allman ed a Stevie Nicks. Al tramonto, poi, mi sparo Branduardi canta Yeats al massimo del volume. L'unica canzone che secondo me stona un po' con l'atmosfera (soffusa) del disco è Il violinista di Dooney, che va bene più che altro dal vivo.”
“Sono d'accordo. Sai che un mio amico andava ad ascoltare quel disco in case ancora in costruzione? Diceva che era un'esperienza esaltante e spettrale: sai, quegli scarni arrangiamenti per chitarra acustica e voce che risuonavano tra chiodi, travi e mattoni...”
“Sì, penso proprio che fosse tutto molto spettrale ed esaltante.”
”Ti ringrazio, I. I., per non avermi fatto quell'odiosa domanda: 'Quell'amico eri tu?”
I. rise mi salutò. Pensai che era proprio una brava persona; o che in effetti, lo ero anch'io. Anche se come diceva lui, forse stavo semplificando un po' troppo.



venerdì 17 luglio 2015

Il lavoro che brucia

Il 12 giugno 2015 su Controlacrisi.org Fabio Sebastiani ha pubblicato un articolo dal titolo Il lavoro uccide di più, anche senza ferire. La competizione individuale aumenta il burnout. I risultati di uno studio internazionale.
Ora, il fatto che il lavoro possa uccidere o comunque provocare danni gravissimi al fisico ed alla psiche delle persone può essere considerato in molti modi.
Il primo è quello tradizionale, quello cioè che collegandosi a Genesi 3,19 proclama: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane.”
Stando al racconto biblico, Adamo ed Eva hanno appena trasgredito al precetto divino (la famosa mela) e Dio li caccia dal Paradiso terrestre, condannandoli ad una vita di sacrifici, grandi pericoli e durissimo lavoro. Appunto il lavoro si presenta quindi come una punizione o una maledizione. Del resto, che esso sia molto faticoso e spesso per niente gratificante, è innegabile.
In latino “lavoro” si dice labor, che significa anche “fatica”, “sforzo”, “pena.” Addirittura, in Columella (I sec. d.C.) labor acquista anche il senso di malattia.
In inglese, la parola career che significa carriera: “Rimanda a una 'strada per carri'”; ancora: “Nell'inglese del Trecento la parola job (“lavoro”) indicava un blocco o un “pezzo”, qualcosa che poteva essere spostato da una parte o dall'altra.”1
Anche qui, “farsi una carriera” implica una costante ed immane fatica.
Già nell'Odissea Sisifo era condannato a portare in cima ad una montagna un masso che cadeva sempre giù a valle; masso che doveva recuperare e riportare su. Ogni volta invano. La famosa “fatica di Sisifo.”
In dialetto napoletano lavorare si dice faticà: anche qui abbiamo il concetto di un grande sacrificio, non di qualcosa di positivo a priori.
Probabilmente l'analisi di altre lingue, dialetti e culture confermerebbe quanto detto sinora.
Ma accanto a questa visione del lavoro, ne esistono anche altre: il lavoro come fatica ma anche come autorealizzazione ; o come condivisione con altri di esperienze, tecniche e saperi; come gioco, per es. nell'arte e nello sport; come ricerca, per es. nel caso della storia, della filosofia, della critica letteraria, dell'indagine scientifica e così via.
Ora, nessuna di queste visioni accantona l'idea che il lavoro richieda fatica e sacrificio.
Ma il discorso cambia quando la dimensione lavorativa richiede prezzi francamente eccessivi. Come, infatti, dimostra articolo di Fabio, il “burnout” ti brucia anche quando sul posto di lavoro non muori.
Anche quando poi la mortalità sul luogo di lavoro diminuisce, ciò dipende solo dal fatto che a causa di una devastante crisi economica come l'attuale, diminuiscono anche le persone impiegate.
Ma appunto sul posto di lavoro, la mortalità continua ad esistere. Fabio cita, infatti, una ricerca internazionale: “I cui risultati sono stati resi noti la scorsa settimana nel corso di un convegno della fondazione Rodolfo Debenedetti.”
Lo studio ha evidenziato come vi sia una “correlazione diretta” tra l'aumento della “concorrenza internazionale” ed il “tasso di mortalità tra i lavoratori del settore manifatturiero.” Questo aumento ha comportato un aumento di mortalità sia in Italia che negli USA.
Si tratta di dati ufficiali che però (come è noto) non tengono conto del fatto che molto spesso, le persone impiegate lavorano in nero; perciò le imprese hanno tutto l'interesse a non segnalare eventuali decessi.... che ufficialmente, non avvengono.
Gli stessi lavoratori, che trovandosi in stato di necessità o di non regolarità con la legge (“assunti” da organizzazioni criminali, immigrati, profughi ecc. ecc.) e che subiscano un grave infortunio, temendo di perdere il lavoro e/o di essere scoperti, decidono di tacere. In caso di morte, per gli stessi motivi, i loro compagni o parenti compiono la stessa “scelta.” I dati reali sono quindi sicuramente più alti.
Secondo gli studiosi Adda e Farwaz: “Le cause di morte sono le più varie: aumento di suicidi, dei casi di cirrosi epatica e delle patologie respiratorie.”
Ritmi di lavoro sempre più frenetici, compressione dei diritti, scarse misure di sicurezza, frequente rischio e/o minaccia di licenziamento, salario spesso esiguo e che inoltre viene corrisposto con lentezza... tutti questi fattori determinano una situazione di intollerabile stress psicofisico.
Ancora: “Veneto, Lombardia e Piemonte sono le regioni più interessate al fenomeno.”
Ecco, questo è un dato davvero sorprendente: di solito pensiamo che il nord-est sia terra di benessere. A quanto pare, il benessere è prodotto sì dai lavoratori, ma va a beneficio di altri.
Addirittura: “Secondo altre fonti, il 'burnout' colpisce in Europa il 22% di chi ha un impiego.”
Quest'ultimo dato è ancora più sorprendente perché non si parla solo dei lavoratori del sud-Europa ma proprio di quelli dell'”Europa”: ci si riferisce quindi anche ai lavoratori tedeschi, inglesi ecc. ecc. Per es., di recente il personale della tedesca Lufthansa è stato impegnato in una dura vertenza coi vertici dell'azienda, proprio per condizioni di lavoro eccessivamente pesanti.
Ancora, agli stessi lavoratori dell'ospedale della Charitè di Berlino è toccato ricorrere allo strumento dello sciopero, così come hanno dovuto fare i loro colleghi di Parigi. 
Eppure (cito ancora dall'art. di Fabio): “I Paesi scandinavi ed i Paesi Bassi, dove i lavoratori godono di una maggior autonomia, registrano meno casi di stress lavorativo.”
A questa conclusione pervengono gli esperti dell'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) e della Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Eurofound).
Evidentemente, quando i lavoratori non sono trattati come bestie da soma ma come esseri sociali e razionali, allora possono e vivere e lavorare molto meglio. Il che implica il fatto che possano prendere decisioni autonome e direttive.
Quanto detto sinora dovrebbe portare a riconoscere la follia di un sistema economico-sociale che trasforma le persone in omini nevrotizzati come il personaggio rappresentato da Chaplin in Tempi moderni.
Né può servire il mito della “concorrenza”, della “competizione” ecc. ecc., o le ricette del “rigore” di cui cianciano sempre istituzioni come il Fmi, che a proposito per es. della Grecia ha ammesso d'aver sbagliato i calcoli, ma continua a proporre le famigerate ricette!
Non abbiamo bisogno di un mondo (non dico mercato sennò penso a quello del bestiame) del lavoro che ricorda le antiche società schiaviste... sia pure in salsa tecnologica.
Del resto, i costi sul piano sociale ed umano che questo modo di lavorare ci impone, sono determinati da una disciplina davvero rigida, diciamo pure di tipo militare. Come infatti scrisse Max Weber: “Non richiede una particolare dimostrazione il fatto che la 'disciplina militare' sia invece il modello ideale non soltanto della piantagione antica, ma anche della moderna impresa capitalistica.”2
Infatti, sia per Weber che per i seguaci di questo modello lavorativo (che spesso non posseggono la finezza di analisi del sociologo) ciò che conta è la “meccanizzazione” nel processo produttivo: una meccanizzazione che per Weber si presenta come “razionalizzazione.”
Ma forse dovremmo chiederci che cosa possa mai esserci di razionale in un sistema che adatta “l'apparato psicofisico degli uomini” allo “strumento” ed alla “macchina.”
Su un versante più morale che economico-sociale, ma comunque nobilissimo, già Thoreau aveva scritto nel 1848 che “la massa degli uomini” serve lo Stato: “Non come uomini coraggiosi ma come macchine.”3
Del resto Weber aggiunge che così l'apparato psicofisico umano: “Viene spogliato del suo ritmo” e dunque “riordinato completamente in corrispondenza delle condizioni di lavoro.”
Questo modo di lavorare può essere descritto in termini più semplici come sfruttamento ed alienazione. Inoltre, tutta questa insistenza su competizione, disciplina e meccanizzazione del lavoro non dovrebbe essere accettata come una sorta di destino o di dato naturale, come tale indiscutibile o addirittura giusto.
Almeno in teoria dovremmo essere usciti dallo schiavismo secoli fa. Ma come prova l'articolo di Fabio, certe uscite non sono mai definitive e necessitano sempre di vigilanza, controinformazione e volontà di cantare fuori dal coro.

Note

1 Richard Sennett, L'uomo flessibile (1999), Feltrinelli, Milano, 2001, p.9.
2 Max Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano, 1995, vol.4, p.268. I corsivi sono miei.
3 Henry David Thoreau, La disobbedienza civile, Corriere della Sera, Milano, 2010, p.19.
Qui scorgiamo una certa affinità con analisi che privilegiano il fatto economico-sociale, come quando leggiamo che: “L'operaio diventa un semplice accessorio della macchina”; cfr. Karl Marx Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista (1848), nella traduzione di Antonio Labriola, Tascabili economici Newton, Roma, 1994, 1, p.24.
Ancora: “Delle masse di operai addensate nelle fabbriche ricevono una organizzazione militare.” Essi: “Non sono soltanto gli schiavi della classe borghese e dello stato borghese, perché sono tutti i giorni e tutte l'ore gli schiavi della macchina, e del vigilatore, e soprattutto del singolo padrone della fabbrica”; K. Marx F. Engels, op. cit., pp.24-25. I corsivi sono miei.
4 M. Weber, op. cit., p.268.



lunedì 22 giugno 2015

La luce in ogni caso


Quando in un'ora imprecisata ed imprecisabile che sta a metà tra il giorno ed il tramonto, la luce del sole plana sul viso accigliato (ma anche perplesso) di alcuni palazzi, sento un po' di malinconia: si tratta di una sensazione che mi perseguita da sempre o quasi.
Ma a volte, il gioco della luce mi dà serenità e forse anche della gioia.
Gioia? Be', adesso non esageriamo!
Però, qualche grammo di gioia sì, me lo allunga.
In questo momento zio Bruce, Diavolo del New Jersey, canta I wanna be with you ed il sax di Grand'Uomo Clarence Clemons ricama note che sono una melodia rock-soul allegra e grintosa.
In quest'altro momento sento sirene della polizia o di qualche ambulanza: ci sono tanti modi per fare e per farsi male.
Ah... perché?!
E perché non possiamo essere tutti su una spiaggia con la persona o con le persone che amiamo (ma amare sé stessi, è quella l'impresa), perché non possiamo lasciarci cadere su qualche prato con una bottiglia di vino bianco ghiacciato mentre un gruppo strappa scintille da chitarre elettriche & clavicembali?
Perché non possiamo camminare in acque: pulite, non gelide né bollenti, camminare con l'acqua alla vita e non alla gola?
Perché non possiamo giocare ancora giù in strada infinite partite di calcio con la stessa fame calciofilo-idrofoba di quando avevamo 16 anni?
Eppure sarebbe facile richiamare con un guizzo del cuore e con un dribbling della memoria tutti gli amici, tutte le amiche che non ci sono più.
Sarebbe facile suonare il corno d'Olifante o (senza giudicare nessuno) le trombe del giudizio per svegliare chi dorme da troppo tempo . Non sarebbe come suonare il sax di Clarence, ma pazienza.
E mi piacerebbe riprendere a parlare fra noi come si faceva una volta, magari anche urlando, ma tenendo ben stretto un sogno comune: al quale correre e dissetarci quando il sole assassino dell'egoismo decide di seccarci ogni gola possibile.
Ho perso la libertà d'andare a suonare l'armonica al porto e su strade invase da erbacce: è solo quella la mia vecchiaia. E' solo quello l'errore che continuo a commettere. Ma l'ho voluto io, io ho voluto che gli anni mi piallassero via la lupesca gioia e la malinconica rabbia.
La luce del sole splende anche di notte, se sai mettere tutta la tua amarezza in in un vecchio cappello e lanciarla lontano, senza perderne neanche una goccia.
Sempre avanti, quindi!
Sempre avanti verso la luce: in ogni caso. Perché se ci riescono Dracula, Batman e qualche volta perfino io, può riuscirci chiunque.


lunedì 1 giugno 2015

“Oplà, noi viviamo!”, di Ernst Toller


Innanzitutto due parole sull'Autore.
Enst Toller nacque nel 1893 a Samotschin, in territorio allora prussiano; morì suicida a New York nel 1939. Una delle sue opere (probabilmente una delle più rappresentative del 1° dopoguerra), è Una giovinezza in Germania, del 1933.
Nella Giovinezza Toller mantenendo uno straordinario equilibrio tra l'autobiografia ed il romanzo, racconta una fase cruciale della storia tedesca: quella che va dalla I guerra mondiale all'avvento del nazismo.
Oplà, noi viviamo! è un testo teatrale, ma le vicende in esso raccontate affrontano anche un altro punto cruciale: Oplà narra infatti le vicende che seguirono al soffocamento della rivoluzione comunista bavarese e documenta altresì il tradimento da parte di alcuni rivoluzionari.
Toller scrisse Oplà nel 1927 e l'opera, validissima sul piano artistico, contiene anche molti riferimenti autobiografici. Uno su tutti: anche l'A., così come Karl Thomas (il suo alter-ego), fu condannato a morte ed in seguito la pena fu commutata in alcuni anni di manicomio.
La storia comincia in carcere, nel quale tra i tanti prigionieri sono rinchiusi Karl Thomas, Eva Berger (la sua donna) e Wilhelm Kilman. Benché condannati morte, la pena viene sospesa per tutti: alcuni dovranno rimanere in prigione, Karl finirà in manicomio.
La pena non viene sospesa solo a Kilman: in apparenza, perché in realtà lui è il solo che abbia presentato domanda di grazia alle autorità. Così, rinnegati gli antichi ideali, la sua azione politica si situa ormai tra la sinistra (davvero molto) moderata e la destra: diventando in pochi anni ministro.
Io considero i personaggi di Oplà più persone che personaggi: dato il realismo con cui sono resi da Toller, non sembra proprio che recitino una parte. Inoltre se l'A. scrive aderendo con la sua carne e con la sua anima all'oggetto di quel che trasformerà in commedia, dramma o tragedia, allora i personaggi salteranno fuori dalla pagina e/o dalla scena.
Ecco perché, a distanza di decenni o anche di parecchi secoli, i personaggi dei lavori di Ibsen, Brecht, Pirandello, Plauto, Sofocle, Euripide, Aristofane ecc. continuano a sembrarci non cartacei bensì umani.
Nel caso di Oplà questa umanità non si trova nel solo protagonista: oltre a Karl Thomas, sostengono (e con passione) posizioni forti anche Eva Berger ed il traditore Kilman.
Karl, dopo anni di ingiusta segregazione in manicomio, riacquista la libertà ed in modo solo apparentemente ostinato, riprende la sua vita da dove era stato costretto a lasciarla: dalla rivoluzione, progetto questo che vorrebbe rilanciare senza esitazioni o compromessi
Egli respinge i tentativi di quelli che vorrebbero farlo “ragionare”: mi riferisco ai suoi ex-compagni, che in sostanza lo accusano di avventurismo, ma mi riferisco anche a quelli come Kilman, per i quali la giustizia e l'uguaglianza arriveranno... ma con pazienza e lente, graduali riforme... calate comunque dall'alto.
Ed ormai per Kilman le parole d'ordine sono: potere “responsabile”, “armi morali”, “spirituali” ecc. Intanto egli provvede a far licenziare in tronco varie operaie: tra queste anche la sua ex-compagna Eva Berger.
A Karl che gli chiede: “Quelle donne non lottano per i tuoi antichi ideali?”, ribatte: “Posso tollerare che le operaie di una fabbrica qualsiasi danneggino la macchina statale?”
Ed ancora: “In una democrazia io devo tutelare i diritti dei datori di lavoro allo stesso modo dei diritti dei lavoratori.”
Karl: “Ma gli altri hanno stampa, denaro, armi. E i lavoratori? Un pugno di mosche.”
Ma per Kilman la replica di Karl è la solita sparata retorica e violenta.
Del resto, si chiede il solerte funzionario: “Ma cos'è la massa? E' mai stata capace di un lavoro positivo? (….). La massa è inetta e rimarrà inetta chissà per quanto altro tempo ancora (….). Più tardi... tra decenni... tra secoli... con l'educazione... con lo sviluppo... le cose cambieranno. Oggi dobbiamo governare.”
Karl rifiuta il danaro offertogli da Kliman e trovato lavoro come cameriere, resiste anche alle tentazioni della vendetta e del terrorismo: ma sarà ingiustamente accusato d'aver assassinato appunto Kilman.
Non è semplice neanche il rapporto con Eva, che è sì rimasta fedele alla causa, ma ormai non è più la 17enne che pendeva dalle labbra di Karl. E' un'operaia e delegata sindacale preparata e combattiva, inoltre a Karl che disgustato si chiede: “Per questo, lottare? Per rivedere poi i nostri ridotti a oscene caricature del passato?, e che la invita ad una fuga d'amore, lo richiama alla realtà ed alla lotta.
Del resto Eva rifiuta i legami tradizionali: “Un solo sguardo che io scambi con un estraneo in una via perduta, può legarmi a lui più profondamente di qualunque notte d'amore: che non deve essere se non un bellissimo gioco.”
Karl: “E che cosa prendi sul serio?”
“Queste cose prendo sul serio. Anche il gioco prendo sul serio... Sono una persona viva. Ho forse rinunciato al mondo, perché mi batto? L'idea che un rivoluzionario debba rinnegare le mille piccole gioie della vita è assurda.”
Ma allora, le chiede lui: “Che cosa rimane?”
Eva: “Noi. Con la nostra esigenza di sincerità. Con la nostra energia per rimetterci al lavoro.”
Ecco, Oplà meriterebbe non un post ma un libro... perciò mi fermo qui.
Del resto, la quasi mistica fede rivoluzionaria di Karl; la lucida fedeltà alla causa di Eva e la sua spregiudicatezza come donna; la “ragionevole” politica del rinnegato Kilman, incarnano dei tipi umani che a 88 anni dall'esordio di Oplà sulle scene, a me sembrano ancora attualissimi.