giovedì 25 aprile 2019
Fascismo e carattere nazionale
Quando si parla di fascismo,
bisogna analizzare non solo le cause economiche, sociali e politiche
che l'hanno condotto alla conquista del potere, ma anche quelle in
apparenza meno gravi. Così, io penso che se un regime tanto rozzo e
violento come quello fascista, che oltretutto si alleò con la
Germania nazista poté durare
20 anni, ciò possa spiegarsi anche col carattere e coi costumi della
maggior parte degli italiani (di entrambi i sessi). Beninteso, ci
riferiamo a quanto, sia nel carattere sia nei costumi, vi era di meno
nobile.
Intanto,
osserviamo che gli italiani e le italiane dei primi decenni del '900
non dimostravano particolare interesse né troppa sensibilità per
temi politici, morali, sociali e culturali: nemmeno per quelli più
importanti o addirittura drammatici.
Qualcuno (temo
a ragione) ritiene che questo disinteresse esista ancora e che
abbracci anche i valori che dovrebbero essere “condivisi”: mi
riferisco a quelli relativi alla democrazia, alla memoria storica ed
al senso civico. Purtroppo: “ Per la memoria storica e per questi
valori sembra che molte italiane e molti italiani non dimostrino
attaccamento o dedizione paragonabile alle energie dedicate al
lavoro, agli svaghi e al consumo.”1
Possiamo
quindi (il che è piuttosto inquietante) parlare di una continuità
nell'indifferenza e nel
disinteresse che lega le antiche alle moderne generazioni. Ma per non
allargare troppo il discorso, ora torneremo al punto da cui siamo
partiti.
Già
Gramsci denunciava: “L'apoliticità fondamentale del
popolo italiano (specialmente della piccola borghesia e dei piccoli
intellettuali) (…).”2
Ma
il grande intellettuale e dirigente comunista non fa di questa
“apoliticità fondamentale” una semplice astrazione filosofica o
una caratteristica qualsiasi, comunque intesa: egli ne analizza
invece le sue conseguenze,
che erano tutte molto pratiche.
Per Gramsci, infatti, quella apoliticità si presentava come:
“Irrequieta, riottosa, che permetteva ogni avventura, che dava ad
ogni avventuriero la possibilità di avere un seguito di qualche
decina di migliaia di uomini, specialmente se la polizia lasciava
fare o si opponeva solo debolmente e senza metodo.”3
Qui
l'A. si riferisce alla cosiddetta “impresa di Fiume”, che
comportò l'occupazione militare,
peraltro del tutto illegittima, della città jugoslava. Tale
“impresa” fu possibile perché dei soldati italiani avevano
disertato e costituito
una sorta di guardia pretoriana del poeta D'Annunzio. La cosa avvenne
ad appena un anno (12 settembre 1919) dalla tragica esperienza della
I guerra mondiale, mise l'Italia in forte imbarazzo di fronte a tutti
gli altri Paesi ed evidenziò l'inefficienza del nostro esercito e
del nostro governo nel bloccare immediatamente il D'Annunzio, oltre
che nel neutralizzare complicità e connivenze.4
Non a caso,
D'Annunzio fu uno dei fascisti della prima ora e : ”Pur tenuto a
distanza da Mussolini”, che forse ne temeva le doti di iniziativa
nonché il prestigio, “era osannato dal fascismo come uno dei suoi
precursori più illustri.”5
Comunque,
già Fiume illustrava alcuni dei tratti tipici del carattere italiano
del tempo: l'avventurismo e la ricerca della “gloria”; la
passione per le donne (non
si sa quanto corrisposta); il ricorso alla violenza
sull'inerme ed anche la sua
umiliazione, per es.
attraverso la somministrazione dell'olio di ricino; la diffusione di
una simbologia che dimostrava l'amore per la letteratura di cappa e
spada (i pugnali legati alla cintura, i teschi e le tibie incrociate)
ed inoltre una conoscenza della storia romana ridotta a pochi ed
approssimativi elementi (i labari, le aquile).6
Sul
piano più propriamente politico,
gli italiani d'allora avevano già fatto esperienza del trasformismo:
quel passare disinvoltamente da un partito all'altro, da una
coalizione all'altra... pratica che era stata legittimata dal
ministro Depretis già col discorso di Stradella del 1882.7 Appunto
il trasformismo permise a molti, che pure fino a poco tempo prima
erano stati fieri avversari del fascismo, di mettersi al suo
servizio. Il che non scandalizzava per niente la stragrande
maggioranza dell'opinione pubblica, a ciò da lungo tempo assuefatta.
Questi
cambi di casacca non nascevano però da laceranti crisi di tipo
esistenziale né da lunghe e ponderate analisi giuridiche e
politiche. Come leggiamo invece in Lussu, il problema era molto più
prosaico.
Appunto Lussu raccontava di un ex-ufficiale di complemento
in congedo. Ora: “Sorse improvvisamente una questione circa la
contabilità di una
cooperativa di cui egli era l'amministratore,
e fu dispensato dalla
carica. Egli si dimise dal partito e, pochi giorni dopo, s'inscrisse
alla sezione fascista. Incontrandomi per strada mi spiegò che aveva
bisogno di vivere e che i fascisti gli avevano promesso un pasto
decoroso.”8
Dal quadro che
cercato di dipingere, emerge un'Italia in cui i primi elementi
mancanti sono coerenza e serietà, però il tutto si ammantava di
retorica oppure si autogiustificava con l'evocazione della classica
pagnotta. Ma ciò non deve far pensare al fascismo come a qualcosa di
ridicolo. Esso, infatti, scatenava la violenza non appena poteva.
Per
es., quando nell'ottobre del 1922 nel centro minerario di Iglesias,
in Sardegna, i fascisti tennero uno dei loro “congressi”, prima
attaccarono (verbalmente) francesi e jugoslavi. Ma poiché il livello
verbale non soddisfaceva i seguaci di Mussolini: “Uno sfogo era
necessario. E poiché nella città non vi erano né jugoslavi né
francesi, i fascisti aggredirono gli operai socialisti.”9
Del resto, gli
italiani e le italiane del tempo subivano una sorta di fascinazione
per la retorica e per la figura dell'”oratore”, soprattutto per
quello che parlava “a braccio”: un tipo umano nel quale il lato
fisico e quello emotivo prevalgono quasi sempre su quello
logico-critico.10 E tutto questo spiega la fortuna di Mussolini, che
dal balcone di palazzo Venezia poteva pronunciare anche il discorso
più banale e prendersi le pause più teatrali, sicuro comunque che
tutto sarebbe stato accettato col massimo favore.
Inoltre,
l'italiano e l'italiana del tempo erano molto sensibili al mito della
virilità del
dittatore fascista: mito che anche quando avesse avuto un qualche
aggancio con la realtà, dimostrava comunque verso la figura della
donna solo odio o disprezzo.
Ecco infatti qual era l'atteggiamento
dell'uomo di fronte alle donne ed al sesso. Circa appunto le donne:
“Non si preoccupava della loro pulizia e spesso egli, invece di
lavarsi, si strofinava con acqua di colonia. Privo di qualsiasi
inibizione ed egocentrico all'estremo, egli poco si preoccupava della
comodità delle amanti o del loro piacere, spesso dando la preferenza
al pavimento invece che al letto e senza togliersi i calzoni, né le
scarpe. L'atto del tutto incontrollato si compiva solitamente in uno
o due minuti.”11
Tuttavia,
il ridurre il rapporto uomo-donna alla sola sfera genitale
era tipico della sottocultura fascista, che a sua volta attingeva
all'humus storico-culturale di quell'Italia.
Ecco perché l'alleato di Hitler poteva permettersi di dire (come
pare abbia fatto): “Le donne debbono tenere in ordine la casa,
vegliare i figli e portare le corna.”12
Probabilmente,
una battuta così volgare suscitava l'ilarità di molti italiani, il
che la dice lunga oltre che sul loro maschilismo, anche sul loro
senso dell'umorismo. Il discorso poi sull'umorismo ci conduce ad un
altro tema: quello di come quei nostri connazionali credessero che si
potesse scherzare su tutto ed anche disinteressarsi delle questioni
più importanti, senza provare scrupoli morali o esistenziali di
sorta.
Al
riguardo Gramsci osservava: “I cittadini italiani ignorano persino
che lo Stato esista: infatti non sanno come funziona, non sanno come
dovrebbe funzionare in ossequio alle leggi fondamentali (…) e,
dinanzi ad un atto dei poteri, non sanno dire se esso sia giusto o
ingiusto, se leda o no (...) i diritti acquisiti dei cittadini(...).
La libertà viene concepita in modo grottesco e puerile: non si
arriva a comprenderla come garanzia per tutti, impersonalmente
tutelata dalle leggi, che le autorità per prime debbono
essere tenute a rispettare (...).
L'Italia è la nazione carnevale, con una libertà, unica desiderata:
la libertà di divertirsi.”13
Evidentemente,
uomini e donne di questo tipo non avevano alcuna volontà né
capacità di opporsi al regime fascista e forse, se l'Italia non
fosse entrata in guerra al fianco della Germania e del Giappone, quel
regime sarebbe sopravvissuto a lungo: come accadde a quello di Franco
in Spagna, che finì solo con la sua morte, nel 1975.
Si
capisce così quanto avesse ragione Gramsci, quando scriveva che
nella Storia, l'indifferenza di
tanti crei dei “nodi” che poi “solo la spada può tagliare.”14
E tutte le tragiche vicende della II guerra mondiale, come già prima
(dal 1936 al 1939) durante la guerra civile spagnola, provano la
verità di questa affermazione.
Del
resto, la ferocia del regime fascista, che esordì con gli attacchi
armati alle cooperative (rosse e bianche), i pestaggi, gli omicidi,
le devastazioni, le umiliazioni, gli stupri e che continuò con la
marcia su Roma, la soppressione del parlamento, il sostegno militare
al golpista Francisco Franco, le leggi razziali, il confino e
l'assassinio degli avversari politici, l'invasione e le atrocità
compiute dalle sue truppe in Africa orientale e dulcis in
fundo, la guerra combattuta a
fianco dei nazisti tedeschi e dei militaristi giapponesi, ebbene,
tutto questo poteva finire solo con una reazione armata e violenta
del nostro popolo. Senza la Resistenza non avremmo avuto neanche
l'ombra di una democrazia (sebbene imperfetta) come la nostra.
Certo,
il problema del carattere nazionale rimane.
Nel 1867 un personaggio di un romanzo di Garibaldi raccontava che il
popolino (allora chiamato popolaccio)
assisteva alle condanne a morte come se si trovasse in un teatrino di
terz'ordine. Leggiamo infatti: “Questo popolaccio mi nausea, esso
ama ridere di tutto.”15
E
questa tendenza cinica o sadica al
riso, ha libero sfogo sotto regimi che coltivino l'indifferenza alle
questioni sociali e politiche come perfetto puntello per il loro
potere. Infatti: “Non parlate di politica, non ci pensate! pagate e
spogliatevi di buona grazia per grassamente mantenere i vostri
scorticatori. Poi di giuochi, di divertimenti, di prostituzioni ve ne
lasceremo a dovizia.”16
In
questo eterno carnevale, in cui i sensi sono di continuo stuzzicati e
storditi, perché mai bisognerebbe o come si potrebbe
pensare ad altro? Ed ancor prima
che denunciasse questa situazione Garibaldi, nel 1824 Leopardi
sviluppò un'analisi molto simile, quando scrisse: “Le classi
superiori d'Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari delle
altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de'
popolacci.”17
Leopardi
rilevava poi come questo cinismo conducesse ad un riso privo di
rispetto per chiunque e per qualsiasi cosa; il che portava alla
derisione più feroce
e sfrenata. Per la maggior parte degli italiani e delle italiane del
tempo, fatto salvo un ossequio puramente formale per
l'autorità (spesso la più ingiusta e crudele), non esistevano
valori morali, sociali e culturali. Del resto, in Italia non esisteva
neanche una società con un suo centro e che si fondasse su
un'effettiva legalità.18
In buona
parte, questa era ancora la situazione italiana fino al 1922, anno
della marcia su Roma. Ed in questo clima morale, sociale e culturale,
il fascismo fu sostenuto da patronato, monarchia, esercito ed alti
vertici della Chiesa.
D'altronde,
qui tornano ancora buone le parole del Poeta, che (anticipando
secondo me lo psicologo del '9oo Le Bon) scriveva che l'uomo: “Prova
un certo piacere, un senso di riposo, un'opinione o una confusa
immaginazione di sicurezza, ricorrendo all'autorità, assidendosi
all'ombra sua, e pigliandola come per ischermo delle determinazioni
sì del suo intelletto che della sua volontà, nella tanta
incertitudine delle cose e della vita.”19
Sembra proprio
di sentir parlare il Le Bon che nella sua analisi sulla psicologia
delle folle sosteneva che esse erano dominate da una “sete di
sottomissione.” Peraltro, questo concetto sarà ricordato dallo
stesso Freud.20
Conclusioni
Con quanto
detto sinora ho cercato di dimostrare come il fascismo, che
evidentemente servì alle classi dirigenti del tempo per mantenere il
loro potere, ed opporsi a qualsiasi protesta e rivendicazione dei
lavoratori, poté far questo anche grazie al sostegno appunto di
quelle classi, ma anche grazie al fatto di incontrare sulla sua
strada persone che perlopiù non avevano coscienza dei loro diritti.
Delle persone
abituate a considerarsi dei re e delle regine in famiglia o tra gli
amici, ma ben felici di essere trattati in società come dei sudditi.
Ovviamente,
tutto ciò dipendeva da secolari condizioni di arretratezza sociale e
culturale, nonché da condizioni non meno brevi di abbrutimento
morale. Il fascismo non fece niente per combattere tale stato di
cose; se possibile, lo aggravò.
Ma io credo
che già il brutale assassinio (1924) del deputato socialista
Matteotti iniziò ad illuminare le coscienze di molti. Altrimenti non
si spiegherebbe come mai tanti uomini e donne abbiano salvato non
pochi antifascisti, ebrei, abbiano dato rifugio a partigiani, soldati
Alleati ed in parecchi casi si siano uniti/e alla Resistenza...
quando sapevano bene che rischiavano la morte, la tortura o entrambe.
Insomma, la
Storia non è mai scritta una volta per tutte: il regime fascista,
con quello nazista e quello giapponese, sembrava invincibile. Ma fu
distrutto. Inoltre, non è dato una volta per tutte neanche il
carattere nazionale di un popolo, che come nel caso del nostro, nei
momenti decisivi ha saputo felicemente contraddirsi.
Eppure, certe
tendenze vanno ricordate e denunciate: soprattutto oggi, quando da
più parti arrivano pericolosi segnali di amnesie storiche ed
addirittura risorgono (non solo in Italia) partiti e movimenti che
riecheggiano pericolose parole d'ordine.
Note
1
Marco Palla, Mussolini e il fascismo,
Giunti, Firenze 1996, p.152.
2
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere,
a c. di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p.1201.
3
A. Gramsci, Quaderni del carcere,
op. cit., p.1201.
4
Per un quadro almeno generale del problema cfr. Rosario Villari,
Storia contemporanea,
Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 414 e 469. Cfr. anche Emilio Lussu,
Marcia su Roma e dintorni (1945),
Società Editrice l'Unione Sarda, Cagliari 2003, pp.23-24.
5
M. Palla, Mussolini e il fascismo,
op. cit., p.66.
6
L'impresa di Fiume, 16
marzo 2014, in www.ilpost.it
7
Trasformismo: un patto contro i transfughi,
in www.corriere.it, 22 luglio
2017. Per una trattazione più estesa cfr. R. Villari, Storia
contemporanea , op. cit.,
pp.292-294.
8
E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni,
op. cit., p.50. Il “partito” cui si fa riferimento è il Partito
Sardo d'Azione.
9 E. Lussu,
op. cit., p.59.
10
Questo aspetto è stato affrontato da qualche parte dal Gramsci dei
Quaderni.
11
Robert Katz, Morte a Roma (1967),
Editori Riuniti, Roma, 1996, p.61.
12
La donna durante il fascismo,
in Anpi-Lissone.over-blog-com
Il corsivo è mio.
13
Antonio Gramsci, Sotto la Mole (1916-1920),
Einaudi, Torino 1960. Lo scritto è del 1918.
14
Antonio Gramsci, Indifferenti,
in A. Gramsci, Le opere. Antologia,
a cura di Roberto Santucci, Editori Riuniti/L'Unità, Roma 2007,
p.23.
15
Giuseppe Garibaldi, Clelia:
il governo dei preti, a cura di
Riccardo Uccheddu, Davide Zedda Editore, Cagliari 2008, p.76.
16
G. Garibaldi, Clelia:
il governo dei preti, op. cit.,
p.233.
17
Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei
costumi degl'italiani, cura di
Maurizio Moncagatta, Feltrinelli, Milano 1991, p.58.
18
G. Leopardi, Discorso,
op. cit., p.49 e sgg.
19 G.
Leopardi, op. cit., p.55 n.9.
20
Cfr. rispettivamente Gustave Le Bon, Psicologia delle folle
(1895) e Sigmund Freud,
Psicologia delle masse e analisi dell'Io
(1921), Tascabili economici Newton, Roma 1995, p.73.
domenica 7 aprile 2019
Dama Natura
Benchè
il XII sec. non sia stato per la maggior parte delle persone
un’epoca… vivibilissima, comunque durante tale epoca il
rinnovamento culturale conobbe grandi momenti.
Per
esempio, in vari punti della Philosophia mundi (“Filosofia
del mondo”) Guglielmo di Conches attaccava quanti
criticavano l’uso della ragione e della ricerca di cause naturali
nell’investigare appunto sulla natura. Costoro consideravano
con sospetto anche le indagini di tipo più scientifico, quelle cioè
che non richiedevano particolari giustificazioni di tipo religioso o
teologico.
Con
una certa amarezza, Guglielmo scrive che se tali persone sanno che
qualcuno investiga basandosi solo sulla propria ragione, haereticum
clamant, lo proclamano eretico. E’ evidente che così la
ricerca rischia di rimanere bloccata per generazioni… con
ripercussioni piuttosto negative anche sul piano della fede.
Del
resto proprio il libro della Genesi insegnava che il mondo,
l’uomo e la sua stessa ragione erano stati creati da Dio.
Dunque in tutto ciò esisteva una certa bellezza e razionalità.
Era
perciò arduo capire quale male o colpa vi fosse nell’investigare
su realtà così positive, la cui positività era “garantita” dal
loro Creatore.
Dirà
perciò Guglielmo: “Ignorando le forze della natura, vogliono che
rimaniamo impaniati nella loro ignoranza, ci negano il diritto alla
ricerca e ci condannano a rimanere come zotici in una fede senza
intelligenza” (M.D. Chenu, La teologia nel XII secolo, Jaca
Book, Milano, 1999, pp.30-31).
Osservo
che Guglielmo respinge l’idea di una fede cieca così come faceva
non solo il suo contemporaneo Abelardo, ma come nell’XI secolo
faceva già Anselmo d’Aosta che diceva: “Credo ut intelligam”,
capisco per poter credere.
Del resto, Anselmo aggiungeva: “E’
negligenza non cercare di intendere ciò che si crede, dopo che ci si
è confermati nella fede” (cfr. Proslogion, 1; Cur
Deus homo, I,2).1
Livello
strettamente filosofico a parte, il problema dell’indagine
razionale sulla natura prendeva anche accenti di commossa poesia se
Alano di Lilla, nel De planctu Naturae (“Il
lamento della natura”) chiamava appunto la natura
genitrixque rerum e regula mundi, genitrice delle cose
e regola del mondo.
Ottimo
quindi Chenu quando dichiara: “Diciamo allora Natura, con la
maiuscola, perché eccola personificata, come una dea” (M.D.
Chenu, op. cit., p.35. Il corsivo è mio).
Nota
1)
Il termine Proslogion significa “colloquio.” Cur Deus Homo
significa invece “Perchè un Dio Uomo, con riferimento evidente
a Gesù Cristo.
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