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giovedì 28 febbraio 2008

2° reato… letterario


Sabato 1 marzo alle 18.30, nella “Sala Diamante” dell’ex-vetreria di Pirri-Ca(gliari) presenterò il mio 2/o libro.
Di questo sono molto contento e ciò non è scontato: è senz’altro possibile che altri “artisti” di fronte alla loro 2/a volta ostentino sovrana indifferenza.
Ma una cosa è non farsi trascinare dall’entusiasmo come se si fosse dei pericolosi esaltati; un’altra, dimostrarsi del tutto indifferenti all’occasione di presentare una propria e nuova creazione. Quella è una cosa che non capirò mai.
Infatti, per quanto riguarda me, so che rimarrò sempre una specie di vecchio-bambino, eternamente grato e stupito del fatto che possa succedermi qualcosa di bello.
Già molti anni fa, quando presi in mano la penna per la 1/a volta, capii subito che non serviva per arrotolare gli spaghetti: in effetti, sono sempre stato un tipo geniale.
Poi capii che la penna deve comunicare i nostri sogni & i nostri incubi. Ma tutto ciò può avvenire se non dai niente per scontato: né la scrittura né eventuali pubblicazioni.
Spero che tutti quelli che lo desiderano possano intervenire alla presentazione del mio romanzo Lune a scoppio.
Ho infatti avuto modo di vedere che non solo amici, parenti e familiari ma anche altri hanno apprezzato il mio 1° libro Dante avrebbe lasciato perdere, perciò perché non concedere il bis… certo, a gentile richiesta?
Naturalmente, la mia riconoscenza va anche a chi mi ha conosciuto “via blog.” Per questo, quintali anzi tonnellate di grazie a LF, tecnico superstar nonché paziente ascoltatore di paranoie, non solo informatiche.
Altro, direi galattico ringraziamento a Davide Zedda, editore eroe… poiché non teme di pubblicare le mie “cose.”
Quanto a Silvana, Andrea e Sara, la mia pazza e meravigliosa famiglia, che dire? 10mila “grazie” non rimedieranno al nervosismo ululante che ho inflitto loro mentre lavoravo al libro.
Bè, sarei lietissimo se partecipaste a questa nuova presentazione anche voi… che mi avete seguito sul blog e che considero ormai nuovi amici.
Ed ora basta così o mi commuovo come 1 relitto del 1236.
Attaccate i cavi alle chitarre!
Riempite d’inchiostro i calamai!
Presto, perché presto si andrà in scena

invito

martedì 26 febbraio 2008

Pianeta condominio

Ho letto con molto piacere Cose da condominio (La Riflessione, Cagliari, 2006) di Carmen Salis. Si tratta d’1 libro di racconti (8) che con pochi tocchi di pennello dipinge in modo davvero efficace lo strano microcosmo condominiale.
Tale microcosmo, a ben vedere, non è poi tanto micro (piccolo) bensì macro (grande): racchiude molti dei nostri tics e delle nostre manie. Da certi nomi, espressioni e disvalori si capisce che questi racconti sono ambientati a Cagliari, o comunque in Sardegna.
Tuttavia, sono storie tipiche forse d’ogni provincia di questo mondo: quella “sana” provincia che secondo alcuni sarebbe un’oasi di pace, tranquillità e virtù assortite, ma che cova i suoi rancori, le sue gelosie, un certo arrivismo, non poco cinismo, vari “discreti” adulteri ed una buona dose di violenza.
Comunque, Carmen non rimarca troppo questi aspetti; li racconta con ironia e soprattutto senza moralismi.
Questo non le impedisce di condannare certo cinismo che nasce in famiglia: come nel caso de Il sette di ogni mese, laddove si racconta del dolore di una figlia per la morte della madre… che osa morire proprio nel giorno in cui la madre deve ritirare la pensione!
Sempre su questo versante, ne Il pranzo assistiamo all’ipocrisia di tipici parenti-serpenti, che corrono al pranzo natalizio dalla mamma-nonna-suocera con la speranza “che sganci.” Ma oltre al pranzo, la vecchia signora offrirà anche una “bella” sorpresa.
Dal libro di Carmen emerge il quadro di una provincia da nobel, almeno per quanto riguarda la simulazione degli affetti, le acrobazie (spesso illecite) per estorcere danaro, favorire carriere, nascondere o provocare lo sfascio di certi matrimoni…
Comunque, questo piccolo inferno è dipinto da Carmen non solo con ironia e senza moralismi, ma facendo inoltre ricorso ad un linguaggio in apparenza scarno, in realtà essenziale. Infatti, appunto il linguaggio è padroneggiato con sicurezza, senza indulgere a virtuosismi verbali di cui l’Autrice è certo capace, ma che nell’economia di questi racconti sarebbe risultato pesante.
In effetti, che cosa si dice, anche per quanto riguarda per es. il blues? Sono pochi accordi, + o meno gli stessi. Vero: ma l’abilità consiste nel saper disporre quegli accordi in modo originale.
Altrettanto dicasi per chi scrive dei racconti: che anche meno di un romanzo, “luogo” in cui si può sempre recuperare, possono avere dei momenti di stanca: pena la noia.
Per nostra fortuna, i racconti di Cose da condominio sono made in Carmen.

sabato 23 febbraio 2008

Nasce “Guglielmo”, una nuova rivista



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Gennaio-febbraio 2008: circa 300 punti vendita, intesi come edicole, da Cagliari al Sulcis sono toccati non dalla grazia, ma quasi. Infatti, dal periodo in questione Guglielmo. Il miglior amico del libro comincia la sua scodinzolante circolazione.
Ma perché la rivista si chiama così? Dopo 1 veloce sondaggio- interrogatorio, alla casa editrice La Riflessione mi è stato detto che Guglielmo è il cane dell’editore Davide Zedda, il solo editore bluesman da Cagliari a New Orleans.
Nel presentare (a p.2 del n°0) la rivista, il direttore Severino Sirigu definisce Guglielmo “il miglior amico di chi ama la lettura.”
Io penso che il suo nome sia 1 omaggio a Guglielmo Speranza, il protagonista della commedia Gli esami non finiscono mai del grande De Filippo.
Che cosa si propone la rivista? “Soltanto” questo: avvicinare le persone alla lettura, far capire quanti ponti possa far attraversare… facendo così marameo a tutte le Barbie ed a tutti i Rambo che ci danno tanto sui nervi. Ma si tratta appunto di una proposta: che come tale rifugge da prediche o lezioni.
Inoltre, alcuni del Guglielmo li conosco, anzi li considero degli amici. Altri non li conosco, ma vedo che anche la loro penna contiene stile e sincerità, non solo inchiostro.
L’unico su cui stenderei un velo pietoso è 1 certo Riccardo Uccheddu, che poi sarei io: infatti la p.3 del n°0 è infestata da 1 estratto del mio romanzo Lune a scoppio. Che dire? Ci vuol sempre, una mela marcia!
Comunque, ora la caccia alle buone letture ed anche a qualche sana provocazione è aperta. Fidatevi: Guglielmo ha fiuto.



guglielmo-pag3

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martedì 19 febbraio 2008

Noticine sul romanzo (parte prima)

Mi piacciono i romanzi che raccontano una storia. Purtroppo, certi romanzi sono dei saggi camuffati o comunque delle esibizioni di erudizione da parte dell’Autore. Tipico, come ho già detto commentando I dodici abati di Challant della Mancinelli, il caso del Nome della rosa di Eco.
Certo, uno può scrivere come vuole ed ottenere grandi risultati anche col saggio in maschera; del resto io ho letto il Nome almeno 4 volte ed ognuna con rinnovato entusiasmo. Ma questo è dipeso dal mio “amore” storico-filosofico per il Medioevo. Sul piano narrativo (sebbene il Nome abbia anche 1 impianto “giallistico”) l’opera di Eco non mi ha entusiasmato.
Come sarà nata la letteratura? Io immagino qualcuno, uomo o donna che in epoca preistorica mentre la tribù si scalda attorno al fuoco, racconta qualcosa. Lui o lei comincia a parlare di “quella volta” che si fece dare “1 passaggio da un dinosauro.”
E tutti: “Ma che dici? I dinosauri sono estinti da milioni di anni! Poi, anche se ce ne fosse ancora uno, vivo, t’avrebbe sbranato. Infine, potranno dare dei passaggi soltanto le automobili.”
Il povero narratore o la narratrice (comunque povera): “Dovevo capirlo subito che eravate degli assistenti universitari.”
“Ah, sei sempre il solito polemico.”
“Che cosa c’entra la polemica? Il fatto è che stavo raccontando d’1 Tyrannosaurus rex…”
“Non puoi dire “T. Rex”? Non puoi abbreviare?”
“Starete scherzando! Tyrannosaurus rex ha 1 bel suono… perché siete così fissati con abbreviazioni, sigle, numeretti ecc.? A che cosa servono?”
“A risparmiare del tempo.”
“Ma siamo preistorici! Abbiamo tutto il tempo che vogliamo! Sentite, magari non mi crederete, ma ieri sera 1 pterodattilo mi ha confidato che stava pensando d’inventare la clessidra, poi ha pensato che riesce a misurare il tempo con le ali. Così ha deciso di lasciar stare. Ma secondo il fantasma di Jean Marc, voi lo conoscete, no, il mammuth canterino…”
A questo punto avrete capito che per me, la letteratura tende ad identificarsi con quello che certi considerano “delirio.”
Tuttavia, sottolineo il “tende.”

venerdì 15 febbraio 2008

Corsa, mon amour

Ho sempre corso ma per motivi pratici, da qualche anno corro soprattutto in estate: in spiaggia e non sul bagnasciuga ma dove la sabbia è + “alta”, direi massacrante. Perciò era da 1 po’ che non correvo in inverno.
Ora, dietro casa mia è aperta anzi spalancata campagna e dal balcone del salotto può sembrare che il terreno della stessa sia pianeggiante. Non è così. Comunque, qualche giorno fa ho raggiunto il terreno in questione.
Ho visto un sentierino (quasi una mulattiera) che saliva lento lento. Ci metteva 40-50 metri, a diventare una vera salita. Inizio a correre: andatura media. Il sentierino era ricoperto da 1 misto di terriccio e che cosa, sabbia? Boh!
Intanto salivo verso 1 colle dai cagliaritani dedicato a S. Michele. La salita si faceva + ripida, inoltre era “erbacciosa.” C’erano anche delle simpatiche spine, così ogni tanto dovevo correre a zig-zag oppure saltare. Tutto allenamento in più, per carità: niente da dire. Magari, mi sembrava d’essere 1 evaso della Cajenna…
Dopo circa 200 metri non si poteva andare oltre: una cancellata in ferro blocca l’accesso al parco del colle. Proprio all’altezza della cancellata il terreno sembrava molle, quasi fangoso, come se non avesse ancora assorbito le piogge degli ultimi giorni.
Ovviamente, la discesa è stata meno faticosa. Inoltre, decisi d’abbandonare zig-zag e salti; spine ed erbacce non sono chiodi o pallottole. Mentre correvo pensavo: la corsa mi piace. Io non corro solo o non tanto per tenermi in forma. Anche quando giocavo a calcio con gli amici, andavo agli allenamenti volentieri. Proprio un tipo strano.
Quando corro cerco di mantenere 1 certo equilibrio tra respiro, passo e concentrazione, in modo che quell’equilibrio diventi una fusione, un atto o fatto unico. Non mi porto mai appresso walkman o simili: la mia mente (chiamiamola così) deve trasmettere la musica che amo. Perciò quella fusione deve abbracciare respiro, passo, concentrazione ed appunto mente.
Di ritorno dalla discesa ne ho trovato un’altra, che va giù per una quarantina di metri e che si congiunge ad una strada asfaltata. Ora, dovendo tornare a mulattiera e colle, bisognava percorrere la discesa in senso inverso, che così diventava una graziosa salita. Faticosetta, ma ormai le gambe andavano… benché doloranti.
A quanto pare, le corse sulla sabbia fatte quest’estate sono servite a qualcosa. Strano, ma stavolta non ho sentito nessun dolore alla milza; in ogni caso, anche quando la benedetta si fa sentire io continuo a correre, poi smette.
Dopo circa 35 minuti cominciavo a sentirmi stanco: del resto il terreno non era una pista d’atletica, inoltre non correvo da mesi. Ma ho continuato a macinare salite & discese per altri 10 minuti ed ho concluso senza grossi problemi.
Infine, ieri sera ho timbrato il cartellino atletico per la 2/a volta. Osanna!

mercoledì 13 febbraio 2008

Gli Abati di Laura Mancinelli (parte seconda)

Inoltre, nel romanzo non mancano i guizzi umoristici: ecco il gatto di una maga-esorcista, invidioso di un suo “collega” e che la marchesa definisce con termine psicoanalitico ante litteram, complessato. Infine, si discute su che cosa siano realmente male e peccato, rifiutando la tesi rigorista e colpevolizzante sostenuta dalla Chiesa, che identificava entrambi col sesso e comunque con scelte esistenziali improntate a joie de vivre.
Il Medioevo della Mancinelli intreccia i tradizionali loci geografico-culturali dell’epoca (castelli, nebbie, trovatori, banchetti, eretici, amori, terrore dell’Inferno ecc.) a riflessioni “amedievali”: si pensi almeno a certi pensieri di Enrico da Morazzone. Ma come diceva lo stesso Eco, in ogni periodo può essere esistito qualcuno che forse ha anticipato i successivi.
Il sottoscritto si limita più modestamente ad aggiungere che un romanzo è un gioco (anche complesso) condotto dall’Autore con le sue passioni, i suoi sogni e talvolta il tutto finisce per confondersi con le proprie manie.
Del resto non è semplice confrontarsi, sia pure attraverso la mediazione dell’arte, con un’epoca che come quella medievale, durò mille anni. Spesso anche pochi decenni di un solo secolo (nel dir questo io penso soprattutto ad uno senz’altro centrale come il XII) si prestano ad interpretazioni molto varie e contraddittorie.
Lo stesso medium artistico, poi, finisce per diventare un problema nel problema. Infatti, l’arte non può per definizione rispecchiare fedelmente la realtà; del resto non è suo compito. Possiamo certo rifiutare la tesi platonica dell’arte come mimesis cioè come imitazione dell’imitazione, possiamo dunque contestare il Platone per il quale l’arte è riproduzione di una realtà (quella materiale) che a sua volta è copia della realtà ideale: la sola che considera autentica. Eppure rimane vero che di volta in volta l’arte trasfigura, amplifica, riduce, distorce il reale. Ma penso che proprio in tutto ciò consistano la sua bellezza ed il suo fascino.
Perciò, nella fattispecie non importa che il presupposto da cui parte I dodici abati di Challant cioè che il duca di Mantova, signore del castello abbia ricevuto il feudo dei Challant con la clausola che avrebbe dovuto vivere sempre in castità e sorvegliato da quegli abati, potesse confliggere con le leggi della Chiesa.
Infatti, se è vero che difficilmente tanti superiori di monasteri o abbazie avrebbero potuto abbandonare le loro responsabilità pastorali ed organizzative per il suddetto scopo, è altrettanto vero che se la Mancinelli avesse rispettato il lato giuridico-canonico del problema, non avrebbe mai scritto il romanzo. O ne avrebbe scritto uno molto meno interessante, o comunque prevedibile.
Ma così avremmo avuto un’occasione in più… di noia; il che non è esattamente il fine di un romanzo, sia pure storico.
Un bel “brava!”, quindi, alla Mancinelli che attraverso lo specchio dell’arte ha saputo trasmetterci l’immagine di un Medioevo davvero stimolante. Del resto, nella Poetica lo stesso Aristotele trovava la poesia più “filosofica e più elevata della storia.” Secondo lui, la poesia esprime “l’universale”, la storia solo il “particolare.”

sabato 9 febbraio 2008

Riccardo Uccheddu colpisce (scrive) ancora





Il 1° marzo uscirà il mio 2° libro.
Ora che cosa succederà? In mio onore l’inquisizione riaccenderà i roghi ed i manicomi riapriranno gioiosi i cancelli? Del resto, non credo che Fbi, agenzia investigativa Pinkerton, Cia e Scotland Yard staranno a guardare.
In attesa di questi dubbi onori, vi informo del fatto che l’opera sarà 1 romanzo e si intitolerà Lune a scoppio. Il titolo unisce la notte, simboleggiata dalla luna, alle uscite in macchina, a loro volta simboleggiate dai motori a scoppio.
Il protagonista, il mio alter-ego si chiama Giacomo Porcheddu: nome, questo, chiaramente tedesco-americano. Ci troviamo in prevalenza a Cagliari, benché siano frequenti i salti di spazio e di tempo. Seguiremo le vicende, davvero molto alterne di un ragazzo che dai 20 anni si sposta verso i 24.
Giaco, come si fa chiamare, non sopporta cose come dovere, convenzioni, logica, finti sorrisi ecc.
Trova la realtà “noiosa” perciò vorrebbe crearne una tutta sua.
Beve ma solo con chi gli piace: altrimenti è ferocemente astemio. Scrive col proposito di trasformare il romanzo, da “semplice” cronaca di fatti, sentimenti e progetti in una sorta di astronave.
In tutto questo si fa aiutare dalla musica, che gli dà una mano a scacciare certi “dèmoni” o “mostri” che gli “ringhiano sotto la pelle.” Infine il linguaggio, che ho cercato di rendere il + possibile vario, esplosivo, appunto scoppiettante.
Naturalmente, a chi avrà la cortesia di intervenire alla presentazione del romanzo andrà la mia benedicente gratitudine.
Appunto della presentazione fornirò a tempo debito adeguate “coordinate spaziotemporali” o, come direi io mettendo per il momento la museruola a Giaco, ora e luogo precisi.



La nota di copertina a cura dell'editore Davide Zedda:

“Un romanzo è un’astronave d’abeti e ricordi, una nave di baci, lotte e carezze che man mano si stacca da quel porto falsamente sicuro che chiami ragione, un romanzo è un viandante che fugge a gambe levate da quella taverna (malfamata) che è la logica.”
Giacomo canta in un gruppo rock-blues, gli interessano le ragazze, la birra, la musica, il calcio e la poesia.
Ha bisogno di musica, la sola in grado di elevare, staccare e liberare dai legami, quella che colpisce nel segno e placa i mostri che ringhiano sotto la pelle. Scrive per liberarsi e vede il proprio io frantumarsi e ricomporsi senza mai lasciarsi afferrare.
E beve… perché gli va.
Paranoico a tal punto che la calma lo spaventa, vive come un equilibrista in bilico sul lato pericolante della sua vita riuscendo sempre a trovare il modo per non schiantarsi rovinosamente al suolo.
Spesso perde il filo, a volte lo ritrova, a volte no… ma questo non importa.
Esplora e analizza i misteri che urlano, sibilano e sghignazzano nel buio della sua vita in cui fantasmi, incubi e dolori hanno messo radici difficili da estirpare, dà la caccia alla sua fetta di Paradiso che forse si intravede, non ancora nitida, all’orizzonte.

Riccardo Uccheddu è nato a Cagliari nel 1962. Ha già pubblicato “Dante avrebbe lasciato perdere” (2006), ha curato per Davide Zedda Editore i volumi “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci e “Clelia” e “Poema Autobiografico” di Giuseppe Garibaldi.

venerdì 8 febbraio 2008

Tom Traubert’s blues di Tom Waits ed altro

Mi è sempre piaciuto ascoltare Tom Waits. Il Tom che apprezzo non è però quello sperimentale, jazzy, fusion ecc.: non quello, per es. (se ricordo bene quei dischi) di Swordfishtrombones o di Rain dogs.
Benché Waits si sia dimostrato grande anche in Sword ed in Rain dogs, preferisco le sue ballate & blues al piano… magari con un bel sax in sottofondo, o con una tromba che ricami struggenti melodie.
Di Waits amo anche pezzi strumentali come Closing time, che mi piace ascoltare al tramonto.
Tra le ballate ed i blues del vecchio Tom, la mia entusiastica riconoscenza va a Ol’ 55, Cold, cold ground, Martha, Rosie, Foreign affair, On the nickel, Ruby’s arms, (Looking for) the heart of Saturday night, San Diego serenade e naturalmente, a Tom Traubert’s blues. Waits ha costruito questi pezzi badando ad una certa essenzialità: poche note, solo quelle che servono per accompagnare una storia… però spesso molto contraddittoria e complessa. Waits canta quei brani con voce come al solito raschiante e funestata dal tabacco e dall’alcol, ma il cantato non è esibito.
Waits canta il suo dolore e quando vuole sa anche urlarlo: ma mai in modo falso o sguaiato. Le note del piano e della chitarra, come per es. in I hope that I don’t fall in love with you accompagnano il brano in modo armonico e giusto. Attraverso le sue ballate ed i suoi blues, Waits canta gli amori finiti (quasi sempre male), le sbronze, le risse, i vagabondaggi, la solitudine e fa questo con una certa misura: con dignità, è questa la parola giusta.
In Tom Traubert’s blues il protagonista va per la città col chiodo fisso di portare a ballare una certa Matilda.
Archi e violini, ma non mielosi, contrappuntano il cantato mentre Waits evoca soldati, cani, taxi, cinesi vagabondi, banditi monchi, spogliarelliste ed implora qualcuno di pugnalarlo(!). I violini sono un’eco che si perde tra le note del piano e la canzone è pervasa da un senso di sconfitta, i versi che Waits canta sono amari. Ma è una sconfitta di cui si prende atto, a cui non ci si arrende; la differenza è notevole.
Il protagonista dichiara di non voler “comprensione” e che secondo certi “fuggiaschi” le strade non sono più fatte per “sognare”; ma lui non riceve: vuole ancora portare a ballare la sua Matilda.
Tipetta tosta, poi, la Maty: in effetti, ha già ucciso un centinaio di uomini…
Alla fine il buon Tom raggiunge con una valigia sfasciata un hotel qualsiasi, la sua camicia è sporca di sangue e di whisky. Sarà l’alba o quasi quando darà la buonanotte ai pochi che si trovano ancora per strada… ed anche a Matilda.
Il piano, la voce ed i violini sfumano in un lamento blues e forse ora Tom potrà riposare. Forse.

martedì 5 febbraio 2008

Io, i Rolling Stones e Lawrence M. Krauss

Qualche giorno fa… naturalmente si dice sempre così, poi magari sono passati 47 anni. Ok, ricominciamo. Mesi fa sono entrato in possesso del libro di Lawrence M. Krauss Dietro lo specchio. Non parla di Alice nel paese delle meraviglie ma in 1 certo senso mi ha meravigliato di +. Perché? Ve lo dirò dopo. Escludo, inoltre, che il buon Krauss sia parente del viennese Karl Kraus, il creatore di fulminanti aforismi (e non solo di quelli). Non dirò che la lettura del suo libro mi abbia divertito e stimolato più di quella delle opere del Viennese: questa sarebbe, come si dice nei quartieri popolari di Cagliari, “una notevole baggianata.” Tuttavia sto gradendo il testo in questione.
Riepilogo: non è 1 romanzo fantastico-visionario e non ha niente a che fare con la satira. Non è 1 trattato di ottica, né un rèportage a carattere scandalistico sugli oculisti. Secondo me è un libro di fisica teorica che però, per non spaventarvi definirei di filosofia della scienza. Vi dirò dopo di che cosa parli: ora sto ascoltando You can’t always get what you want dei Rolling Stones: perciò, appunto non puoi avere sempre quello che vuoi. Pazienta quindi, o caro lettore; la ricompensa non tarderà.
Ora, il testo di Krauss inizia con 1 introduzione al piano e dopo una veloce rullata di batteria… ah, oggi ho proprio voglia di scherzare. Siamo seri, please. L’opera di Krauss comincia con una reminiscenza, termine questo che egli desume da Platone (non a caso citato spesso ne Dietro lo specchio). L’anamnesis, pardon, la reminiscenza di Krauss consiste in questo: al’età di 8 anni vide un episodio de Ai confini della realtà, in cui dei genitori si accorgono della scomparsa della loro bambina. Così chiamano 1 certo Bill che: “Dopotutto è un fisico!” Bill scopre una porta spazio-temporale, ripesca la baby e vissero tutti felici e contenti.
Ovviamente, il piccolo Krauss fu sconvolto dall’eventualità che 1 bambino potesse essere separato dai genitori. Oltre 30 anni dopo rivede il fatidico episodio, di cui però aveva dimenticato la battuta sul fisico e ricorda che avrebbe voluto diventare proprio quello; un “fisico-supereroe!” Bè, Krauss diventò davvero 1 fisico. Il nostro futuro può dipendere dalla visione d’1 episodio di Ai confini della realtà? Chissà. Forse.
Io, da piccolo, quando i miei amici puntavano alla carriera di pompiere, astronauta o cowboy, sognavo quella di storico; ma non ho mai visto puntate di Ai confini che avessero come protagonista 1 storico-supereroe. Poi mi sono laureato in filosofia, ora scrivo romanzi e racconti, sono una specie di insegnante di italiano e storia, scrivo saggi storico-letterari (non mi conosce quasi ness1, ma questo è 1 altro discorso) ed il tutto ha un legame, sebbene remoto, col lavoro di uno storico. In fondo mi piaceva giocare a cowboys, astronauti ecc. ma sognavo 1 lavoro poco avventuroso; ora che ho quel lavoro, scrivo storie deliranti. Come se non bastasse, vorrei essere Indiana Jones oppure il capitano Jack Sparrow.
Tutti i miei amici hanno lavori seri e pensano che fidarsi della fantasia sia da stupidotti; sono stati cowboys troppo presto: bisogna giocare soprattutto da grandi; è quello il segreto!
Il libro di Krauss, dite? Ve ne parlerò un’altra volta.
You can’t always get what you want.

venerdì 1 febbraio 2008

I riti degli artisti

Qualche anno fa con alcune persone che si occupavano di teatro, cinema e scrittura si parlava dei riti che ognuno di noi celebrava prima di accingersi al suo lavoro. Ricordo che trovai il termine “riti” eccessivo; pensai: ma non ci staremo dando troppe arie?
Ma in fondo, chi usava quel termine intendeva riferirsi semplicemente a ciò che faceva prima di scrivere qualcosa, recarsi alle prove, andare in scena ecc.
In quella discussione, che pure mi interessava molto ed a cui avrei potuto portare il mio (seppur modesto) contributo, non intervenni molto. Preferii ascoltare e credo che le orecchie di quelle persone, dai miei discorsi solitamente martoriate, mi stiano ancora ringraziando.
Spesso (quando scrivo) cedo la parola ai miei personaggi, lascio che il mio alter-ego si riposi un po’; così mi piace seguirli nei loro vagabondaggi, amori, dolori ecc. Certo, in quell’altro caso sapevo che si trattava di persone, non di personaggi.
Comunque, ognuno di loro aveva qualche “rito” che non ricordo nei dettagli ma che si caratterizzava per complessità, forse anche per stranezza.
Contare in latino i passi dall’ascensore alla 2/a macchia di vernice poco sotto la maniglia dello stesso. I lunedì sera, al 4° squillo di cellulare mordersi (sorridendo) l’indice della mano destra. Tenere 1 francobollo del 1937 nel taschino di una camicia fucsia… che si macchiò di caffè il 2 marzo del ‘97, alle 02.59.
Va bene, un po’ scherzo. Comunque i miei “riti” sono sempre stati semplici, forse rozzi, per non dire neanderthaliani.
Io “creo” al tavolo di cucina, che dev’essere pulito e libero.
Devo sentire molto chiasso o molto silenzio.
Ascolto (dipende dal mio momento) rock o musica classica, folk irlandese o reggae, blues o country & western. Ben accette anche certe cose di Branduardi, De Andrè e Ligabue. Quando scrivo qualcosa di saggistico, vai col gregoriano!
Scrivo sempre a penna, quasi sempre nera; se la penna è blu, il suo blu dev’essere scurissimo.
Mi piace scrivere nei bar. L’importante è che siano se non diroccati, almeno fatiscenti. Mi compiaccio di creare anche sul bus e mi rammarico grandemente con me stesso per non farlo più, ormai da troppo tempo, al porto.
Ora non allungo più il mio inchiostro con un bicchiere di vino; mi limito ad una tazzina di caffè… ma forte da svegliare i morti.