I commenti sono ovviamente graditi. Per leggerli cliccate sul titolo dell'articolo(post) di vostro interesse. Per scrivere(postare,pubblicare) un commento relativo all'articolo cliccate sulla voce commenti in calce al medesimo. Per un messaggio generico o un saluto al volo firmate il libro degli ospiti (guest book) dove sarete benvenuti. Buona lettura



domenica 27 novembre 2011

La discussione filosofica (parte quinta)1


Ma la visione per così dire di “satanismo umano” o di superomismo, che da parte di chi la rifiuti o la contesti può essere considerata come blasfema, irrazionale o ridicola, è però sostenuta in Dedalus da una sorta di ammirazione per il non serviam di Lucifero.
Nel corso di una predica sull’Inferno (torniamo sempre lì!) tenuta dal gesuita padre Arnall,2 circa il peccato appunto di Lucifero si dice: “Quale fu il suo peccato, non siamo in grado di dirlo. I teologi ritengono che sia stato il peccato d’orgoglio, il pensiero peccaminoso concepito in un istante: non serviam, non voglio servire.”3
Per Dedalus-Joyce il non serviam è un’affermazione o una dichiarazione di libertà o meglio, di auto-liberazione.
Esso vien fatto valere contro qualsiasi legame con altri esseri umani, che è concepito come falso, ipocrita, opprimente, come qualcosa che mutila la sensibilità dell’artista e sfigura il senso e la bellezza della sua opera.
Tuttavia, ad un livello meno astratto o comunque più drammatico, alcuni punti di certe opere di Joyce rivelano il suo dolore o il suo senso di colpa per non aver voluto pregare per la madre morente, benché ribadisca comunque il non serviam.4
E nel dramma Exiles Bertha, la moglie di una altro suo alter-ego (lo scrittore Richard Rowan) lo chiama womankiller, uccisore di donne.5
Eppure Joyce si sposò, ebbe dei figli ed il rapporto con la moglie fu per lui sempre molto importante (benché forse esso fosse limitato al solo lato erotico-passionale). Egli frequentava altri letterati, da essi era stimato ed incoraggiato, addirittura ne scoprì qualcuno: pensiamo al nostro Svevo.
Inoltre, pare che anche nei confronti dei suoi antichi maestri gesuiti abbia mantenuto rapporti tutto sommato amichevoli.
Insomma, perfino Joyce aveva una certa difficoltà o felice incoerenza nel sostenere o vivere fino in fondo determinate convinzioni.
Tuttavia è evidente che con uomini come Schopenhauer, Poe, Joyce e comunque coi solipsisti una vera discussione filosofica è impossibile: persone come quelle o pensano che tu non esista, o che (anche se esisti) tu sia un… gigantesco somaro!
Del resto, lo stesso Joyce non riusciva a far capire la sua opera alla moglie ed anzi, talvolta lei assunse sia verso di lui che appunto verso le sue creazioni atteggiamenti provocatori, quando non apertamente  provocatori.
Se partiamo da un dato che mi pare la critica considera ormai da tempo acclarato cioè la forte dimensione autobiografica degli scritti joyciani, ebbene allora dobbiamo riservare a certi passi di alcune opere del grande irlandese qualcosa di più che un interesse puramente estetico.
Per esempio in Exiles Bertha esclama: “Felice! Ma se non capisco niente di quello che scrive e non posso aiutarlo in nessun modo! A volte non capisco neanche la metà di ciò che mi dice!”6
Circa gli atteggiamenti provocatori o offensivi di sua moglie Nora ricordiamo che non appena uscì il primo dei capolavori del marito cioè l’Ulisse, Joyce gliene fece dono e lei subito (sotto l’apparenza dello scherzo) chiese ad un amico se fosse disposto a comprarglielo. Ciò provocò in Joyce vivo imbarazzo, imbarazzo che cercò di nascondere sotto uno stentato sorriso.

Note

1) Le precedenti parti di questo post sono comparse su questo blog rispettivamente: la 1/a il 25 marzo 2008, la 2/a il 4 aprile 2008, la 3/a il 17 giugno 2010, la 4/a l’11 ottobre 2011.
2) In realtà pare che Joyce abbia riportato una predica che fu pronunciata nel ‘600 da un gesuita italiano.
3) James Joyce, Dedalus, Mondadori, Milano, 1986, pp.152-153.
4) Cfr. Introduzione a Ulysses, in J. Joyce, Ulisse: Telemachia. Episodi I-III, a c. di Giorgio Melchiori, Mondadori, Milano, 1983, p.XXV; J. Joyce, Ulisse, Mondadori, Milano, 1985, pp.769-773. Per il riferimento al peccato d’orgoglio di Lucifero cfr. Ibid., p.772.
5) Il biografo di Joyce Richard Ellman osserva come l’epiteto in questione fosse stato usato già prima dalla moglie Nora Barnacle, quindi nella realtà; cfr. Masolino D’Amico, Introduzione a Exiles, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1985, p.XX.
6) J. Joyce, Exiles, op. cit., p.203.

sabato 5 novembre 2011

Un punto di vista forse inedito su Bukowski


Quando si parla di Bukowski, istintivamente molti pensano a lui come ad uno scrittore che scriveva solo d’alcol e di sesso.
Ora, i suoi temi erano in prevalenza quelli, ma secondo me rientravano in una dimensione più ampia: quella del suo dolore, che in un artista assumono una rilevanza (data la natura piuttosto passionale di quel tipo umano) davvero particolare.
In tutte le sue opere Bukowski ha sempre manifestato un fastidio quasi fisico per il noioso, insopportabile “giochetto di iniziati che si dicono paroline fra loro”1: il giochetto cioè di chi scrive cose magari anche molto curate sul piano stilistico, ma che spesso è solo una sorta di codice tra e per eruditi.
Qualcosa insomma di molto lontano dalla vita reale e dalla sofferenza di cui essa è piena. Lui invece dichiara: “Nessuno è mai venuto fuori a dire: “Cristo, (sic) sto male da crepare.”2
Quindi Bacco e Venere, di cui egli parla in parecchi libri (ma non in tutti) non sono da intendersi come una celebrazione vitalistica, divertimento folle ecc. ma al contrario come la denuncia di un profondo disagio esistenziale.
Infatti, raramente nelle opere di Bukowski troviamo autentica gioia o soddisfazione…. perché: “Esser vivi era già una vittoria.”3 Insomma, spesso quella vita è pura, semplice sopravvivenza.
Comunque rimando chi voglia approfondire la dimensione culturale del Nostro, più complessa di quanto non sembri, alla “mappa” fornita da David Stephen Calonne.4
Ora, non intendo certo beatificare Bukowski, che avrebbe trovato la cosa insopportabile.
Tuttavia ricordo che come dice in modo abbastanza plausibile l’editore neozelandese Trevor Reeves, in Bukowski si trovava un “elemento religioso.”5 Religioso non nel senso dell’appartenenza ad una religione ma in senso più ampio, filosofico ed insieme pratico cioè come pratica di virtù morali di “compassione ed onestà.”6
Del resto, Christy ricorda un episodio in cui il protagonista (l’alter-ego di B. Henry Chinaski) di un suo romanzo entra in un bar, una banda di motociclisti in probabile stile Hell’s Angels lo riconosce e benché in modo piuttosto grossolano gli tributa una sorta di acclamazione.
Bene, Bukowski scrive che gli: “Venne voglia di prenderli fra le braccia, di consolarli e di abbracciarli come un qualche Dostoevskij, ma sapevo che non avrebbe portato a niente, salvo al ridicolo e all’umiliazione, per me e per loro. Chissà come, il mondo si era allontanato troppo e mai più sarebbe stato così facile essere spontaneamente gentili. Era una cosa per cui avremmo dovuto sgobbare di nuovo tutti quanti.”7
Al riguardo, Christy osserva (certo esagerando) che: “Bukowski è più importante di Hemingway”; ma certo Christy ha ragione di dire che: “Hemingway, sconfitto dalla fama, col suo mito della virilità, non avrebbe avuto il fegato di scrivere una cose del genere.”8
Sul piano morale ed indirettamente anche su quello letterario, se cioè non vogliamo considerare la letteratura solo come uno sterile esercizio di stile ma come un fenomeno più complesso, Bukowski fu davvero più coraggioso di Hemingway.
Egli infatti scrisse: “La tragedia è la situazione americana nella quale bisogna essere sempre vincenti. Nessuna alternativa è accettabile. E quando il vincitore cade non salva nulla.”9
Ecco perché, come nel caso di Ernest Hemingway, che secondo B. viveva “considerando la vittoria come unica possibilità”10 si può arrivare anche al suicidio. Perché chi punti solo alla vittoria non può accettare la vita per quello che è…e finisce per stroncarla, per stroncarsi.
Ma come dice il Nostro: “No, Ernest si sbagliava: l’Uomo è fatto per la sconfitta. L’Uomo può essere distrutto e sconfitto. Finché l’Uomo si accontenterà del piolo più alto e non prevederà di precipitare, l’Uomo sarà sconfitto, distrutto e sconfitto e sconfitto e distrutto. Solo quando l’Uomo imparerà a salvare ciò che potrà allora sarà sconfitto meno e distrutto meno.”11
Il sentirsi vicino agli sconfitti portò l’ormai ricco e famoso Bukowski a favorire attivamente la riscoperta di John Fante, lo scrittore italoamericano A. del grande Chiedi alla polvere, che Bukowski omaggia come maestro ed a cui con grande generosità confessò d’aver “preso in prestito” un po’ di stile.12
Nella poesia I giovani il Nostro li osserva correre in moto “a manetta lacerando la notte di rumore.”13 Sì, e nonostante l’apparente sicurezza se non arroganza, la vita dei giovani non gli sembra poi così piena di… vita.
Sono solo bande di ragazzi che si incontrano o forse si scontrano, ma il divertimento e la spensieratezza sono lontanissimi.
Penso che qui B. riprenda quanto aveva già detto in Hollywood ( si trattava anche lì di motociclisti): “Di nuovo notai i loro giacconi di pelle e la vacuità dei loro volti e la sensazione che in nessuno di loro c’era molta gioia o molta audacia.”14 La vacuità, ciò quindi che riguarda il vuoto, un vuoto quotidiano ed interiore che resiste a qualsiasi atteggiamento da “duri”, sembra caratterizzare anche i giovani.
Ma Bukowski non indossa i panni del moralista o del predicatore: capisce anzi la loro sensazione di solitudine, noia ed impotenza se dice:
mi vien voglia
di andar lì e dire: “dai, troviamo qualcosa da fare...”15
Ma è consapevole di come la mancanza di conoscenza e di coraggio sua e dei giovani vanificherebbe questo slancio. Così aggiunge:
Anch’io ho sbattuto il mio entusiasmo contro un muro,
lo prendevo a pugni fino a sanguinare e continuavo a
picchiare, ma il mondo restava com’era,
spiacevole, mostruoso, letale.”16
Quindi essere vecchi o giovani non conta: il mondo è intrinsecamente sbagliato, sorta di macchina del nulla che inghiotte o svuota tutti, negandoci qualsiasi gioia, ogni giustizia e fantasia. E certo non aiuta la mancanza di entusiasmo, quel qualcosa cioè che potrebbe aiutarci a reagire, a riempire il nulla di qualcosa che valga…
Ognuno di noi può ricordare quando da giovane non avesse granché da fare, tranne (soprattutto noi maschi) dare l’anima in partite di calcio e sassaiole. Come scordare quello starsene inerti, seduti su uno scalino ad aspettare chissà che cosa… magari infilzato dai sorrisetti di quelli che si sentivano superiori perché non si entusiasmavano mai davvero né si facevano uno straccio di domanda
Un po’ come la situazione cantata da Neil Young in Trashers, quando parla dei suoi amici (Ugo Polli http://totanisognanti.blogspot.com/2011/07/thrasher-di-neil-young.htmlhttp://totanisognanti.blogspot.com/2011/07/thrasher-di-neil-young.html ipotizza che egli alluda a Crosby, Stills e Nash) che
sui marciapiedi
e nelle stazioni
aspettavano, aspettavano
ma non c’era niente che cercassero o di cui avessero realmente bisogno.
Ora, i giovani di cui parla Bukowski sono “fottuti, castrati, spogliati senza speranza.”17 Ma:
Il passaggio della fiaccola nei secoli,
e adesso ce l’hanno in mano loro.”18
Eppure c’è sempre quel: “dai, troviamo qualcosa da fare .” Insomma, forse la partita della vita non è chiusa.
I poeti e gli scrittori possono solo scrivere con tutto il loro cuore e con tutta la loro intelligenza, sperando che versi, racconti, poesie, romanzi e saggi siano raccolti da chi arriva dopo di loro… anche in sella ad una moto, perché no?
L’importante è che sia raccolto il senso della loro arte senza che si badi troppo agli elementi più “spettacolari” come l’alcol ed il sesso.
E certo, chi non è moralista capisce che gli esseri umani necessitano anche di Bacco e Venere ma alla fine, forse il solo modo di mettere nel sacco la Morte è come dice Bukowski proprio l’arte, soprattutto quella della parola perché:
il lampo abbagliante della
parola
batte la vita in vita,
e la morte arriva troppo tardi
per vincere davvero
contro
di te.”19

Note

1) Fernanda Pivano, Introduzione a Charles Bukowski, Quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle, Sugarco, Milano, 1982, p.53.
2) F. Pivano, Introduzione, op. cit., p.53.
3) C. Bukowski, Donne, Sugarco, Milano, 1980, p.150.
4) D.S. Calonne, Introduzione a C. Bukowski, Azzeccare i cavalli vincenti, Feltrinelli, Milano, 2008, pp. 7-19. Utili anche le osservazioni della Pivano, che ricorda l’ammirazione di Bukowski per il Decamerone di Boccaccio ed il suo interesse per “la musica classica e le letture raffinate”; cfr. F. Pivano, Introduzione, op. cit., pp. 19 e 44.
5) Jim Christy, La sconcia vita di Charles Bukowski, Feltrinelli, Milano, 1998, p.47.
6) J. Christy, La sconcia vita di Charles Bukowski, op. cit., p.47.
7) C. Bukowski, Hollywood, Hollywood, Feltrinelli, Milano, 1992, p.44.
8) J. Christy, op. cit., pp.89.
9) C. Bukowski, Azzeccare i cavalli vincenti, op. cit., p.74.
10) C. Bukowski, Azzeccare, op. cit., 74.
11) C. Bukowski, Azzeccare, op. cit., p.74. I corsivi sono dell’A.
12) C. Bukowski, Azzeccare, op. cit., p.233. Nel racconto Incontro il maestro, contenuto nel cit. Azzeccare egli ricorda il suo incontro con Fante (nel racconto Bante) ormai con le gambe amputate causa diabete, prossimo alla morte ed abbandonato da tutti. Per i debiti stilistici contratti da B. verso Fante cfr. almeno F. Pivano, op. cit., p.40 e C. Bukowski, Prefazione a J. Fante, Chiedi alla polvere, Sugarco, Milano,1983, pp.7-10. Fante è nominato anche in C. Bukowski, Donne, op. cit., p.208.
13) C. Bukowski, The young, in Id., Il grande. Poesie II, Feltrinelli, Milano, 2002, p.33.
14) C. Bukowski, Hollywood, Hollywood, op. cit., p.44. Corsivo dell’A.
15) C. Bukowski, The young, op. cit., p.33.
16) C. Bukowski, op. cit., p.33.
17) Ibid., p.33.
18) Ibid., p.35.
19) C. Bukowski, Puntare sulla musa, in Id., Le ragazze che seguivamo, Guanda, Parma, 1996, p.83.