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martedì 24 aprile 2012

“Le luci del ‘45”, di Antonia Arslan



Si tratta di un racconto di A. Arslan, docente, saggista e scrittrice padovana d’origine armena. Le luci possiede, nonostante l’epoca storica in cui si colloca e gli avvenimenti di cui si occupa, una grazia particolare.
E’ come se l’Autrice avesse ceduto la parola alla bambina che era in quegli anni: con tutta l’ingenuità ma anche la tristezza che appunto una bambina poteva provare in un’Italia straziata dalla barbarie nazifascista e dalle distruzioni della guerra.
Ma si tratta di un insieme di emozioni, ricordi e sensazioni non certo infantili, direi invece piuttosto maturi e consapevoli.
La vicenda si dipana dal febbraio del ’45 nella zona di Dolo (a metà strada tra Venezia e Padova) ed il 25 aprile, quando la famiglia Arslan ritorna appunto a Padova.
Oltre alla piccola Antonia, secondo me spicca la figura di nonno Yerwant, il patriarca della famiglia: nobile figura di medico che gira la campagna in calesse e cura le persone per poche uova… che accetta a malincuore.
Egli è amareggiato dagli orrori della guerra e ricorda il genocidio del suo popolo, che decenni prima vide trucidate dai turchi oltre un milione di persone.
Antonia dice con straordinario candore: “Avevamo degli stretti golf a quadretti, fatti di lana ricuperata di tutti i colori, e le guance rosse dal freddo.”1
In effetti, ancora molto tempo dopo la fine della guerra molte famiglie italiane (boom o non boom) dovettero fare parecchi sacrifici: sul vestiario (e non solo) quando per es. i fratelli o le sorelle più grandi passavano ai più piccoli i loro vecchi maglioni, o giacche, scarpe ecc.…
L’ingenuità dei piccoli Arslan fa chiamare un aereo Alleato Pippo, comunque essi sono adorabilmente lontani dai moralismi dei “grandi”. Infatti di Teresa, “la bambinaia che amava molto i soldati”, perché come diceva: “Sono così bisognosi di affetto, poverini, e io li consolo”2, non pensano niente di male.
Inoltre, nessuno si scandalizza per le prostitute che all’alba sono ospitate per un pasto ed un po’ di fuoco nella cucina della casa. Anzi, l’A. le presenta quasi come delle figure da sogno, con parrucche, trucchi fantasiosi “e un bisbigliare di vocette squillanti, come di uccellini.”3
E spesso una di loro, Noemi, libera dagli abiti che doveva indossare per la sua attività, “si annodava in testa un fazzoletto a scacchi” e con un grembiulone lavorava in casa Arslan. La piccola Antonia dice: “E io la seguivo dappertutto, persa in ammirazione.”4
In questo rispetto, direi anzi in questo affetto trovo un’eco, sia pure inconsapevole dell’atteggiamento assunto da Cristo verso la Maddalena.
Ne Le luci troviamo anche personaggi particolari, dei veri originali, figure stralunate di tipo quasi felliniano come per esempio “Bugno Luigia”, per la quale (a circa 200 anni dalla fine della potenza e dai fasti di Venezia) “la Repubblica Serenissima esisteva ancora.”5
Nel racconto troviamo anche dell’altro, che può risultare buffo ed anche tenero: per es., l’A. ricorda che “con la seta bianca del paracadute” di Bob, un parà inglese, le avevano fatto “il vestito per la prima comunione.”6
Ma Le luci testimoniano anche la reale e rischiosissima solidarietà dimostrata dagli Arslan e dai loro vicini per Bob, che non denunciano né consegnano ai nazifascisti ma che anzi nascondono nel granaio.
La stessa Noemi, che in un’Italia straziata da fame, bombardamenti, deportazioni, rastrellamenti, torture, saccheggi e stupri vende il suo corpo per sopravvivere, perse in precedenza due gemelli sotto un bombardamento ed ha il marito disperso in Russia.7
E la presenza, costante e mista a terrore della morte è un elemento in apparenza nascosto di questo testo… ma sempre ricorrente.
Così come la presenza della fame, che compare quando l’A. ricorda che c’era chi finiva per mangiarsi i topi.8
Eppure, gli Arslan nascondono e salvano (oltre a Bob) anche alcuni armeni.
Le luci prova come la Resistenza al nazifascismo sia stata fenomeno non solo militare (benché sacrosanto) ma qualcosa che ha inoltre goduto del sostegno e dei valori di tanta parte del nostro popolo… che amava la giustizia, la pace, il lavoro e dimostrava la solidarietà in modo concreto: spesso rischiando la vita ed altrettanto spesso, perdendola.
Del resto, molte zone strappate ai nazifascisti vedevano sorgere varie iniziative oltre che politiche anche a carattere sociale, scolastico, artistico, di partecipazione dal basso alla gestione del territorio: quel che talvolta conduceva al recupero d’usi e costumi direi di tipo comunitario.9
Torniamo ora alla piccola Antonia. Il 21 aprile annuncia per il 30 (giorno del suo compleanno) la fine della guerra; le crede solo nonno Yerwant: egli allude al dono della profezia, che al suo Paese natale si ritiene appartenga spesso si bambini.10
Antonia sbagliò di poco perché il 25 avverrà la Liberazione e poi, curioso(!), la credenza del nonno è molto vicina ad una simile ebraica.11
Ed il 25 aprile del ’45, come sappiamo, il nostro Paese fu finalmente liberato dal nazifascismo ed in tutte le case si accesero le luci; non solo quelle elettriche. 
  


 Note

1)   A. Arslan, Le luci del ’45, Corriere della sera, Inediti d’Autore,  pp.11-12.
2)    A. Arslan, Le luci del ’45, op. cit., p.24.
3)    A. Arslan, op. cit., p.37.
4)    Ibid., p.38.
5)    Ibid., p.34.
6)    Ibid., p.32.
7)    Ibid., p.38.
8)    Ibid., p. 35.
9)  Roberto Battaglia Giuseppe Garritano, Breve storia della Resistenza italiana, Editori Riuniti, Roma, 1997, pp. 171-183 e pp. 225-226.
10)  A. Arslan, op. cit., pp. 39-40.
11) Cfr. Elio Toaff, Perfidi giudei, fratelli maggiori, Mondadori “Oscar”, Milano, 1990, p.109 e Dr. A. Cohen, Il Talmud (1935), Laterza, Bari, 1989, p.162. L’espressione, davvero odiosa “perfidi giudei”, era contenuta nella liturgia del sabato santo; cfr. E. Toaff, Perfidi giudei, fratelli maggiori, op. cit., p. 219.
    Lo stesso termine “giudeo”, anche quando non sia preceduta da “perfido”, contiene fortissime connotazioni antisemite. Come ricorda Toaff, si deve a Giovanni XXIII l’abolizione di questa sconcertante preghiera; cfr. E. Toaff, op. cit., p. 219.     

sabato 7 aprile 2012

Buona Pasqua!


Lo so, mancavo dal blog… e non da pochi minuti!
Ma un giorno qualcuno (eventualmente, me stesso) dovrà spiegarmi perché mai scriva tanti post che poi, per un motivo o per l’altro non ho:
il tempo;
o
la voglia di pubblicare.
Incapacità nel gestire il mio tempo?
Sovrabbondanza di idee?
Idee sovrabbondanti ma magari scarsucce dal punto di vista qualitativo?
Sfiducia in me stesso?
Paura dei venditori di uova pasquali?
Ecco, questa è un’eventualità che non avevo ancora considerato.
O che almeno non avevo ancora considerato fino a quest’ora… che mi convenga allora entrare nel racket dei dolciumi?
Perché scartare un’eventualità come questa?
Certo, preferirei entrare nel racket dei salumi, dei vini e delle birre, ma quando ormai si va per i 50, non è il caso di far tanto gli schizzinosi, no?
Be’, scherzi a parte auguro a tutte/i voi una Pasqua serena e piena di gioia… una parola, questa, che forse non prendiamo molto in considerazione.
Per non parlare del viverla!
I tempi… mi pare che diventino sempre più duri…
E non certo per colpa di tutta la povera gente che lotta ogni giorno per portare a casa un pezzo di pane e che invece, spesso a casa porta solo ansia, amarezza ed il terrore di perdere il suo lavoro.
Ed i suoi diritti… molte volte, c’è chi non riesce neanche a portare sé stesso a casa… vivo.
Speriamo che la resurrezione tocchi anche chi una crisi economico-sociale come questa, sicuramente la più devastante degli ultimi decenni, non ha di certo contribuito a crearla ma la sta solo subendo. Ogni giorno di più.
Buona Pasqua, comunque… e tante cose buone.
Soprattutto buone!