Ma avevo 1 volumetto di racconti di Boll e mentre aspettavo il miracoloso pulmo all’angolo tra via Roma e la Rinascente, o in via Roma col porto ed i suoi dannati venti alle spalle, leggevo e leggevo. Alla luce dei lampioni e dei fari delle macchine. E se scrutavo gli alberi, una leggera foschia e “tagliavo” mare e dialetto cagliaritano, mi sembrava d’essere a Berlino. Poi, che cosa c’entrava Berlino? Boll era di Colonia (tedesco Koln). Vabbè.
Mi colpì molto il racconto L’immortale Teodora, in cui si parla d’1 giovane poeta, Bodo Bengelmann. Bodo diventa celebre dopo aver spedito 300 poesie a 300 diverse redazioni, trascurando d’allegare l’affrancatura per la risposta. Per il suo amico questa è un’”audacia che resta unica in tutta la storia della letteratura.” Certo, nel racconto si dà per scontato che quelle poesie siano straordinarie. Una delle ultime frasi del poeta è: “La gloria è soltanto una questione di affrancatura.” E muore. Muore letteralmente dal ridere.
Vorrei osservare, almeno en passant come in Boll il riso sia particolare. Nel racconto La mia faccia triste egli ci parla di una società in cui, pena la galera, si deve ostentare una faccia felice, ma in certi periodi uno sia finito dentro per faccia allegra. In un altro racconto troviamo un uomo che ride per lavoro, ma che nella vita privata è invece serissimo ed in fondo non ride mai.
Per l’amico, Bodo era un “mangione, come molti malinconici”; inoltre scriveva le sue poesie migliori a stomaco pieno. Indubbiamente, queste riflessioni sottrarranno un po’ di fascino e di magia alla figura dell’artista. Ma in modo altrettanto non dubbio io dico che 1 artista morto di fame, di fame muore. E se l’artista muore, poi che cosa crea? Mica gli conviene. Comunque, quando questo erede di Goethe scriveva, suo padre era solito interrogarsi in questo, problematico modo: “Dov’è quel porco?”
Bodo scrisse per Teodora (che si chiamava Kate) i “Canti per Teodora”: circa 200 liriche che fornirono carta, inchiostro, forse anche qualche cattedra universitaria a torme di critici che invano cercarono di scoprire chi fosse Teodora. La bella del poeta, il cui nome in greco significa dono degli dei, lavorava come commessa in una cartoleria: ma questo non toglieva nulla alla sua grazia. Era bionda, farfugliava la esse (appunto come una dea), probabilmente grande lavoratrice e la sera tornava a casa in tram, a bordo del quale leggeva libri economici. Lui non ebbe mai il coraggio di rivolgerle la parola ed una volta morto, lei si mise con un meccanico.
Che l’arte, la fama e l’amore siano davvero così casuali? Difficile capirlo, in questa città fenicia.
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