sabato 24 dicembre 2016
Le mie palle di Natale
Una delle prime immagini che ho
del Natale è, in effetti, una situazione: bambino, nella mia camera
ed al buio, passo un dito sul vetro appannato... stupendomi del fatto
che si potesse scrivere anche
così.
Secondo me
quella situazione rispecchia molte bene quella strana, meravigliosa
ed in certo senso anche logorante esperienza della scrittura, che
come diceva egregiamente Artaud, può anche essere una malattia. Ma
una malattia (aggiungo io) da cui chi scrive spera proprio di non
guarire mai!
Tuttavia,
secondo me la scrittura equivale proprio a tracciare segni e figure
su un vetro appannato: in poco tempo, i nostri dialoghi, le nostre
metafore, immagini etc. etc. possono dissolversi o scomparire. Così,
come volte, capita anche alla vita.
Tutto
sommato, del Natale non mi dispiace neanche l'aspetto forse meno
importante: i pranzi, le cene, i regali, la musica e così via.
Certo,
per chi è solo e/o malato, c'è poco da festeggiare... E diciamo la
verità, a loro pensiamo poco perfino a Natale.
Inoltre,
questa che dovrebbe essere una grande festa religiosa e popolare, è
stata trasformata in un rito consumistico.
Quanto
all'essere “tutti più buoni” proprio in questa occasione...
lasciamo perdere! Bisognerebbe esserlo sempre, mi pare.
Ma
non voglio salire sul piedistallo di una bontà che peraltro, non
posseggo.
Allora
dico: il Natale può darci la possibilità di essere almeno
un po' meno ottusi, indifferenti
e cattivi. E sia chiaro, questo vale anche per me.
Nello
stesso tempo, non voglio cadere nell'altro errore: quello cioè di
fare, su questa festività, del sarcasmo: magari per sembrare un
tipo realistico, “moderno” o addirittura, cinico.
Questo
anno, nella letterina che ho scritto a Babbo Natale ho chiesto (da
quella persona originale che sono) le stesse cose
di sempre: pace, lavoro, giustizia e salute. Per me e per tutti,
perché se stai bene tu mentre gli altri stanno male, allora sì che
sei cinico! E sei anche qualcos'altro che per spirito natalizio,
preferisco che rimanga nella mia penna...
Ultima
palla di Natale: mi piace immaginare che quando saremo seduti a
tavola, in qualche modo,
in un modo cioè che non so spiegarvi neanch'io, ci siano anche tutte
quelle persone che per malattia, età o disgrazia hanno dovuto
lasciarci.
Diceva
nel suo libro Utopia
Thomas More che i nostri cari, solo perché muoiono, non per questo
vanno davvero via:
essi anzi rimangono vicino a noi. Semplicemente, non li vediamo.
Quindi,
perché non pensarla così?
Questo
pensiero mi sembra il modo migliore per trascorrere il Natale o
almeno, tutt'altro che una palla di Natale.
domenica 18 dicembre 2016
"Caino", di Josè Saramago
Si tratta di un romanzo dello
scrittore portoghese e premio Nobel per la letteratura 1998 J.
Saramago (1922-2010). Il suo Caino è un uomo che benché non sia
certo fiero d'aver ucciso il fratello, è fortemente turbato dalla
“giustizia” del Signore.
Nel denunciare quella giustizia,
il Caino di Saramago discute con Dio a per tu e spesso, dal testo,
spunta un umorismo sottile e gustoso.
Per es. il primo battibecco tra
Adamo ed Eva, dopo la cacciata dal Paradiso terrestre, mette in luce
una donna per niente sottomessa al marito...
“Su ciò che il Signore possa o
non possa, non sappiamo niente.” (Adamo).
“In tal caso, dovremmo forzarlo
a spiegarsi, e la prima cosa che dovrà dirci è il motivo per cui ci
ha fatto questo e a che scopo.” (Eva).
“Sei matta.”
“Meglio matta che paurosa.”
“Non mancarmi di rispetto”,
gridò Adamo, “io non ho paura, non sono pauroso.”
“E io nemmeno, dunque siamo
pari, non c' è altro da discutere.” (Eva).
“Sì, ma non ti scordare che chi
comanda qui sono io.”
“Sì, è ciò che ha detto il
signore”, convenne Eva, e assunse l'aria di chi non aveva aperto
bocca.
In seguito Eva si sente davvero
bene perchè: “Sperimentava, nello spirito, qualcosa che forse era
la felicità, o che almeno somigliava molto alla parola.”
Ecco: la parola,
che in greco si dice logos,
termine che significa anche ragione.
Vi è poi della simpatica malizia
quando lei, che insieme allo sposo muore proprio di fame, va a
cercare del cibo alle porte del Paradiso... ed avviene una sorta di
seduzione da parte del cherubino di guardia. O fu Eva a sedurre lui?
Comunque: “Quando Abele nascerà,
tutti i vicini si stupiranno del roseo biancore con cui è venuto al
mondo, come se fosse figlio di un angelo, o di un arcangelo, o di un
cherubino, non sia mai.”
I rapporti poi tra Caino ed Abele
saranno pessimi. Abele parla di sé come di un essere superiore e le
sue offerte al Signore sono sempre accettate alla grande; quelle di
Caino, invece... L'Abele di Saramago, più che una povera vittima
innocente, sembra un dannatissimo Gastone: sì, proprio il rivale di
Paperino. Vien voglia di spaccargli la faccia, o la testa.
Dio scopre Caino che però Lo
accusa d'aver permesso il
fratricidio. La contro-accusa di Caino è insidiosa, così Dio non lo
punisce riconoscendo la sua “parte di colpa” nella morte di Abele
e col segno che gli imprime sulla fronte, gli garantisce che nessuno
gli farà del male.
Da quel
momento Caino attraversa vari luoghi e si imbatte in diversi
personaggi di primo piano: Lilith, bella e focosa; Noè con la sua
famiglia; la torre di Babele; Abramo; Sodoma e Gomorra, Lot e sua
moglie; Giobbe ecc. ecc.
A
proposito di Sodoma e Gomorra, Caino osserva che sì, da quelle parti
non si trovava un solo giusto:
ma nella loro distruzione furono massacrati anche i bambini. Perché?
Il
romanzo prende di mira anche la giustizia umana: per
es. la condanna a morte di uno “schiavo traditore” non deve
turbare Lilith, in dolce attesa. Così: “Il risultato fu una sobria
esecuzione per impiccagione davanti
a tutta la popolazione della città.”
Troviamo anche
delle questioni sociali: per es., Caino va in cerca di lavoro come
pigiatore di argilla.
“Quanto
guadagnerò”, domandò Caino.
“I pigiatori
guadagnano tutti uguale.”
“Ma io,
quanto guadagnerò.”
“Questo non
riguarda me, in ogni caso, se vuoi un buon consiglio, non domandarlo
subito, non è ben visto, per prima cosa devi dimostrare quanto vali,
e ti dico anche di più, non dovresti domandare niente, aspetta che
ti paghino.”
“Se pensi
che sia meglio, farò così, ma non mi sembra giusto.”
“Qui
non conviene essere
impazienti.”
Piuttosto
attuale, no?
Mi fermo qui
perché il romanzo, sebbene di sole 142 pp., è molto divertente e
nello stesso tempo, profondo. Non gustavo da molto un libro così...
martedì 29 novembre 2016
“La nebbia vince quasi sempre”, di Valeria Golino
Di questo film si è parlato poco,
eppure è stato diretto dalla bravissima Valeria Golino ed ha avuto
come protagonisti attori come Silvio Orlando, la stessa Golino,
Stefano Accorsi e Sandra Ceccarelli.
Compare anche Pierfrancesco Loche,
soprattutto in una sorta di monologo con cui cercherà di illustrare
il senso di tutta la vicenda.
Bene, il film inizia alla
periferia di una grande città del nord. Tutto il paesaggio è
avvolto dalla nebbia e come assediato da rumori lontani ma che si
avvicinano sempre più, per poi smettere quasi di colpo.
Dopo pochi istanti partono le
prime note di State trooper di
Springsteen nell'esecuzione de Is maccus (I
pazzi), un gruppo rock di Cagliari. Loro presentano il brano in una
versione rock-blues molto dura ed acida; notevole la frase, ossessiva
e martellante, del basso.
Mentre
i rumori tra la nebbia finiscono, all'improvviso compare un bus, che
la Golino (nel film, Marta)
prende con aria stanca, incerta. A bordo c'è un solo passeggero,
Loche (Pietro).
Marta:
“Ciao, Tri. Hai
appena smontato, giusto?”
Pietro:
“Sì, ma piantala coi diminutivi, mi danno fastidio, è roba da
ricchi, da scemi. O da americani. Io mi chiamo Pietro Angioni, di
anni 59, operaio specializzato, emigrato al nord nel 1972,
ex-delegato Fiom, stanco, amareggiato e deluso di tutto e da tutti.”
Qui fa una pausa ed aggiunge, con un sorrisetto in tralice: “Ma
ancora molto, molto arrabbiato.”
Sorride anche
Marta e mentre gli accarezza i capelli dice: “Il nostro Pietro, che
se può avercela con sé stesso, cerca d'avercela anche col mondo.”
Ora
ci troviamo a Venezia, in inverno. Lei entra all'Ospedale della
Pietà, dove insegnò per tanti anni Vivaldi. Siede in chiesa ed
ascolta la musica (il Concerto in sol maggiore)
ad occhi chiusi. Tamburella, assorta, il tempo su un banco.
Quasi
dal nulla, appare e le si siede accanto Enzo Vitiello (Silvio
Orlando), che sussurra “Un
abbigliamento poco consono all'ambiente, professoressa”,
dice lui squadrando i jeans e la giacca in pelle, “più adatto ad
un concerto rock, direi.”
Lei si
irrigidisce ma apre gli occhi piano, quasi pigramente. Con distacco:
“Ciao, Enzo. Vedo che non hai perso l'abitudine di dare consigli
non richiesti. Da questo punto di vista, sembra proprio che per te
gli anni non siano passati... pancetta, giacca e cravatta a parte.”
Lui,
ridacchiando: “Be', ma allora sono quelli, i problemi? Sarebbero
quelli... il look e qualche chiletto di troppo? Forza, siamo seri!
Siamo seri, dai!”
Lui non riesce
più a smettere di ridere; la sua risata è contagiosa ma nello
stesso tempo, piuttosto irritante.
“No,
i problemi non sono e non sono mai stati quelli,
caro avvocato.”
“Ah,
adesso mi chiami avvocato?”,
dice lui, divertito.
Lei, ignorando
quest'ultima osservazione: “I problemi sono sempre stati la fame,
le bombe che cadono sulla testa delle persone sbagliate, la gente che
vola dalle finestre delle questure, il razzismo che passa per buon
senso, il bigottismo...”
Lui,
seccato: “Marta... Marta,
ti prego: la guerra è
finita. Finita, capisci questa parola? E noi, quella guerra,
l'abbiamo persa: ma non avremmo neanche dovuto iniziarla. Tu, poi,
quando c'era bisogno di te... tu dov'eri? E
ora mi vieni anche a fare la pasionaria? Lascia perdere.”
“Io non ho
mai approvato i vostri sistemi, la fissazione per le armi, i tempi,
gli obiettivi, le tattiche, insomma: la rivoluzione formato
caserma!”, conclude lei tagliente.
“Rivoluzione formato
caserma!”, ripete Enzo,
ridendo a crepapelle. “Buona, questa!
No, dico davvero, Marta! Rivoluzione formato caserma”, ripete per
un po' cercando di tornare serio. Poi, con uno sguardo furbo, anche
un po' viscido: “Però, esimia professoressa De Palma, anche se non
ha mai ucciso, qualche volta ha sparato anche lei...”
Vivaldi
inizia a sfumare, via via Enzo e Marta scompaiono dal centro della
scena. Mentre il Concerto finisce
ed inizia L'estate,
Marta si alza in piedi e dice, fredda: “Ci vediamo, Enzo. Arrivata
all'uscita si volta e trilla con finta allegria: “Mi raccomando,
saluta i nuovi compagni: mafiosi, banchieri e politici corrotti!”
Lei esce, lui
rimane seduto a fissare l'altare, impassibile.
Ora Marta si
trova ad Alghero: siamo solo all'inizio di settembre, ma dal mare
soffia un vento molto freddo. Lei si addormenta al tavolino di un
bar, cercando di godersi qualche raro raggio di sole.
“Come una
vecchia”, pensa, “anzi come una vecchia alcolizzata.”
“Adesso
si dice alcolista, è
più moderno”, le sorride Pietro, che la invita a nuotare.
Marta si tuffa
dalla terrazza del bar, nuotano veloci ma senza fretta. Il sole
invade tutto, si espande come “la sola magia rimastaci”, pensa
lei.
“L'importante”,
risponde Pietro, “è che non arrivi la nebbia: perché quella
avvolge e soffoca tutti i misteri d'Italia; è come la sabbia, solo
che non serve per fare i castelli. E se devi farli, i castelli, falli
in aria: così non potrà distruggerli nessuno. Anche la rivoluzione
era un castello in aria, ma se sai ricominciare, puoi costruirla
veramente. Però devi usare il secchiello giusto. E dentro non deve
esserci del ghiaccio, e neanche lo champagne di Enzo.”
Mentre si
sveglia, ha un po' di mal di testa ma il freddo è scomparso. Il
sole, immenso e luminosissimo, è come se fosse un altro mare.
Ora
Marta si trova a Cagliari, al Binu's bar (bar
del vino). Sta parlando con Daniele Zanardi, un cantante e
chitarrista bolognese che la sera dopo suonerà col suo gruppo in un
locale del capoluogo sardo.
Tra
loro tutto un gioco di sguardi, sorrisi, ammiccamenti... ma forse non
c'è niente di serio. In sottofondo, la chitarra di B.B. King: The
thrill is gone. Daniele beve
forte ma si mantiene lucido; Marta pensa che le piace molto, ma che
per lui è troppo vecchia.
Ad un certo punto le scappa da ridere, una risata contagiosa ma non
falsa come quella di Enzo.
Lei: “Senti,
ma che cosa diranno tutte le ragazzine che ci sono in questo locale,
che sei qui con tua nonna?”
Lui
ammutolisce: sembra che la battuta l'abbia offeso.
Ora
è lei, imbarazzatissima, che attacca a bere forte. Non parlano per
un bel po', poi, quando si alza per andarsene, lui la abbraccia e si
baciano. Ora la musica sale di tono: The man in me di
Dylan nella versione di Joe Cocker.
Vigilia di
Natale, Marta incontra (verso l'alba) Enzo nel parcheggio di un
centro commerciale. E' profumato ed elegante come sempre, ma stavolta
la sua è un'eleganza un po' volgare, pacchiana.
Lei: “Come
hai fatto ad avere il mio numero di cellulare?”
Lui sorride
con aria ruffiana ed insieme simpatica.
Lei riprende:
“Sai che per una cosa del genere potrei denunciarti?”
“Marta, solo
mentre mi faccio la barba posso trovare 7 o 8 sistemi per farla
franca; e magari anche per incasinare te.”
Lei: ” Ah,
sì, certo: dimenticavo che tu sei l'avvocato di grido, deputato e
presto senatore...”
Lui, con aria
di sufficienza: “Ci risiamo: la solita invidia di chi è rimasta
una professoressa delle scuole medie.”
Stavolta
lei non ribatte, aumenta il volume della radio: ecco Panama
di Fossati; il pezzo si trova
poco oltre la metà, lei lo canticchia distratta, lo sguardo lontano.
Riprende:
“Enzo, se non sbaglio, una volta lasciavi che fossimo noi quelli
che andavano a sparare ed a farsi sparare.”
“Ma
allora, se sei tutta questa grande rivoluzionaria”,
dice lui alzando la voce, “si può sapere perché diavolo te ne sei
andata? Eh?! Si può
sapere? Mi chiedo se sia mai possibile conoscere 'sta gran
verità!”
“Semplice.
Per me il terrorismo non c'entrava niente con la rivoluzione. Ma io
ho lasciato quando (ucciso Moro) sembra che avessimo il Paese in
pugno; non quando, come hanno fatto certi avvocaticchi di mia
conoscenza, la barca stava affondando.”
Lui,
con voce stridula: “Non ti permetto di chiamarmi avvocaticchio!
Non osare, guai a te!
Tu non sei nessuno per parlarmi
così, hai capito? Nessuno!”
Ora
Marta tace e rivede le scene di una vecchia gita in barca, quando
loro due frequentavano ancora l'università. Poi rivede alcune scene
del '77, risente la musica di quegli anni, rivede il volto di Curcio,
quello di Berlinguer, risente sua madre che la saluta alla stazione
di Portici, si rivede leggere quel passo di Abelardo: “Il
merito e la lode di colui che agisce non consiste nell'azione, ma
nell'intenzione. Spesso infatti la stessa cosa viene fatta da persone
differenti, ma da una con giustizia e dall'altra con malvagità.”
Compaiono
tante altre immagini, suoni e persone: una vera folla.
Ora Marta
fissa Enzo mentre inserisce nello stereo un cd di Corelli, scende
dall'auto ed estratta dalla tasca interna del giubbotto una pistola,
fa fuoco 3 volte.
Inizia il cd,
lei si allontana verso lo stagno che lambisce il parcheggio; fatti
pochi passi, spara un 4° colpo verso il cofano dell'auto, che
esplode. Quindi lancia l'arma verso l'auto in fiamme.
Raggiunto lo
stagno, vede arrivare una barca: a bordo c'è Pietro.
“Un
passaggio?”, fa lui, ridendo.
In pochi
istanti Pietro si allontana dalla riva; voga con aria concentrata ma
anche molto rilassata: Non parlano per un po', quindi lui: “Sai che
cosa mi manca di più, ora che sono morto? La batteria ed il vento
tra i capelli.”
Lei sorride,
lui aggiunge: “Ed anche tu che mi accarezzavi i capelli.”
Lei sospira:
“Lascia stare, Pietro... piuttosto, secondo te perché Enzo ha
voluto rivedermi?”
“Mah,
forse per dirti quella frase che gli piaceva tanto: la
guerra è finita. O perché, a
modo suo, ti voleva bene.”
“Ma io l'ho
ucciso. Ed ora devo andare a costituirmi, o anche questo fatto sarà
inghiottito dalla nebbia, che vince sempre. O quasi sempre.”
Pietro:
“Marta... li senti, i grilli? Una volta questa era una laguna, la
laguna di Santa Gilla. La gente pescava e viveva qui; mio nonno
diceva che si andava a Cagliari in barca. I grilli, però, quelli non
me li spiego.”
In
sottofondo Cold cold ground di
Tom Waits.
“Pietro, ma
non sarò morta anch'io?”
“Tu che cosa
ne pensi?”
“Penso...
ecco, che non basta parlare coi morti, per esserlo. Del resto, non è
detto che vivere coi vivi significhi essere vivi. Comunque, Enzo non
avrebbe dovuto metterti in casa tutte quelle armi e quegli
esplosivi.”
“Soprattutto,
non avrebbe dovuto fare quella telefonata anonima alla polizia”,
borbotta Pietro. “In ogni caso (anche se per me sbagliavate), ora
pensaci bene prima di costituirti: si dice che in prigione ne
suicidino tanti.”
Intanto la
nebbia avvolge pian piano lo stagno. Mentre sembra che la barca stia
puntando verso il mare, le note di Waits sfumano.
Non si sa che
cosa farà Marta: ha compiuto il suo atto di giustizia, o di
malvagità. E nessuno conosce la potenza della nebbia, o i suoi
limiti.
La
recitazione della Golino
è stata intensa e talvolta, trasognata ma anche molto concreta e
realistica. La sua Marta è fragile ed insieme durissima.
Orlando
ha sfoderato un lato istrionico che ha reso perfettamente la
“viscidità” del personaggio.
Accorsi
è comparso poco, esibendo però una fisicità tormentata, dubbiosa.
Loche ha
rispecchiato tutte le difficoltà e le speranze di una generazione,
oltretutto con una certa autoironia.
Grande
anche la Ceccarelli
(Silvia Martini),
collega di lavoro e sicura amica di Marta.
La
colonna sonora: un
originale e coraggioso mix di rock, blues e classica, peraltro sempre
al servizio del film.
Spero che la
recensione del film vi sia piaciuta.
Peccato che
non sia mai stato girato!
Sì, ho
inventato qualche scena e steso alcune tracce per una
sceneggiatura...
A presto!
lunedì 21 novembre 2016
"Maggie Cassidy" (1959), di Jack Kerouac
Maggie è una ragazza: bella,
spesso imbronciata, parecchio stizzosa, un po' sognatrice e quando
vuole, anche dolce. E' una 16enne che fa proprio impazzire Jean,
l'altro protagonista (in sostanza, Jack Kerouac).
Come
dice appunto a Jean (nel romanzo anche Jack o
Zagg) un suo amico:
“Quella là metterebbe knock out Joe Louis con una sola occhiata.”
La vicenda si svolge nel New
England, ai confini del Canada francofono ed i protagonisti sono
quasi tutti franco-canadesi. Quasi tutti tranne Maggie, che come dirà
il padre di Jean: “E' irlandese quanto è lungo il giorno.”
Forse in amore lei è più esperta
del suo Romeo, comunque sono entrambi bloccati dalla morale
cattolica, o dall'età. Però questo non indebolisce il loro
sentimento, che si rafforza anche attraverso il dolore per la morte
di uno zio della ragazza.
Kerouac delinea benissimo la
personalità di Maggie, come per es. quando dopo il funerale, lei
dichiara: “Non ho nemmeno voglia di uscire di casa _ se non hanno
di meglio da offrirmi che bare, morti _ come potrei lavorare non ho
nemmeno voglia di vivere.”
Poi Kerouac aggiunge: “ Restò
seduta per ore sulle mie ginocchia, con lo sguardo nel vuoto, in
silenzio, nel salotto buio_ io capivo tutto, mi trattenevo,
attendevo.”
Quando lei si riprende, ecco che
Jack la vede entrare in un locale mentre qualcuno suonava The
masquerade is over e lei era:
“Bella come non era mai stata, con delle gocce di rugiada fra i
capelli neri, come tante piccole stelle negli occhi e una luminosità
rosata che si effondeva dalle dolci risate argentine l'una dietro
l'altra _ Si sentiva bene di nuovo, bella e invincibile di nuovo e
per sempre _ come la rosa scura.”
Il romanzo è,
in effetti, un'elegia o un inno per Maggie, che però fa anche
soffrire Jack, per es. provocandolo ed ingelosendolo. L'amore, per
lui, è spesso dolore, equivoco, desiderio insoddisfatto, rabbia,
solitudine...
Infatti,
Jack riflette anche sui possibili sviluppi del
loro amore, inclinando non di rado ad un forte pessimismo, come
quando dice: “Ragazzo e ragazza, l'uno nelle braccia dell'altra,
Maggie e Jack, nella triste pista da ballo della vita, già
demoralizzati, gli angoli della bocca pieni di rinuncia, le spalle
che si afflosciano, accigliati, le menti prevenute _ l'amore è
amaro, dolce è la morte.”
Già.
Quando si è adolescenti, quello straordinario sentimento è (così
come dovrebbe essere),
una questione di vita o di morte. Ogni sorriso, lite, broncio etc.
etc. diventa qualcosa di decisivo.
Crescendo,
impariamo ad essere più controllati, logici, forse anche cinici.
Ma
secondo me, quando si ama davvero,
si può e si deve mettere il proprio cuore in palio, così come un
pugile brucia le sue ultime energie.
E
la donna che amiamo, per noi deve essere realmente l'unica.
Come ha detto una volta
Springsteen: “Non chiedevi ad
una ragazza: ”Vuoi ballare? Le chiedevi: “Vuoi ballare? La mia
vita è nelle tue mani.”
La Maggie di
Kerouac incarna tutta la sensualità, le indecisioni, le ansie i
sensi di colpa e la poesia di una 16enne cattolica ed
irlandese-americana di tanti anni fa.
E
Jack/Jean, franco-canadese di Lowell, nel Massachussets, si trova a
vorticare in un meraviglioso e doloroso insieme
di atteggiamenti e di sentimenti, il suo cuore che come la pallina
d'argento della roulette gira e gira cercando di raggiungere la sua
Maggie... Poi però la raggiunge,
lei è sempre vicina e lontana, spesso dolce ma anche sarcastica e
beffarda. Eppure, così fragile ed insicura... una giovane donna
timorosa di rivelare le sue paure.
Il
romanzo è anche la cronaca dell'amicizia, comico-eroica di alcuni
buffi ma leali ragazzotti franco-canadesi (canucks),
della loro devozione all'hockey, ma soprattutto (ripeto), devoti alla
loro amicizia,
quell'amicizia che si può provare con quell'intensità, così come
l'amore, solo a 16
anni. Ma che dovremmo continuare a provare.
Jack e Maggie
vanno ad una festa a New York, lei, sentendolo parlare dei suoi
amici, gli dice con grande realismo: “Amici? Puah (...). Un giorno
andrai a mendicare alla loro porta di servizio e non ti daranno
nemmeno una crosta di pane lo sai meglio di me.”
Ed aggiunge:
“Che sono per te le torri di Manhattan che hai bisogno ogni sera
dell'amore tra le mie braccia al ritorno dal lavoro _ Posso forse
renderti più felice con della cipria sul petto?”
Maggie
appartiene alla realtà sociale e culturale del New England operaio
e popolare: una realtà di cui magari non ha piena coscienza, ma di
cui ha assorbito tutta l'inquietudine, l'istintività e la joie de
vivre. Una gioia di vivere che forse spaventa Jack... ragazzo, in
fondo, ancora dominato dal senso di colpa e del peccato.
Forse Jack
(anche J. Kerouac) manterrà sempre di fronte alla vita una
certa ingenuità, se non un certo candore: questo anche quando
inizierà a girare tutta l'America e farà esperienze amorose,
alcoliche, artistiche, con le droghe etc. etc.
Ecco perché
Maggie, con quella capacità di visione e di pre-visione che
possiedono tante donne, dirà al suo Jean: “Tu non capisci lo
sporco _ per terra. Jacky.”
E', infatti,
tipico di alcuni artisti creare grandi cose, ma non rendersi conto
del male, dell'ignoranza, della cattiveria... Anche quando si trovano
lo “sporco” davanti, certi artisti tendono non solo a descriverlo
bensì ad esaltarlo o almeno a farsene affascinare.
Comunque, io
penso che anche a distanza di tanti anni, Maggie Cassidy rimanga
uno stupendo e malinconico inno all'adolescenza ed all'amicizia, di
cui è molto difficile trovare l'uguale. Sarebbe bellissimo saper
mantenere o recuperare, da adulti, quella magia e quell'innocenza...
lunedì 31 ottobre 2016
Il martirio di una maestrina*
Il 5 novembre del 1957 la maestra
Oretta Scalisi, romana, prese come di consueto il treno che da
Cagliari la conduceva alla stazione di Barbusi.
Attualmente, Barbusi è un
sobborgo di Piolanas, cittadina da cui Barbusi dista 4.600 km. A sua
volta, Piolanas dista 10 km dalla città di Carbonia: ci troviamo
quindi nel Sulcis-Iglesiente, per secoli la principale zona mineraria
della Sardegna.
La maestra fu: “Ritrovata senza
vita nelle campagne intorno alla chiesa sconsacrata che faceva da
scuola.”
http://www.ladonnasarda.it/storie/5897/oretta-la-maestrina-di-piolanas-uccisa-nel-cuore-del-sulcis.html
La maestra fu trovata: “In una pozza di sangue e con la gola
squarciata.”
Stando a L'Unità dell'8
novembre '57
http://archiviostorico.unita.it/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook&file=/archivio/uni_1957_11/19571108_0007.pdf&query=C.B.
la signora subì anche una violenza sessuale. Dalle indagini risultò
che il suo assassino non la derubò: potremmo quindi ritenere che
egli puntasse “solo” a distruggere quella giovane vita.
Sempre
ne L'Unità si
ipotizza che conoscesse il suo assassino. Del resto, ancora oggi
risulta che la maggior parte degli autori di violenze e/o di
femminicidi, sono persone conosciute dalle loro vittime: fidanzati,
amici di famiglia, parenti, perfino mariti...
Ora, per
recarsi a scuola, la maestra doveva percorrere un tratto di strada
(come visto) piuttosto lungo... di mattina presto ed in aperta
campagna. Condizioni spaziali e temporali, queste, ideali per un
agguato.
Lei
non andava quindi a divertirsi ma a insegnare,
ed a insegnare a bambini che probabilmente, in quanto figli di operai
e di contadini, erano considerati buoni solo
per il lavoro.
Ora, del
crimine fu accusato tale Angelo Manca, che 2 settimane dopo si
suicidò in cella, a Carbonia.
Come ha fatto
notare qualcuno in un commento all'art. cit., il marito della signora
(il geometra Ugo Satta) fu denunciato anni dopo “dalla sua seconda
moglie così poi lui confessò.”
Ovviamente, se
le cose andarono così, è sacrosanto riabilitare la memoria del
Manca.
In
ogni caso, questo tragico fatto rivela quali siano stati i rischi
(davvero mortali)
che per tanto tempo hanno corso, nel nostro Paese, le insegnanti.
So da mia
madre (insegnante ora in pensione) che negli anni '50, era quella la
regola, in Sardegna: prendere un treno all'alba, dopo decine di km
beccarsi una biciclettozza qualsiasi, farsi altri km in posti
abbandonati da Dio e... sperare che non saltasse fuori qualcuno con
un coltello a serramanico.
Persone della
Penisola mi hanno confermato che quella era la regola anche da
loro...
In effetti,
spesso: “Le insegnanti”, erano “più numerose dei colleghi
uomini e a loro”, erano assegnate, “le sedi più disagiate.” Ma
grazie alla “protesta delle maestre sarde, la questione arriva in
Parlamento.”
Rimane il
fatto che per tanto, troppo tempo, ci sono state delle insegnanti che
se non hanno subito la sorte della signora Scalisi, ci sono andate
spesso vicino.
Dobbiamo
perciò molto a quelle
donne: al loro coraggio, alla loro intelligenza, alla loro
generosità. Se il nostro Paese è diventato un po' più civile, lo
dobbiamo anche a donne come loro ed alla maestra Scalisi, una ragazza
di 25 anni di cui
molti giovani dovrebbero conoscere il sacrificio...
anziché i pettegolezzi sugli amorazzi di certe soubrettine e
relativi palestrati.
*
Quando non diversamente indicato, va inteso che le citazioni tra
virgolette sono tratte dall'articolo dal giornale La donna
sarda.
domenica 9 ottobre 2016
Un nuovo inizio
La battaglia
era finita: i ribelli, quei maledetti banditi, erano stati sconfitti.
Fatti a pezzi, in realtà.
Certo, erano
stati degli ossi duri... impossibile negare una verità tanto
evidente ma per il prestigio di Roma, anche dolorosa.
Quei dannati
cani avevano scorrazzato per mezza Italia, prima d'esser finalmente
bloccati e chiusi da ben due eserciti.
Ma ora la loro
sovversione era stata (come era giusto anzi sacrosanto) stroncata
senza pietà.
Del resto,
come potevano anche solo sperare di sconfiggere Roma?
Credevano forse che avrebbe permesso ad un'accozzaglia di straccioni
di scatenare la rivoluzione nel cuore stesso dell'Impero? Credevano
che Roma avrebbe tollerato di vedere lo schiavo godere degli stessi
diritti del suo padrone?!
A questo
pensiero il generale soffocò a stento una risata.
Bene, dopo
questa grandissima vittoria avrebbe concesso oro, donne e vino a
tutti i soldati.
“A proposito
di soldati...”, mormorò tra sé e sé, “Centurione! E'
stato trovato il capo di quei vermi, lo schifoso Spartaco?”
“No,
generale. Lo stiamo cercando da ore, ma sembra che sia sparito.
Dobbiamo continuare le ricerche?”
“Lascia
stare: voleva la morte. L'ha trovata. I resti del suo corpaccio
infame saranno sparpagliati per tutto il campo!”
Dicendo questo
il generale scoppiò a ridere poi guardò il centurione e con un
cenno indolente del mento, gli fece capire che dopo il suo
comandante, ora poteva ridere anche lui.
Congedato il
subalterno, il generale cominciò però a provare una certa
inquietudine. Che quel dannato Spartaco se la fosse scampata?
“No, è
stato ucciso!”, gridò.
Ma egli non
capì se la fine di quell'uomo non fosse in realtà un nuovo
inizio.
Non capì neanche lui che cosa significasse questo suo
pensiero, si trattava più che altro di una sensazione... però molto
molesta.
E che lo tormentava.
giovedì 22 settembre 2016
“I rusteghi”, di Carlo Goldoni
Si tratta di una commedia che
Goldoni scrisse nel 1760 e che: “Fu recitata al teatro San Luca il
16 febbraio e poi per due sere consecutive alla fine del Carnevale,
col titolo La compagnia dei salvadeghi ossia i rusteghi.”1 Ora,
egli scriveva in veneziano e:
“Nella Repubblica di Venezia la lingua ufficiale era il veneto
colto.”2
Forse,
lo stesso veneziano utilizzato da Goldoni, era più una lingua
che un dialetto,
infatti Gaspare Gozzi scrisse nella “Gazzetta Veneta” (20
febbraio 1760): “Lo stile è colto e senza espressioni plebee o
idiotismi vili”.3
A questo
punto i miei lettori e le mie lettrici sbufferanno: ma questo qui
perché la fa tanto lunga, con la questione della lingua? Semplice:
perché se dovessi tradurre male questa gustosissima lingua, voi
continuereste a volermi bene... attribuireste i miei strafalcioni ad
ignoranza, non a disprezzo dell'Autore.
Bene,
proseguiamo.
(Era
ora!, direte voi; ed infatti, lo
dico anch'io).
Cediamo
la parola al grande Carlo: “Noi intendiamo in Venezia per uomo
rustego un uomo aspro,
zotico, nemico della civiltà, della cultura, e del conversare.”4
Questi
rusteghi sono uomini,
ma lo sono in modo perlopiù odioso. Non sembrano mariti e
padri bensì sergenti o
inquisitori, amano la solitudine, detestano i divertimenti, non
desiderano che il resto della famiglia (soprattutto mogli e
figlie) si diverta o possa
farlo.
A
loro piace stare a casa: “E soli.”
“E co le porte serae”,
con le porte chiuse.
“E co i balconi inchiodai”,
coi balconi inchiodati.
Quelli
che non impongono alle donne la propria volontà: “No xè
omini”, non sono uomini.5
Su
tutto prevale il lavoro,
il danaro e la
“gloria” d'averne accumulato fin da piccoli; negandosi da
sé ogni divertimento, anche il
più innocente. Tutto è improntato ad un'austerità di costumi
addirittura ridicola, come quando Simon dice: “Mi no
parlava squasi mai gnanca co mia siora mare”,
io non parlavo quasi mai neanche con la mia signora madre; o come
quando Lunardo (il padre di Lucietta) e sempre Simon, si vantano di
non sapere neanche che cosa siano un'opera o una commedia.
E
se qualcuno spreca, ozia etc. etc., “E tuto xè causa la
libertà”, è tutta colpa
della libertà.6
Alla
fine, certa gente è sempre lì, che va a finire: è sempre colpa
della libertà. Chi
libero non è e non vuol esserlo, pretende che non lo siano neanche
gli altri. Ed al di là dell'apparente bonomia,
non fa altro che covare rancore, rabbia, nutrire sospetti...
soprattutto verso i giovani e
le donne, tanto che
Lucietta dice del padre: “El xè impastà de velen”,
è intriso di veleno.7
Ne
I Rusteghi le donne
sono totalmente sottomesse agli uomini. Come dirà Felice (moglie di
Canciano), le donne: “Le ve considera no marii, no padri,
ma tartari, orsi e aguzini”,
non vi considerano mariti, padri, ma tartari, orsi ed aguzzini.8
Questa
sottomissione può lasciar perplessi, perché le fonti storiche
dipingono le donne veneziane come
molto autonome ed anche come parecchio disinibite: illuminante, al
riguardo, il testo del veronese Silvino Gonzato Venezia
libertina.9
Ma
forse potremmo fugare ogni dubbio e/o perplessità vedendo la
faccenda in questo modo: la donna veneziana era tutt'altro che
sottomessa quando apparteneva all'aristocrazia,
poteva quindi disporre di mezzi economici, cultura, conoscenze
altolocate etc. etc.
Del
resto, anche la donna non aristocratica come per es. Felice,
poteva opporsi, poteva ribellarsi: infatti lei rintuzza spesso e con
una certa grinta le obiezioni del marito, sì che lui bofonchia
(quasi intimorito): “Oh che bestia!
No se pol parlar!”,
oh che bestia! Non si può parlare!10
Appunto
Felice svetta su tutti non solo per la fierezza, ma anche perché
essa è sostenuta da cuore, intelligenza e capacità argomentativa.
Essa
dice infatti ai rusteghi, e soprattutto al caro, amorevole marito che urla, sbraita e minaccia di picchiarla: “M'aveu
trovà in t'un gatolo?”, mi
avete trovata in un rigagnolo? Mi no perdo el respetto a
vu, e vu no l'avè da perder a mi”,
io non manco di rispetto a voi e voi non dovete mancare di rispetto a
me.11
Poi
aggiunge: “Disè, sior Cancian, v'ali messu su sti
patroni? (…). Ste
asenate l'aveu imparade da lori?
Se sé un galantomo, tratè da quelo che sè”,
dite, signor Canciano, vi hanno istigato questi signori? Avete
imparato da loro queste asinerie? Se siete un galantuomo, trattatemi
da tale.12
Egli è,
infatti, un brav'uomo: ma i suoi amici lo manipolano per abbassarlo
al loro livello.
Felice
ammonisce invece i rusteghi a
non spargere zizzania tra lei ed il marito ed evangelicamente,
aggiunge: “E quel che non volessi che i altri, fasse cun
vu, gnanca vu coi altri no l'avè da far”,
non fate agli altri quel che non volete sia fatto a voi.13
Ma
oltre al lato morale-religioso, nel discorso di Felice ne troviamo
uno anche razionale,
se premette: “Perchè se me dirè le vostre razon, son
donna giusta, e se gh'ho torto, sarò pronta a darve sodisfazion”,
perché se esporrete le vostre ragioni, sono una donna ragionevole,
sarò pronta a riconoscerlo.14
Qui lei
cerca un confronto dialettico e razionale, non si spreca in scuse e/o
accuse: quel che dice, nasce dall'analisi dei fatti e da quella della
selvatichezza di certi uomini. Inoltre, vuol trovare una conclusione
giusta e ragionevole.
L'atteggiamento
sospettoso, malevolo e potenzialmente foriero di violenza dei
rusteghi è esaminato
anche a livello di costume e del vivere civile,
se Felice afferma: “La maniera che tegnì co le donne
(…), la xè cusì
stravagante fora de l'ordinario, che mai in eterno le ve poderà
voler ben”, l'atteggiamento
che tenete con le donne (…), è così stravagante, fuori
dall'ordinario, che non vi si potrà voler bene in eterno.15
E'
proprio questo il punto: tra esseri umani,
il comportamento di questi orsi è
non solo offensivo, ma anche folle, al di fuori di qualsiasi logica;
una famiglia ed una società dominate da loro, è tenuta insieme solo
dalla paura, da
continue ed immotivate punizioni,
assurdi sensi di colpa
etc. etc. Così Felice li invita ad essere in effetti: “Un poco più
civili, tratabili, umani.”16
Quest'opera
si presta quindi a varie considerazioni: sulla famiglia, sul potere
della triade uomo-padre-marito, su un lavoro per il lavoro e non per
l'uomo, su un'austerità di costumi che diventa negazione
dei nostri impulsi sociali,
culturali e così via.
Ma Goldoni
intreccia tutti questi temi da maestro e ricorrendo al castigat
ridendo mores (punisci i costumi col riso). Inoltre sa farci
sorridere ed anche ridere di cuore; mai però sguaiatamente.
Del resto,
egli osservava il mondo in modo attento ed umano e come osservò
Gramsci: “Goldoni è quasi 'unico' nella tradizione letteraria
italiana. I suoi atteggiamenti ideologici: democratico prima di
aver letto Rousseau e della Rivoluzione francese. Contenuto popolare
delle sue commedie: lingua popolare nella sua espressione, mordace
critico dell'aristocrazia corrotta e imputridita.”17
Insomma: la
commedia I rusteghi poteva esser scritta solo da un uomo che
solidarizzava col popolo e che sapeva vedere quel che doveva ancora
manifestarsi: cioè il nuovo ruolo che avrebbero assunto i giovani e
soprattutto le donne.
E se su
tutto questo si poteva anche rider su... perché no? Ci sono già
abbastanza rusteghi, a questo mondo!
Note
1
Nota in Carlo Goldoni, I rusteghi,
Einaudi, Torino, 1970, p.99.
2
C. Salinari C. Ricci, Storia della letteratura italiana,
Laterza, Roma-Bari, 1990, p.1161, vol.2.
3
Nota in C. Goldoni, I rusteghi,
op. cit., p.100.
4
L'Autore a chi legge,
in C. Goldoni, I rusteghi,
op. cit., p.18.
5
Cfr. C. Goldoni, op. cit., atto secondo, scena quinta,
p.60.
6
Cfr. C. Goldoni, op. cit., atto secondo, scena quinta,
p.28.
7
C. Goldoni, op. cit., atto primo, scena seconda,
p.58.
8
Ibid., atto terzo, scena seconda,
p.85.
9
Silvino Gonzato, Venezia libertina,
Neri Pozza, Vicenza, 2015.
10
C. Goldoni, op. cit., atto terzo, scena seconda,
p.85.
11
Ibid., atto terzo, scena seconda,
p.83.
12
Ibid., atto terzo, scena seconda,
p.83.
13
Ibid., atto terzo, scena seconda,
p.84.
14
Ibid., atto terzo, scena seconda,
p.84.
15
Ibid., atto terzo, scena seconda,
p.85.
16
Ibid., atto terzo, scena ultima,
p.94.
17
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere,
Edizione critica dell'Istituto Gramsci, a c. di Valentino Gerratana,
Einaudi, Torino, 2007, p.810. I corsivi sono miei.
sabato 20 agosto 2016
"Stabat mater", di Tiziano Scarpa
Un romanzo straordinario.
Bene,
Scarpa ha scritto un testo di sole 136 pagine. Ad esso ha poi
aggiunto una Nota di
altre 6 in cui ha spiegato il suo legame con Venezia e con Vivaldi,
il suo compositore preferito, e ha fornito una bella
bibliografia-discografia sulla
città e sul prete rosso.
Infine,
ha spiegato il suo legame con l'Ospedale della pietà (vi
nacque!), quel luogo cioè in cui le orfane della Serenissima
venivano allevate: “Per dare loro un'educazione, un mestiere e una
possibilità di intervento sociale, non solo attraverso il matrimonio
ma anche concedendo loro di impartire lezioni private di musica.”
L'Ospedale era
quindi molto più di questo o di un orfanotrofio, ma per l'Europa del
tempo, un'istituzione che potremmo anche definire all'avanguardia.
Certo,
per l'Europa del tempo...
perché era un'istituzione religiosa, retta da suore che accoglievano
le bambine (molte delle quali ancora neonate) che venivano
abbandonate appunto alle loro cure da donne che intendevano disfarsi
di quel che fino a non molto tempo fa era chiamato il
frutto del peccato.
Talvolta,
a distanza di anni, qualche madre tornava a riprendersi la sua
bambina, ma di solito, le sfortunate vivevano isolate dal mondo dal
momento in cui erano consegnate all'Ospedale (la madre rimaneva
sempre rigorosamente anonima) fino alla morte.
La
protagonista della storia si chiama Cecilia:
di lei sappiamo solo questo. Per cercare un contatto con la madre
sconosciuta, fin dai 15-16 anni inizia a scriverle delle lettere.
Queste cominciano tutte con un austero Signora Madre ed
in esse Cecilia utilizza sempre il “voi.” Sono lettere il cui
tono oscilla tra una forte e direi rancorosa freddezza
ed un disincantato desiderio d'amore e di accettazione.
Nelle sue
missive Cecilia riflette sul tempo, sull'acqua, sulle più antiche
origini di Venezia, quando l'insieme di isolette che la compongono
era solo una distesa di paludi percorsa dal vento e dagli uccelli...
e su molto altro ancora.
Non è sempre
netto il confine tra le lettere di Cecilia e le sue riflessioni più
personali, quelle cioè staccate dall'ideale rivolgersi alla madre:
ma questo rende il romanzo ancora più stimolante, perché ogni tema
si intreccia ed incastra nell'altro, come in un insieme di note che
si rincorrano per poi scomporsi, separarsi e riprendere ad
intrecciarsi. Come uno stormo di rondini che entri ed esca da una
serie di lunghi e tortuosi corridoi e da una lunga teoria di stanze.
Compare
spesso la Morte, che
assume le sembianze di una donna dai capelli neri ed aggrovigliati
come serpenti, ma che tratta Cecilia con gentilezza, quasi con
affetto. Sarà certo un'allucinazione o una forma di compensazione
per la solitudine ed il senso di abbandono che tormentano la ragazza,
eppure il “personaggio” è molto riuscito e convincente.
La notte
Cecilia, che non riesce a dormire, si accoccola sulle scale, al buio:
l'Ospedale è un labirinto di stanze, corridoi, scantinati,
sottopiani ed appunto, scale. Lì lei continua ad interrogarsi su
tutto. Sono frequenti le riflessioni sulla morte, che però
dimostrano grande lucidità ed assenza di paura: Cecilia appare così
molto più forte, matura e consapevole dei suoi sedici anni.
E'
centrale anche la figura di Antonio Vivaldi.
Nel suo grande amore per le orfane e soprattutto per Cecilia, Scarpa
compie (ma consapevolmente) una grave ma bella
falsificazione: attribuisce
quasi la creazione delle Quattro stagioni ad
una sorta di “furto” che Vivaldi avrebbe compiuto ai danni di
Cecilia.
L'idea
cioè di fondo delle Stagioni,
come dice lei, consiste in questo: “Imitare i rumori del mondo”;
ma per lei, questo è “così infantile.”
Inoltre,
prima che don Antonio componesse
la sua opera più nota, Cecilia aveva
insegnato a delle bambine (che lo rivelano appunto a Vivaldi) a:
“Fare le voci delle rondini con i violini, e lei ha suonato come fa
l'usignolo!”
L'idea
di Vivaldi, nelle Stagioni,
è appunto imitare gli elementi naturali e gli animali attraverso gli
strumenti musicali, benché concordi con Cecilia che quell'opera sia
“la cosa più stupida” che abbia scritto. Stupida! Ma ve ne
rendete conto?
Eppure la cosa
ha un senso. Vivaldi dichiara, infatti, che gli serve “per arrivare
alle orecchie di tutti”, perché: “Dobbiamo avere l'umiltà di
farci capire. Dobbiamo usare la nostra complicazione per tirarne
ingegnosamente fuori la semplicità.”
In
effetti, la musica e forse qualsiasi altro
tipo di arte dovrebbe fare proprio questo: estrarre dal caos e dal
dolore da cui spesso il mondo è dominato, qualcosa che possa parlare
alla mente ed al cuore di tutti. Perché come dice Cecilia: “La
musica è la cosa che più assomiglia a un'idea pura.”
Pura non
significa staccata da
tutto il resto, quindi staccata soprattutto dall'equivoco, dalla
solitudine, dalla malattia, dalla povertà, dalla follia,
dall'ingiustizia.
No,
pura significa ciò
che le cose, il mondo e le persone dovrebbero essere per valere
davvero, ma non come
se il male non esistesse. La musica come “idea pura”, è il bene
che trionfa sul male
purificando il nostro cuore e la nostra mente da tutta quella
sofferenza, che spesso subiamo senza nostra colpa.
Ecco
che allora quei violini apparentemente facili ed allegri, risultano
tali solo in apparenza.
In realtà, è la musica che cerca e trova la strada per il nostro
cuore: e che cosa c'è di più triste e difficile di quello che ci
ostiniamo a considerare un semplice muscolo?
Così
Cecilia, che troverà la sua strada anche oltre la
musica, non dirà più: “Noi siamo sepolte vive in una delicata
bara di musica.” Non lo dirà più perché ad un certo punto la
musica diventa per lei strumento di liberazione,
ricongiungimento alla vita.
E
questo (concedetemi una battuta certo scontata) è davvero degno di
nota.
martedì 9 agosto 2016
Crescere e sentire attraverso lo sport
A me lo sport piace molto.
Nello e dello sport non mi
piacciono solo la competizione e
la vittoria: anche
quelle, perché se in esso mancano quegli elementi, allora è come
una bottiglia di vino senza vino.
Analogamente, soltanto un
alcolizzato berrebbe del vino che si trovi per terra.
Insomma: nello sport è importante
il risultato ma anche ciò
che lo racchiude.
Dirò
di più... nello sport è importante, prima di ogni altra cosa... lo
sport in sé stesso.
Quando un bambino impara a correre, non vuol far altro che correre.
Comincia a calciare un pallone? Di dove vada a finire, gli importa
quanto può importagli di una catena arrugginita; forse anche meno.
Secondo
me, se recuperassimo quel disinteressato piacere che
ci porta a fare un dribbling per il solo piacere di farlo, uno scatto
per sentire l'aria che ci sibila attorno al corpo, un tuffo per
vedere come sia fatto il fondo del mare ecc. ecc., ebbene, forse
allora staremmo molto meglio.
Insomma,
portiamo i nostri figli in una scuola-calcio e che cosa vediamo?
Semplice: molte di queste sono delle caserme, con allenatori-cerberi
che paonazzi, urlano (benché meno che ai nostri tempi) ed
imbottiscono i pargoli di schemi, formule e sensi di colpa.
A quel punto, fate loro studiare
le equazioni di 2° grado e la dialettica di Hegel: i nostri cari boys si
annoieranno di più, ma almeno impareranno qualcosa!
Qualche amico mi dirà: “Ma
come! Dici queste cose tu, che
hai sempre ammirato il senso tattico perfino
dei tedeschi?!”
Esatto, my
friends, esatto.
Vi
spiego: prima di fare sul serio, c'è il gioco.
Perché mai uno dovrebbe inseguire un pallone, che tra l'altro è già
inseguito da uno o più avversari (col rischio magari di rompersi una
gamba) se non lo divertisse?
Sto
correndo, ormai ho 54 anni: non sono ancora vecchio, ma non sono più
un ragazzino.
Però riesco ancora, e questo perfino a prescindere dal
fatto che oggi o domani debba giocare a calcio o a calcetto, a
correre col caldo e col freddo ed a divertirmi.
Anche se qualche buontempone abbassa il finestrino dell'auto
super-refrigerata e mi grida: “Oh marocchinu!”
Sento
il sole che mi picchia sulla testa, al 2° km (o anche prima) ho
dimenticato il contratto scaduto; un minuto dopo la doccia mi darò
da fare per ottenerne un altro... ma ora sto correndo.
In campo, sole
a picco o pioggia a catinelle, sono solo e sto palleggiando e/o
tirando in porta: i miei piedi sono di legno come sempre, ma mi sto
divertendo.
Beh, per oggi
basta così; ma tornerò sull'argomento.
sabato 30 luglio 2016
Orem
Orem era un brav'uomo, aveva
sempre cercato di vivere in pace con tutti ed anche con sé
stesso. Solo, questo
era molto più difficile: c'era sempre qualcosa che lo tormentava.
Sempre.
La
vita, pensava Orem, è un problema; e forse lo siamo anche noi, per
noi. Un nemico posso pestarlo,
farlo prigioniero o perfino ucciderlo; con mia moglie posso litigare
e poi fare pace; con gli amici posso urlare poi bere litri di vino.
Ma
con me stesso, che cosa posso fare? Non posso uccidere me!
Ed anche quanto al bere,
farlo da soli è da idioti, è addirittura da vecchi mammuth!
Una sera Orem
vide che un suo vicino sudava moltissimo armeggiando con dei pali e
delle corde.
“Ciao,
Zummoni.”
“Non
disturbarmi, Orem”, disse quello, brusco. “Non vedi che sto
lavorando?”
“Certo
che lo vedo. Ma spiegami perchè lo
stai facendo.”
Orem
avrebbe voluto dare a quello scemo una bella testata e rompergli il
naso, ma poi sua moglie avrebbe iniziato a strillare: “Orem!
Quante volte devo dirti di non
prendere la gente a testate? Adesso la pelliccia sporca di sangue chi
deve andare a lavartela al fiume, si può sapere? Io,
devo andarci, pezzo di cretino che non sei altro!”
Così preferì
lasciar perdere. Ma quella faccia di pterodattilo di Zummoni,
sbuffando: “Sto recintando questo campo di grano, così chi ne
vorrà, dovrà pagarlo.”
“Ma che cosa
stai dicendo, Zummi? Finora abbiamo sempre lavorato tutti insieme e
quello che cresceva nei campi, era di tutti. Ad uno poteva servire un
po' più di frutta o magari della verdura, grano ecc. ecc. Si andava
a caccia? Della carne a te, a me ed a tutti gli altri. A pesca? Del
pesce a me, a te ed a chi ne aveva bisogno, a seconda delle
esigenze.”
“Sì, ma ora
basta, dobbiamo smetterla di comportarci come dei primitivi, gente
che si divide tutto e non si arricchisce mai. Ognuno deve far
fruttare la sua intelligenza.”
“Caro Zummi,
tu la chiami intelligenza; io la chiamo avidità.”
“Ma come
osi?!”
“Oso, oso...
e non alzare la voce o ti alzo e poi ti abbasso un osso di t. rex
sulla testa, ladro che non sei altro!”
“Ladro io?!”
“Sì, ladro
tu, recintatore della mia clava! Ladro tu e tutti quelli che
seguiranno il tuo esempio.”
Poi Orem
salutò Zummoni ed andò sulla collina: si diceva che fossero piene
di tigri dai denti a sciabola, le cui carni erano prelibatissime.
Ma
una volta partito, tornò indietro (di notte) ad uccidere Zummi.
Poi ripartì.
Quasi 2 mesi
dopo riecco Orem, carico di pelli, carni e zanne. Ebbe però un'amara
sorpresa: parecchi campi erano recintati ed addirittura, l'accesso a
molte strade, proibito; all'ingresso di esse compariva la scritta
“Proprietà privata.”
Due tipi gli
si rivolsero in tono freddo dicendo: “Buongiorno, signore.”
“Ma Avro e
Bargo, perché mi chiamate signore? Ci conosciamo da quando
eravamo bambini!”
“La smetta
con la confidenza. Noi siamo delle guardie.”
“Ah sì? E
che cosa guardate?”
“Basta con
gli scherzi!”, urlò Avro. “E ci dica, dove è stato in tutto
questo tempo?”
“Beh,
saranno affari miei, no? Piuttosto ditemi voi, che cos'è quella
brutta capanna, là all'ingresso del villaggio... non capisco.”
“Non è
brutta e non è una capanna”, ribatté Bargo, “è una prigione.
E' dove rinchiudiamo i criminali.”
“Bene!”,
rise Orem. “Quindi quelli che recintano i campi, vero?”
“No, falso”,
disse Avro. “Quelli si chiamano proprietari. Se non fosse
per loro, saremmo ancora al tempo in cui....”
“Non c'era
mai bisogno”, completò Orem, “di litigare, perché ognuno si
prendeva da bravo amico, solo quello che gli serviva, ma mai più di
quello: e senza togliere niente a nessuno. E senza accumulare.”
“Ma che
dice?!”, urlò Bargo, “quello era quando eravamo ancora dei
primitivi, gente che credeva ancora all'esistenza dei dinosauri!”
“Sentite”,
replicò uno stanco Orem, “non faccio un bagno da 57 giorni e da 57
giorni non vedo mia moglie. Io vado a casa. Buongiorno.”
Mentre
raggiungeva casa sua, pensò che uccidere Zummi era stato inutile:
bisognava unirsi in tanti ed in tanti distruggere sia le maledette
recinzioni sia quella nuova tribù, quella dei recintatori.
Ma certo,
pensò, prima avrebbe dovuto far ragionare gli altri... là al
villaggio. E lui aveva sempre qualcosa che lo tormentava.
E non
faceva un bagno da 57 giorni.
E non si sdraiava sulle pelli con sua
moglie da altrettanti giorni.
Ed era tanto, tanto stanco.
giovedì 21 luglio 2016
I miei rapporti con maggio e con giugno
Maggio e giugno (giugno
soprattutto fino alla 1/a metà ) sono i miei mesi preferiti.
Questo anche se, istintivamente,
preferisco i mesi estivi: il mare ed il sole della 2/a metà di
giugno, luglio, agosto e buona parte di settembre, hanno su di me un
effetto davvero rigenerante.
Inoltre, per me è quasi
impossibile soffrire il caldo...
Ma maggio e la prima metà di
giugno possiedono qualcosa che va oltre l'estate:
intendo dei colori più tenui, più morbidi, un senso di liberazione
che coincide con la fine della scuola e che quando corro, mi fa
sentire più libero e vivo.
Quando
andavo ancora al liceo (accidenti, mi sono diplomato nel
1981, un'eternità!) dopo cena
io e gli amici scendevamo sotto casa ed alla luce dei lampioni,
organizzavamo delle indiavolate partite di calcio.
Be',
quando ripenso a quel periodo, quando ripenso al sollievo addirittura
fisico che provavo per
la fine delle lezioni, allora riesco a capire i ragazzini.: ricordo
che lo sono stato anch'io
e ricordo quanto mi pesasse non tanto lo studio, quanto l'ordinamento
quasi militare della scuola.
Soprattutto,
mi pesava l'atteggiamento distaccato di certi/e della mia classe...
che appartenevano alla Cagliari-bene di allora.
Ma
col tempo e col mio studio, con le mie letture, la mia scrittura,
col mio lavoro!, ho
capito ancor di più quanto ci fosse di fasullo in loro. Ho capito
quanto sia bello guadagnarsi da vivere con le proprie forze, con la
propria intelligenza, senza dover niente a famiglie potenti ed
ammanigliate come le
loro.
Vabbe',
polemica chiusa (in attesa della prossima)!
Un'altra cosa
che amo di maggio e di giugno è passeggiare in città e vedere e
sentire il volo ed il canto degli uccelli (ma questo anche stando
alla finestra): volo e canto che in quei mesi trovo particolarmente
fantasiosi e musicali e che davvero, mi tolgono qualcosa di pesante
dalla mente e dal cuore.
Ah, lo so: sto
scrivendo come Liala!
Allora andiamo
avanti.
Maggio e
giugno mi riservano dei tramonti meno infuocati di quelli estivi e
senz'altro meno malinconici e tristi di quelli autunnali ed
invernali.
Inoltre, è
bellissimo osservare la città dall'alto dei bastioni e seguire la
scia delle navi che abbandonano lentamente il porto, scomparendo
all'orizzonte come delle bizzarre formichine d'acqua.
E' inebriante
(ah, di nuovo il fantasma di Liala!), è inebriante, dicevo, stare in
balcone mentre la natura si mette l'abito da sera...
“Permette
questo ballo, Madama Natura?”
“Volentieri,
messere. Anche se (non me ne voglia) spesso lei, con la sua voce
ululante e la sua armonica sferragliante, ha un po' disturbato il mio
riposo...”
“La prego di
perdonarmi, Monna Natura. Sa, il lavoro precarissimus, gli anni che
passano ed una qualche mia tendenza all'ipocondria, hanno spesso
causato atteggiamenti che lei può aver trovato irrispettosi. Mi
scusi. Davvero.”
“Ah,
messere, la vita è troppo breve, talvolta perfino bella, perché la
si sprechi coi sensi di colpa. Dunque, danziamo!”
In maggio ed
in giugno io ballo molto: e non mi serve neanche la musica.
giovedì 30 giugno 2016
Simpatico infernale valzer italiano
In Piazza della Loggia, a Brescia,
nessuno dica che non ci sia,
che non ci sia stata la
democrazia:
là si è lavato il sangue della
povera gente...
subito dopo averlo sparso!
Le prove fanno male,
le prove non sono belle:
ecco perché furono eliminate
e qualcuno rise a crepapelle.
I nuovisti sono tanti,
i nuovisti sono sempre nuovi:
anche quando sono vestiti di nero,
poi di rosso finto-finto
quindi di schermi tv e risate
telecomandate
o anche di comico qualunquismo.
A Bologna salta in aria una
stazione
ma è stato solo un cerino:
lo dice chi è da venerare
e noi lo
dobbiamo anche stare ad ascoltare,
a Bologna
bruciano 80 vite
ma gli armadi
che si devono aprire
sono a prova
di ogni cacciavite.
Pasolini fatto
a pezzi ed anche di più
come se un
ragazzotto qualsiasi
potesse essere
più forte di Manitù,
riapri per un
momento l'inchiesta
ma chiudila
subito,
ci sono occhi
e cervelli che...
vedi Gramsci ma vedilo bene
per 20 anni
non devono funzionare,
ancora meglio
se puoi farli crepare.
A Portella
della Ginestra la Sicilia era bella,
soprattutto
quando i mitra iniziarono a cantare:
allora fu
l'apocalisse
ma per certi
un'apoteosi, un gran trionfo...
in questo caso
la strage made in Italy
stracciò
quelle a stelle e a strisce.
Il cugino del
bandito Giuliano
disse al
giudice:
“Ma non lo
sa, signor presidente,
che noi, lo
Stato e i carabinieri
siamo come il
Padre, il Figliolo e lo Spirito Santo?”
Non aveva
letto né Abelardo né Tommaso
ma forse
sapeva qualcosa
e non parlava
a caso.
Ora tu
comandante seduto in poltrona
con in mano un
bicchiere di whisky di malto
pensi che con
questi miei strali
io abbia perso
un po' di smalto,
forse tu pensi
che non posso
accusare tutti
d'essere dei pescecani,
certo tu pensi
che devo stare calmo
se non voglio
fin d'ora
una bella
lastra di poetico marmo...
Ma come
Pasolini ti dico: “Io so.”
Io che come
lui non ho le prove
ti dico: segui
il filo del sangue,
segui la
polvere della droga,
segui lo
squallido profumo del sesso a pagamento
e non mancare
di notare
la cenere di
voti rubati, bruciati o negati
e la brace
ormai spenta
di libri fatti
a pezzi
perché
denunciavano certa violenza,
segui il
bagliore equivoco di tv vendute
e vedrai da te
chi ha
scatenato
questo
simpatico, infernale valzer italiano...
questo
infernale valzer, che non è un mambo.
domenica 5 giugno 2016
“Infanzia, adolescenza e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano”, di Luigi Comencini (1969)
Principali interpreti: Leonard
Whiting (Casanova), Maria Grazia Buccella (la madre), Raoul Grassilli
(don Gozzi), Senta Berger (Fiammetta
Cavamacchie).
Seguiamo il
famoso seduttore ed avventuriero dall'infanzia al momento in cui, sui
20 anni, decide di gettare la tonaca alle ortiche per diventare uno
sfrenato libertino.
Ma
in che cosa può consistere, oggi,
il fascino di quest'uomo... a 218 anni (1798) dalla sua morte?
Secondo
me la risposta è: Venezia.
Perché in quell'intrico di stradine, canali, vicoletti, campielli,
in quell'intreccio di palazzi più o meno in rovina, nei meandri di
quell'architettura orientaleggiante, splendida, pericolante e
pericolosa che è una
scommessa giocata e vinta contro il mare,
sembra che si possa vivere qualsiasi avventura.
E
pazienza se come ricordano Marcello Brusegan, Maurizio Vittoria ed
Alessandro Scarsella nel loro Guida insolita ai misteri, ai segreti,
alle leggende e alle curiosità di Venezia,
il “Gazzettino” denuncia la tendenza di certa cinematografia a
ridurre la città a: “Sfondo-bordello” delle proprie
intollerabili farneticazioni.”
Certo, forse
la venerazione per il sesso di Casanova era qualcosa di malato, ma
credo che in lui cerchiamo soprattutto Venezia; ed insieme a quella,
diamo la caccia anche alle nostre ossessioni... religiose, culturali,
familiari etc. etc.: non solo, quindi, a quelle erotiche.
Ed
anche quando si tratta di queste ultime, forse quel che ci tormenta
davvero è la paura della morte.
E' del resto quel che si chiede Bukowski nel suo romanzo Donne,
se appunto il sesso frenetico non sia poi un'illusione con cui si
spera di sconfiggere la Falciuta.
Comunque,
Casanova è stato anche un letterato, forse anche di buon livello; le
sue Memorie (scritte
in francese) sono una
lettura godibile e denotano uno stile sicuro e raffinato. Quando poi
(come vediamo nel film) si reca in convento per conferire con le
suore, lo fa in buon latino.
L'inizio,
in modo che fa quasi il verso al film muto e/o in bianco e nero,
ricorda le origini della famiglia Casanova; come avrebbe detto mia
nonna: “Non erano farina da far ostie.” La mamma, per es.,
abbandona quasi subito il piccolo Giacomo, per seguire la
“scandalosa” carriera teatrale. Una volta tornata a Venezia, si
dà da fare, con impegno poco penelopiale,
per mantenere lui ed altri 3 figli... avuti ognuno con uomini
diversi.
La brava e
procace signora non ci mette molto per scaricare un'altra volta il
figlio: stavolta col pretesto di inviarlo a Padova per gli studi.
Comencini
non mostra solo la Venezia ricca ed aristocratica, ma anche quella
miserabile ed abbruttita dalla fame e dominata da ignoranza e
superstizione, con un popolino che assiste a spaventose operazioni
chirurgiche come se si trovasse a teatro.
E'
una Venezia ed un tempo in
cui i nobili folleggiano in sontuosi palazzi ma chi prende i ragazzi
a pensione (come capita a Giacomo) li fa dormire per terra e li nutre
con cibo avariato.
Il severo ma
onesto ed intelligente don Gozzi scopre il valore del ragazzo, così
lo fa studiare finché non diventa abate.
Passato
al servizio del potente senatore Malipiero, Giacomo accede ad una
vera cucina e ad una ricca biblioteca. Presso il senatore, egli ha
inoltre modo di studiare i appunto i potenti, e magari anche di
indirizzarli alla vita cristiana; ma le fiamme della
carne bruciano...
Prima
il pur casto incontro con una novizia poi quello, carnale,
con la sensuale e giocosa Fiammetta, mettono in crisi la sua
vocazione. Del resto, già mentre predicava, Giacomo riceveva
bigliettini d'amore!
Il colpo di
grazia alla sua vita religiosa sarà poi inferto dalle cugine della
novizia...
Discreta
protagonista del film è la musica:
talvolta soffusa come una luce riposante e confortante, talaltra
briosa come un bel mix di Mozart & Vivaldi.
La
recitazione degli attori e delle attrici: mai sopra le righe, ma mai
fredda; anzi naturale anche
nelle vicende più rocambolesche.
Il
Casanova di Comencini
è un bel
filibustiere, ma tutto sommato, onesto: capisce di non esser fatto
per la vita religiosa, così evita l'ipocrisia e la simulazione.
Infine:
Comencini aveva a disposizione donne come la Buccella, Tina Aumont,
Silvia Dionisio...
Per
non parlare di Senta Berger,
che con la sua gioiosa e giocosa sensualità, ha meritato davvero
l'appellativo di Venus viennensis,
Venere viennese. L'unico appunto che potrei rivolgere al regista, è
solo quello d'averla fatta comparire (stavo per scrivere apparire)
poco... Peccato!
Comunque,
Comencini non ha abusato dell'avvenenza delle signore, puntando molto
di più sulla trama.
Per
me, anche a distanza di 47 anni,
questo film ha mantenuto tutta la sua freschezza: il sapiente
intreccio, poi, del registro drammatico e di quello brillante ne ha
fatto (secondo me), un classico.
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