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giovedì 27 novembre 2014

“Women”, di Lou Reed


Chi abbia una conoscenza anche sommaria dell'arte di Lou Reed saprà che l'uomo non era dei più facili. Quanto alle donne, con loro non indulgeva ad un particolare romanticismo.
Ma secondo me questo non avveniva perchè egli volesse sottolineare a tutti i costi il suo anticonformismo, la sua sofferta o duplice identità sessuale ecc., ma solo perchè come ogni vero artista, sentiva l'esigenza quasi fisica di dire quello che sentiva. Anche quando ciò poteva ingenerare negli altri riprovazione, disgusto o perfino odio.
Donne a parte, penso che pochi farebbero ascoltare ai propri figi (anche spiegandola loro) una canzone come Heroin che parla di eroina e che viene definita “vita” e “moglie.”
Ma in un brano di The blue mask (1982), lo stesso disco che contiene anche Women (il pezzo si intitola The heroine) troviamo un'eroina non nel senso della droga, che ha il potere di di “scaricare la pistola” per “calmare i mari rabbiosi” e liberare un bambino imprigionato in una cuccetta da alcuni marinai ed assassini. Benchè il pezzo racchiuda alcune ambiguità e contenga una certa amarezza, chi potrà liberare la natura ed il bambino è comunque una donna.
Bene, Women è una ballata nel cui video Reed appare con camicia aperta sul collo, giacca di pelle ed occhiali da sole... fedele a certo clichè da rocker.
Musicalmente, il pezzo non è trascinante come Sweet Jane, Rock 'n roll, Dirty boulevard né è struggente come Berlin; è comunque molto interessante. Reed esordisce così:
I love women, I think they're great
they're a solace to the world
in a terrible state
they're a blessing to the eyes
a balm to the soul
what a nightmare to have
no women in the world”,
amo le donne, penso che siano grandi 
sono una consolazione in un mondo
che è in uno stato terribile
sono una benedizione per gli occhi
un balsamo per l'anima
che incubo sarebbe
non avere donne nel mondo.
Bene, Lou non insiste sul lato estetico o fisico delle donne né parla delle belle donne ma delle donne: di tutte loro, indistintamente. Ed è notevole che le definisca “un balsamo per l'anima.”
Nella 2/a strofa Lou fa autocritica:
I used to look at women in the magazines
I know that it was sexist
but I was in my teens
I was very bitter”,
guardavo le donne nelle riviste/ so che questo era sessista/ ma ero adolescente/ ero molto amareggiato.
Anche qui non c'è molto da dire se non che (come penso si capisca) le riviste a cui Reed allude presentavano le donne solo come oggetto di desiderio anzi come prede sessuali.
Interessante però che Lou dica: “Ero amareggiato.” In effetti, spesso il rapporto con le donne, per i rockers e non solo, è disturbato o deformato da un malessere interiore che non sanno affrontare. Senza per questo voler scaricare tutto sui genitori, sappiamo però che quelli di Reed erano molto rigidi e puritani; sappiamo inoltre che lui crebbe in un ambiente che certo non aiutò la sua crescita né la sua idea di donna.
Women esprime tuttavia questa positività nel considerare appunto le donne, qui Reed è in pace con loro.
Forse solo chi abbia attraversato vari mari ed inferni può poi sviluppare un discorso come quello fatto da questo autentico rock 'n roll animal, animale del rock... o come lo ha definito nel suo necrologio la moglie Laurie Anderson, “principe e combattente.”
Noto poi che uno può trovare una certa serenità ma non diventare un altro, nella penultima strofa Lou mescola infatti immagini romantiche classiche ad altre fortine:
A woman's love can lift you up,
and women can inspire
I feel like buying flowers
and hiring a celestial choir
a choir of castratis
to serenade my love
they'd sing a little Bach for us
and then we'd make love”,
l'amore di una donna può sollevarti lo spirito/ e le donne possono ispirarti/ vorrei comprare dei fiori/ e noleggiare un coro celeste/ un coro di castrati/ per fare le serenate al mio amore/ canterebbe per noi un po' di Bach/ e poi faremmo l'amore.

P.s.: ho tratto testo originale e traduzione italiana (da me lievemente modificata) da www.loureed.it





venerdì 21 novembre 2014

Il figlio di Fenarete


Tra poche ore gli avrebbero portato la bevanda.
Così lui , figlio della levatrice Fenarete, avrebbe lasciato questo mondo.
Tutto sommato, la sua vita era stata bella: la famiglia, la ricerca della verità e le indagini sulla virtù, le dolci strade di Atene, la musica... Era stata bella perfino la vita con Santippe.
Quanto agli amici, che dire? Una parola abusata, quella. Lui aveva visto spesso che si presentava come amico chi non sapeva o non voleva camminare sulle sue gambe, l'uomo quindi che cercava nell'altro solo una comoda stampella. Uomini come quelli non potevano o non volevano darti niente: prendevano e basta.
“Stai diventando amaro, caro Socrate?”, si chiese il figlio di Fenarete.
Ma non seppe che cosa rispondersi. Per tanto tempo aveva posto agli altri tante domande ed era stato quello che esigeva delle risposte. Invano, si sarebbe detto.
O forse non tanto invano, se, ridacchiò, qualche risposta aveva ottenuto: quella del processo e della condanna a morte!
“Socrate, Socrate mio,” gli chiedeva sempre la sempre esasperata ed esasperante Santippe, “ma che cosa hai da ridere tanto? Ma non vedi che la gente ha il cuore pieno di odio e pensa solo al vino , al sesso, ai soldi, al gioco delle carte, a quello dei dadi ed alla guerra? Devi stare in guardia, marito: prima o poi la mania della filosofia ti farà finire nei guai!”
Al che rispondeva: “Ma non capisci, cara moglie, che proprio questo mi fa ridere?”
Eppure sapeva che Santippe aveva ragione: la filosofia era davvero una mania cioè una follia. Qualcosa perciò a cui chi cerca davvero la verità non può rinunciare, così come l'avvinazzato non può rinunciare al bere... anche giocandosi la salute ed in pratica, la vita.
Che poi il mondo andasse a catafascio, questo lui, lo sapeva: altroché! Era tutto capovolto: l'ignorante, purché avesse la risposta pronta, passava per saggio e per dotto; lo speculatore per grande lavoratore.
L'onesto era invece considerato un sognatore o un fesso, quando non un pericolo pubblico...
Una volta Platone gli aveva detto: “Bisogna che il filosofo diventi governante o che il governante diventi filosofo.”
“Per carità!”, aveva esclamato lui, “Caro ragazzo, sai quali pasticci nascerebbero, in quel caso?”
Piccato, Platone aveva risposto: “O Socrate, non ne nascerebbero più di quanti non ne nascano già oggi, quando dello Stato si occupano banchieri, militari, fanatici religiosi, commercianti e faccendieri. Per non parlare dei cosiddetti uomini di legge, che sotto il manto appunto della legge utilizzano ogni cavillo per legittimare violenza ed ingiustizia.”
“In effetti hai ragione, giovane amico.”
“Bene. E lascia che aggiunga solo questo: il governante-filosofo o il filosofo-governante non dovrà certo far lezione di filosofia! Egli dovrà invece, in tutte le sue azioni, porre al centro di tutto il bene e la giustizia. Per ogni uomo, per ogni donna. E sempre.”
“Carissimo, spero proprio che queste tue idee possano realizzarsi.”
E Socrate accompagnò quelle parole con un sorriso: ma non di scherno né di falsa o eccessiva allegria. Però quel sorriso, pur mite e quasi triste, era necessario: perché la filosofia e la lotta politica prive di gioco si allontanano dal loro obiettivo.
Poi bisognava anche essere duri: perché la bilancia della giustizia deve essere custodita solo dalla spada, non dalle promesse o dalle buone intenzioni di chi l'equilibrio di quella bilancia poteva alterare col potere o con l'oro.
“Stai diventando uno spartano, caro Socrate?”, si chiese il figlio di Fenarete scuotendo la testa, divertito di sé.
Di certo al processo non si era semplicemente difeso, aveva attaccato: i giudici e gli accusatori rimasero quasi senza parole. Senza parole di verità, ovviamente: perché quanto a parole di falsità, di quelle ne avevano sempre avute fin troppe.
Ma non si era trattato della solita schermaglia filosofica, questo lui lo sapeva bene. Ed aveva accettato di pagare con la vita...
I suo amici e discepoli gli avevano suggerito la fuga oppure l'acquisto di giudici e carcerieri. Perfino loro, per un malinteso senso di amicizia, gli proponevano la vigliaccheria e la corruzione.
Scoppiò a ridere: “Ah, andiamo bene! Andiamo proprio bene!
Fu una risata amara ma nello stesso tempo divertita.
Sentì dei passi in corridoio: erano i carcerieri con la mortale bevanda.




giovedì 13 novembre 2014

“Point blank”, di Bruce Springsteen*


Non si tratta di una canzone d'amore, benché si capisca che tra i protagonisti ve ne sia stato. Ma il pezzo non parla tanto di come l'amore possa finire... anzi penso che questo fatto rimanga in un certo senso sullo sfondo.
No, la canzone parla di come possa vivere soprattutto una donna in una società ingiusta anzi spietata come la nostra che prende in considerazione le donne solo quando stanno con un uomo. Possibilmente potente.
Bene, Point blank non è un rock ma del rock possiede la tensione e forse anche la disperazione. Lo strumento-principe è qui il piano, tutti gli altri rimangono un po' sullo sfondo. L'accompagnamento di batteria è forte ma discreto, come se volesse solo accompagnare la voce.
Abbiamo delle impennate nella quali il ragazzo urla la sua frustrazione ed il suo dolore per la donna che amava e che ora non può più aiutare.
Do you still yours prayers little darlin'
do you go to bed at night
prayin' that tomorrow, everything will be allright,
but tomorrow's fall in number”,
“dici ancora le tue preghiere, tesoro/ vai a letto la sera/ pregando che domani vada tutto bene/ ma i domani sono sempre meno”, inoltre:
You wake up and you're dying
you don't know what from”,
ti svegli e stai morendo/ e non sai nemmeno per cosa.”
Il brano continua osservando come la ragazza sia stata ingannata:
Right between the eyes baby, point blank
right beetween the pretty lies they tell
little girl you fell”,
in sostanza lei ha ricevuto: “Proprio in mezzo agli occhi, un colpo secco/ proprio in mezzo alle graziose bugie che raccontano.”
Così, il ragazzo canta: “Ragazzina, sei caduta.”
Il brano segue la ragazza presumibilmente dal momento dell'adolescenza ed in realtà degradate ed osserva:
“Sei cresciuta dove le ragazze maturano prima.
Hai preso ciò che ti è stato dato
e lasciato quello che chiedevano.
Ma ciò che ti chiedevano non era giusto
non dovevi vivere quella vita.”
Secondo me la ragazza è stata costretta con lusinghe e con minacce ad entrare nel giro della prostituzione.
I was gonna your Romeo you're gonna be my Juliet.
These days you don't wait on Romeo's
you wait on the welfare check
and on all the pretty things you can't ever have
and on all the promises”,
sarei stato il tuo Romeo e tu la mia Giulietta./ Questi giorni non aspetti Romeo,/ aspetti il sussidio di disoccupazione/ e tutte le belle cose che non potrai mai avere/ e tutte le promesse.
Il brano prosegue mentre con voce tesa ed appassionata Springsteen canta di un sogno: capita spesso di farne uno in cui si rivive quell'amore che è ormai morto o che si sta trascinando senza più gioia o bellezza. Bene:
“Una volta sognai che eravamo di nuovo insieme,
amore, tu ed io,
a casa, in quei vecchi locali che frequentavamo una volta,
stavamo al bar
il complesso suonava forte e tu mi urlavi
qualcosa all'orecchio.
Mi strappasti la giacca di dosso e mentre il batterista
contava fino a quattro
afferrasti la mia mano e mi trascinasti
sulla pista.
Stavi lì e mi tenevi poi iniziasti
a ballare lentamente.
E mentre ti stringevo più forte giuravo che non
ti avrei mai lasciata.”
In pochi versi il Jersey Devil,il Diavolo del New Jersey ha creato una realtà molto bella, addirittura struggente. Ma questo che è un sogno, nel momento in cui finisce diventa un incubo: o per essere più precisi, tale diventa quando il ragazzo scopre quale sia la “vita” della ragazza.
“Beh, ti vidi giù al viale.
Il tuo viso era in ombra ma sapevo che eri tu
stavi sotto un portone per ripararti dalla pioggia
quando ti chiamai non rispondesti.
Ti girasti e guardasti lontano,
proprio come uno straniero che aspetta di essere
spazzato via.”
Il punto è che come dice il ragazzo: “Sei stata deformata fino a diventare complice.” Così lei vive una vita che altri hanno scelto per lei ma che ormai ha imparato a considerare “sua.”
E' entrata (certo anche per via della paura) in un giro di cui può essere solo schiava... Anche se per le graziose menzogne che le sono state rifilate, crede ancora che possa esserci un domani migliore. E deve stare attenta perché sta camminando “nel mirino.”
Il riferimento al “mirino” potrebbe non essere causale: una volta Bruce raccontò di una compagna del liceo che gli stava appresso e che era molto scatenata. Poi lei compì una rapina nel corso della quale rimase uccisa... chissà che Point blank non sia una versione di quella storia?
Infatti io ho ipotizzato che la ragazza del brano sia diventata una prostituta, ma potrebbe anche essere entrata in una banda di rapinatori o di ricettatori. Un ambiente nel quale lei non può fare “one false move away”, un passo falso perché arriva un “colpo secco” ed è “morta.”
Comunque il pezzo sottolinea un fatto fondamentale: come le dice il ragazzo: “Did you forget how to love, girl,/ did you forget how to fight”, hai dimenticato come amare, ragazza,/ hai dimenticato come lottare.
A quel punto, lei non potrà far altro che attendere la fine... che arriverà. Prima o poi. E non sarà gloriosa.
Bruce scrisse Point blank nel 1980 quando Reagan e la conseguente disoccupazione crearono ai lavoratori USA non pochi problemi. Point blank si trova nel doppio album in studio The river, disco che denuncia questo malessere anche in brani come quello omonimo, in Jackson cage e forse anche in The price you pay.
In questo quadro, la donna appare come il classico anello debole della catena: non perché lo sia in quanto donna, ma perché deve vivere ed alla fine subire una società che privilegia il danaro, la violenza ed il potere. Ed essendo la donna (soprattutto quella che viene da ambienti degradati) priva di tutto ciò, le sue saranno scelte obbligate.
Certo a questo stato di cose può ribellarsi, ma è molto difficile, quando ti trovi da sola in mezzo ad un viale e ti tengono sotto tiro...

Nota


* Traggo testo originale e traduzione italiana , da me in parte rivista, da Bruce Springsteeen, Tutti i testi con traduzione a fronte, Arcana Editrice, Milano, 1985, pp.180-183.