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venerdì 19 settembre 2014

“Factory girl”, dei Rolling Stones


Il pezzo si trova in Beggars banquet (1968).
Musicalmente parlando, non si tratta di uno dei pezzi migliori delle Pietre Rotolanti. Mi dispiace dir questo perchè (come molti sanno) Keith Richards è mio zio e Ron Wood è mio cugino; Charlie Watts, invece, è mio compare d'anello.
Che io sappia io, e Mick Jagger non siamo parenti, ma lui passa ogni tanto nei pressi del mio condominio... dove dà una mano come imbianchino e fa lavori di giardinaggio; così, lo invito a casa mia per un caffè.
Posso così dire d' essere (tutto sommato) in buoni rapporti col cantante dei Rolling Stones.
Il brano è a tutti gli effetti un pezzo country, ma secondo me quando gli Stones si avventurano in quel campo, lo fanno con finalità satiriche. Infatti in questi casi la voce di Jagger è strascicata e lamentosa come se volesse parodiare il modo di cantare di un cowboy che non riesca a smettere di sbadigliare.
L'accompagnamento musicale (mi riferisco soprattutto ai violini) è molto mieloso e prevedibile. Niente a che vedere, insomma, con la dolente compostezza di Hank Williams, con la grinta del John Fogerty di Blue ridge mountain blues, l'elegante malinconia del Jackson Browne di Late for the sky né col country-rock di Steve Earle ne El corazon.
Mi pare anzi che con la musica di Factory girl gli Stones abbiano voluto prendere in giro il country più sdolcinato e sentimentale. I nostri ripeteranno questa operazione circa 10 anni dopo con Faraway eyes (contenuta in Some girls).
Tuttavia Factory girl presenta un testo molto interessante. In fondo, anche questa è una canzone d'amore: ma sfugge sia al pericolo di un eccessivo romanticismo sia a quello del famoso cinismo stile: “Sdraiati subito qui, baby, così io ti ecc. ecc.”
Intanto, Factory girl significa ragazza operaia. Siamo ben lontani dalle dive del jet-set o dalle classiche sexy bombs.
Il protagonista sta aspettando: “A girl who's got curlers in her hair”, una ragazza che ha i bigodini nei capelli. Inoltre lei non il becco di un quattrino e loro per spostarsi “prendono il bus.” Il bus, mica la limousine.
Non è una bellezza: le sue ginocchia “are too fat”, sono troppo grosse/grasse, non porta cappelli ma sciarpe e: ”Her zipper's broken down the back”, ha la cerniera rotta sulla schiena.
Evidentemente la vita di fabbrica è fatta di costanti sacrifici: quelli che deve fare sempre chi lavora duro e che non permette alla ragazza di atteggiarsi a bambolina o di darsi allo shopping... per il quale, del resto, non avrebbe neanche i soldi.
Lui e lei finiscono spesso per sbronzarsi, forse anche per picchiarsi ed il venerdì sera appunto si ubriacano ma: “She's a sight for sore eyes”, è un balsamo per occhi addolorati.
Il vestito di questa ragazza è pieno di macchie e certo, forse molte delle immagini qui usate dagli Stones sembrano caricaturali: infatti, perché mai una ragazza che lavora in fabbrica dovrebbe essere per forza così trasandata?
Ma anche al di là di questo Factory girl rende questa ragazza, questa giovane operaia davvero simpatica: fa venire voglia di diventarle amico, non solo amante.
Lei ha qualcosa di Ruby Tuesday ma senza la sua aria svagata, senza i suoi sogni e le sue illusioni. Del resto, lei non può certo permettersi di mollare tutto.
Sicuramente ha un affitto da pagare, dei debiti, delle rate, a fine giornata è stanca morta e più in generale, non ha nessun corteggiatore vanesio sempre pronto a regalarle fiori o gioielli. Con Factory girl gli Stones ci hanno presentato una ragazza che sgobba e che non ha tempo né voglia per scherzi o banalità. E' un'operaia. E noi, che come lei dobbiamo sbatterci ogni giorno per trovare o mantenere uno straccio di lavoro, la capiamo e le vogliamo bene.

giovedì 11 settembre 2014

Inseguendo il filo delle nuvole


Oggi 7 luglio 2014, un po' a terra ma non troppo (però abbastanza) decido di fare 2 passi. E per dare una mano alla famiglia, decido anche di fare la spesa.
Inseguendo il filo delle nuvole, ecco che come un autentico cane nutrito a pane ed inchiostro, siedo da qualche parte a scrivere.
Dopo aver fatto la spesa: sarò anche un sognatore, ma con venature made in Berlin... cioè con un dannatissimo senso del dovere.
Rifletto su: Golden days of rock 'n roll (i giorni d'oro del rock) e su Rock 'n roll people di Giovannino Inverno o Johnny Winter che dir si voglia. La gente del rock mi capirà senz'altro.
Cerco di far capire ai miei studenti che l'inchiostro è il miglior sballo che esista. Scrivete e leggete, cari ragazzi e care ragazze: è tutto quello che il vostro quasi-anziano professore può dirvi. Non c'è vino, non c'è birra, tequila, whisky, cognac o spinello che regga il confronto col magico e benedetto inchiostro!
Se vi piace quello informatico o webberistico, fatevi anche di quello: perfino su quegli schermi luccicanti e tremolanti potete trovare un po' di bellezza e di verità.
E così sono decisamente sprofondato nei panni del professore anzianamente vecchio, giusto?
Vero Peter Pan ora ex-panciuto inseguo il filo delle nuvole e penso a come la gente sia cambiata... non direi in meglio: ma sembra proprio che questo sia considerato segno di modernità... il fatto cioè che molti si trasformino in volgarissime banderuole.
Così dribblo l'amarezza e decido di affidarmi ai riffs di chitarra di Lou Reed. Francamente, questa mi sembra la scelta più saggia.
Ah, sapete? Desidero esplorare la New York olandese del 1600: come mappa, il romanzo di Jean Zimmerman Il rituale dei bambini perduti va benissimo.
Ho in testa: Walkin' degli Outlaws, grande disco di musica country con poche ma ottime spruzzate di blues e rock ma entrambi non molto elettrici. Oggi rimugino su questo grande verso: “Walkin' is better than runnin' away and crawlin' ain't no good at all”, cioè: “ Camminare è meglio che correre via (scappare) e strisciare non va bene per niente.
Inoltre mi rimbombano nell'anima: New York City serenade di Springsteen e della “E” Street band;
Like a rolling stone di Dylan;
una versione rock di Milord che prima o poi scriverò io.
Sono quasi le 20 e torno a casa, forse ho trovato uno spago per legare la coda alle nuvole...
Ah, ein moment, bitte, one moment, please: devo ascoltare Berlin schmerzst del rocker olandese Herman Brood e stabilire se sia bella quanto la Berlin di Lou Reed.
Bene, care mie e cari miei, per oggi quanto avete letto è buona parte di quello che volevo dirvi.
Ora torno a casa e quel che non ho detto è rimasto nella penna: ma solo perché il mio scalcagnato e scosciatissimo inconscio ha deciso di tenerlo per sé.
Aggiungo solo una piccola, modesta ma non insignificante cosetta: oggi 7 luglio 2000 eccetera le nuvole involgono Cagliari come cellophane, perfino al confine con Selargius.
Ma purtroppo, io non ho un tappeto volante per tagliare la corda. E neanche un gancio per afferrare il filo delle nuvole.

P.s.: ovviamente, so che oggi non è il 7 luglio duemila eccetera.