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lunedì 7 aprile 2014

Cenni riassuntivi su Roosevelt*


Roosevelt apparteneva ad un'antica famiglia statunitense d'origine olandese: il suo primo antenato (Claese Van Rosenvelt) si stabilì in quelli che diventarono i Nuovi Paesi Bassi ed a Nuova Amsterdam (rispettivamente gli attuali Stati Uniti e l'attuale New York) nella prima metà del Seicento.
Gli antenati di Roosevelt ricoprirono fin da allora nel “Nuovo Mondo” prestigiosi incarichi direttivi in campo politico ed economico-amministrativo, così quando egli decise d'occuparsi di politica, fece questa scelta come membro di un'èlite storicamente molto importante ed influente.
Del resto, Roosevelt avrebbe potuto optare per una carriere prestigiosa e vantaggiosa almeno quanto quella politica come per esempio quella forense, dato che nel 1908 (ad appena 26 anni) entrò nel “prestigioso studio legale Carter, Ladyard & Milburn.”1
Egli scelse invece la carriera politica e nel 1910, a soli 28 anni fu eletto senatore per lo Stato di New York.
Ma il suo compito di presidente degli USA fu davvero complesso: il Paese era infatti devastato da una crisi economico-sociale senza precedenti: “I mesi intercorsi tra le elezioni (novembre 1932) e l'insediamento del neo-eletto (marzo 1933) furono durissimi per il popolo americano: quindici milioni di lavoratori erano disoccupati, sei milioni di agricoltori erano schiacciati da 10 miliardi di debiti ipotecari, cinquemila banche erano chiuse, gli investimenti industriali erano crollati a 74 milioni di dollari dal miliardo del 1929.”2
Ma la crisi non aveva travolto solo l'economia, aveva compromesso anche la credibilità delle maggiori istituzioni politiche.
“Racconta uno storico americano che Hoover, recatosi a Detroit, il maggior centro della produzione automobilistica americana, per un comizio”, dovette assistere a questo penoso spettacolo: “Nella città dell'automobile per chilometri la macchina presidenziale sfilò tra due ali di gente cupa e silenziosa; quando Hoover si alzò a parlare, la sua faccia era terrea, le mani gli tremavano. Verso la fine della campagna era ormai una figura patetica, un uomo stanco, avvilito, fischiato dalla folla come nessun presidente era mai stato.”3
Così l'azione di Roosevelt fu economica ma nello stesso tempo di tipo politico-morale: egli non si limitò a constatare la crisi ma varò una serie di attività che produssero un “ampio piano di lavori pubblici finanziati dallo Stato”, portò ad un “aumento dei salari”, fissazione di “prezzi minimi dei prodotti”, “riconoscimento di sindacati nelle aziende” ecc.4
Il tutto abbatté il tasso di disoccupazione, modernizzò il Paese e favorì la ripresa economica: infatti tra i lavoratori il prestigio di Roosevelt raggiunse livelli che fino a quel momento non si erano ancora visti... e che non lo sarebbero stati neanche in seguito, se egli fu l'unico presidente americano rieletto per più di due mandati consecutivi.
Inoltre, egli non arrivò “solo” a sconfiggere speculazione e disoccupazione: questo perché Roosevelt scorse lucidamente la radice di quei mali.
Come dichiarò fin dal suo discorso di insediamento: “A colpirci non è un'avversità naturale, come il flagello delle cavallette.” Nel denunciare la crisi egli disse: “Principalmente questo succede perché chi aveva il controllo degli scambi commerciali dell'umanità ha fallito per la propria pervicacia e la propria incompetenza.”5
La crisi dipende quindi dall'azione dell'uomo; soprattutto da quella di uomini che hanno pensato solo alle “regole di una generazione di egoisti. Non hanno lungimiranza, e quando non c'è lungimiranza il popolo va in rovina.” Roosevelt puntò quindi sull'applicazione di “valori sociali più nobili del mero profitto monetario.”6
Quei valori non si basavano né su discorsi astrattamente morali né su ricette aridamente tecniche ma su qualcosa di molto valido e pratico: per esempio sul rifiuto dell'idea che la “ricchezza materiale” debba essere “parametro di successo.”
I valori in questione si basavano poi sull'abbandono della “falsa credenza che le cariche pubbliche e gli incarichi politici siano da valutare solamente con il metro dell'orgoglio per un posto prestigioso e del profitto personale.”7
Superando poi la tradizionale politica economica americana, egli varò una “stretta supervisione su tutte le attività bancarie, del credito e degli investimenti”; dichiarò inoltre che si doveva “porre termine alla speculazione fatta con il denaro altrui.”8
Come visto, il programma del Nostro era piuttosto concreto ed anche se fu duramente osteggiato da quel mondo finanziario che peraltro aveva determinato la crisi, appunto il programma rooselveltiano trasse gli USA fuori da essa.
In questo quadro risultarono preziosi anche gli studi e le riflessioni in campo economico di Keynes e comunque: “L'età della libera attività economica, intesa almeno nel senso ottocentesco, e della fiducia nei meccanismi spontanei del mercato poteva allora dirsi definitivamente conclusa anche sul piano teorico.”9
Del resto, Roosevelt aveva ben capito in seguito al crack di Wall Street come una fiducia acritica (e per alcuni spesso interessata) in un mercato lasciato privo di qualsiasi controllo, causasse inevitabilmente crisi economica, disoccupazione, inflazione, forti tensioni sociali ecc.
Non poteva quindi darsi altra soluzione che non fosse ispirata a valori di solidarietà, di controllo e di equità sociale. Per questo, probabilmente, molte delle soluzioni rooselveltiane mantengono una loro validità anche al giorno d'oggi.
L'alternativa a tutto questo, cioè l'affidarsi senza riserve ad un'economia da intendersi come al di sopra di qualsiasi regola o legge, ricorda invece l'immagine di quella “società borghese che ha evocato come per incanto così colossali mezzi di produzione e di scambio”, ma che poi “rassomiglia allo stregone che si trovi impotente a dominare le potenze sotterranee che lui stesso abbia invocate.”10

Note

* Questo brano fa parte di un mio saggio ancora inedito dal titolo Dinamiche e prospettive dello Stato sociale.

 1 Franklin Delano Roosevelt, Superare la crisi economica: il New Deal, Gruppo editoriale L'Espresso,     Roma, 2011, p. 11.
 2 Rosario Villari, Storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1978, p.492.
 3 R. Villari, Storia contemporanea, op. cit., pp.492-493.
 4 R. Villari, op. cit., p.493.
 5 F. D. Roosevelt, Superare la crisi economica, op. cit., 19.
 6 F. D. Roosevelt, op. cit., p.21.
 7 F. D. Roosevelt, op. cit., pp. 21 e 23.
 8 F. D. Roosevelt, op. cit., p. 25.
 9 R. Villari, Storia contemporanea, op. cit., p.495.
10 Karl Marx Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista (1848), Tascabili economici Newton,         Roma, 1994, p.23. Traduzione di Antonio Labriola. Nel citare questo celeberrimo brano, non si intende       evidentemente assimilare la figura e l'opera di Roosevelt a quella del movimento operaio, dal quale il             presidente statunitense si mantenne in effetti sempre lontano.