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giovedì 28 febbraio 2013

La dolce Molly Malone


Molly Malone è un famoso pezzo irlandese che a me piace molto, noto anche come Cockles and mussels (arselle e cozze). Io conosco il brano in questione grazie all'esecuzione del gruppo folk The dubliners.
Di solito si attribuisce la paternità della canzone allo scozzese (dell'800) James Yorkston; qualcuno pensa che con essa intendesse deridere gli irlandesi che emigrarono appunto in Scozia durante una devastante crisi economica.
Ma come vedremo, l'intenzione (di per sé spregevole) ha ottenuto l'effetto contrario. Chi ascolti la canzone col cuore solidarizzerà con Molly e col suo destino.
Ora, probabilmente non è mai esistita una ragazza come quella cantata da Yorkston. Le fonti storiche registrano una M.M. che sarebbe morta di febbre tifoide a fine '600, ma non pare che dicano molto altro.
A Dublino, per l'esattezza a Grafton Street, esiste una statua dedicata appunto a Molly e mi è stato assicurato da persone che hanno vissuto e lavorato in quella città che laggiù il brano è cantato (e con forte trasporto) praticamente da tutti.
La questione storica cioè quella che riguarda la reale esistenza di Molly, beh, quella non interessa granché: in casi come questi contano l'aspetto poetico e quello romantico. E secondo me, in un mondo dannatamente storto, spigoloso, spinoso ed insomma ingiusto come questo, il romanticismo non è poi il peggiore dei mali.
Bene, la canzone è una ballata ed i Dubliners accompagnano il cantato con una o due chitarre acustiche; forse anche con un banjo ed un violino (o almeno, io ce li metterei).
Il giorno di S. Patrizio, io, Little Steven, Elliott Murphy, Van Morrison, Elvis Costello e Grace Slick l'abbiamo eseguita in versione folk-rock. Doveva accompagnarci al tamburello Dolores O' Riordan, ma purtroppo quella sera doveva andare nel bosco a raccogliere mirtilli. Ma vedo che sto divagando o che addirittura, non mi credete... perciò proseguiamo.
Celeberrimo l'inizio del pezzo: “In Dublin's Fair City/ when the girls are so pretty/ I firts set my eyes on sweet Molly Malone, nella bella città di Dublino/ dove le ragazze sono tanto carine/ posai per prima lo sguardo sulla dolce Molly Malone.
Il brano prosegue dicendo che lei conduceva un carretto attraverso ampie e strette strade gridando: “Cockles and mussels alive, alive, o!, arselle e cozze fresche!
Molly era quindi una “fishmonger”, una pescivendola e come aggiunge la canzone, di questo non dobbiamo meravigliarci: lo furono prima di lei già suo padre e sua madre.
Lei apparteneva quindi ad una classe di lavoratori che cercava di sbarcare il lunario in qualche modo. Inoltre, dal brano si potrebbe ipotizzare che alcuni di loro mancassero di un posto di lavoro stabile, o che ne fossero esclusi... come per esempio da un box al mercato del pesce.
A quei lavoratori, che potremmo definire itineranti, occasionali, avventizi ecc. mancava (ovviamente, parliamo di tanto tempo fa!) qualsiasi garanzia di tipo economico, sociale e sanitario; infatti l'ultima strofa dice: “She died for a fever/ and no one could save her, morì di febbre/ non avrebbe potuto salvarla nessuno.
La fine di Molly ricorda un po' quella di Michael Furey, un povero “ragazzo che lavorava nell'azienda del gas”, che nel racconto di Joyce I morti amava Gretta, futura moglie di Gabriel Conroy.
Sia Molly che Michael appartengono a quella schiera di umili lavoratori per i quali esisteva solo una vita fatta di sfibranti sacrifici, malattie e duro lavoro: fino alla morte.
La canzone termina infatti così: “But her ghost wheels her barrow/ through the streets broad and narrow/ crying cockles and mussels alive, alive o!, ma il suo fantasma conduce il suo carretto/ attraverso le ampie e strette strade/ gridando arselle e cozze fresche!
Insomma, Molly non trova pace neanche da morta, continua a vagare per le strade di quella Dublino che aveva già percorso tante volte e con ogni clima, quando cercava di guadagnarsi almeno il necessario per vivere.
Joyce, nel Portrait of the artist as a young man (Ritratto dell'artista da giovane, da noi tradotto spesso solo come Dedalus) sostiene che gli irlandesi sarebbero “sentimentali.”
Non saprei: non ho mai conosciuto un irlandese o una irlandese di persona
Sempre gli irlandesi, che in letteratura sanno essere dei gran burloni come Flann O' Brien; o che possiedono come lo stesso Joyce una forte inclinazione per la satira e la parodia; o che come Beckett, possiedono uno spirito piuttosto amaro e caustico, ebbene, essi hanno fornito della vicenda della povera Molly anche interpretazioni molto meno romantiche... che però ora tralascio per non guastare la magia del brano.
Che dire? Molly e Michael appartengono ad un mondo di fantasia tuttavia non lontano dalla realtà: per me sono simboli di fatiche e dolori che torturarono, per generazioni, un'infinità di uomini e donne.
Ne I morti, a G. Conroy pare di vedere Michael e tante altre “figure”, anche queste di morti.
Il brano di Yorkston continua a tenere viva, pur attraverso la sua esistenza di spettro, la voce e la persona della “dolce Molly Malone”... e la semplice ma incisiva melodia del brano rende il tutto molto malinconico, anche struggente... ma nello stesso tempo, quasi confortante.
Ora vado a studiarmi il pezzo con l'armonica.
Ci vediamo!

giovedì 21 febbraio 2013

La discussione filosofica (riepilogo)*


Poiché questi articoletti arrivano a distanza anche di mesi l'uno dall'altro, oggi riassumerò le precedenti parti o “puntate.”
Nella 1/a ho affrontato il problema di quella che ho definito “ipertrofia dell'io” (o anche “autoesaltazione”) di cui spesso soffrono molti filosofi. Si tratta della convinzione, bizzarramente sostenuta e difesa da molti di loro, d'essere i soli ad aver ragione.
Concludevo però che denunciare o almeno documentare questo narcisismo intellettuale non significa svalutare completamente né la “personalità dei singoli filosofi, né l'esito delle loro ricerche.”
Infatti, purtroppo questi due pericoli esistono sempre: è facile attaccare certi vizi o difetti sì da gettare determinati pensatori in una sorta di pattumiera della cultura.
E' facile, certo... ma così non si entra nel merito della filosofia di uomini spesso geniali o che comunque devono essere criticati da un punto di vista essenzialmente filosofico.
Nalla 2/a sottolineavo quanto la dimensione dell'io e la personalità del philosophus siano importanti, spesso decisive. Sottolineavo altresì quanto (anche per il philosophus, certo!) sia importante il mondo delle emozioni: ragionavo su quanto conti qualcosa che probabilmente racchiude altre realtà ed emozioni come per es. l'amore.
Riferendomi soprattutto alla figura dello scrittore statunitense dell'800 Hawthorne, nella 3/a spiegavo come l'amore possa salvare l'essere umano dal pericolo del solipsismo, intendendo con questo termine la credenza che un un individuo può coltivare d'esistere, al mondo, solo lui.
Nella 4/a parte sviluppavo l'esame del solipsismo, che in epoca moderna è stato teorizzato soprattutto da Schopenhauer. Mi collegavo così a Poe, che visse quella credenza con un senso d'angoscia, di lacerazione interiore quindi di serietà esistenziale che forse Schopenhauer non provò mai.
Nella figura poi del Dedalus di Joyce, il solipsismo sfocia nell'hybris (tracotanza) di tipo greco; il che, nella versione cristiano-cattolica è poi la ribellione di Satana a Dio.
Nell'uomo questa ribellione è quella dell'artista, che nella creazione e diffusione della sua opera rifiuta qualsiasi legame o responsabilità di tipo morale, familiare, sociale ecc.
Nella 5/a spiegavo come anche questa ribellione o rivolta, che in Joyce o comunque nell'artista che spezzi ogni legame si presenta come autoliberazione, possa però contenere forti scrupoli morali e notevoli ansie di tipo esistenziale. C'è insomma il classico prezzo da pagare...
Nella 6/a ho cercato d'evidenziare quanto la passionalità e talvolta eccessiva emotività dell'artista possano “captare e decifrare la natura intrinsecamente complessa del mondo.”
Strano? Forse. Ma non meno di quanto lo sia appunto il mondo. Anche senza seguire fino in fondo l'Aristofane che disse: “Il caos regna sovrano”, resta comunque il fatto che il mondo ed anche la conoscenza di noi stessi sono intessuti di contraddizioni, oscurità, verità parziali, equivoci e non di rado, anche di vere e proprie assurdità.
Allora a me sembra piuttosto sensato pensare che tutto ciò possa essere se non del tutto chiarito, almeno validamente affrontato da chi nella contraddizione, nell'oscurità ecc. vive: appunto dall'artista. Chissà che opporre al caos dell'altro caos non possa essere un buon sistema per arrivare all'armonia!
Del resto, spesso è arduo fidarsi dei filosofi: di fronte all'incertezza delle loro analisi ed alla problematicità delle loro soluzioni, si sarebbe tentati di pensarla come il poeta Kurt Tucholsky. Egli, infatti, parla di una “cesta piena di filosofi”, che una volta letti vorresti mettere “tra i ferrivecchi”, per ripetere dentro di te: “Non ne sanno niente. Non ne sanno niente.”1
Ancora: come possono certi discettare per delle ore (o per centinaia di pagine) di dubbio, angoscia, scelta, dramma dell'esistenza ecc. quando la loro è una vita di tranquilli e ben pagati professori universitari?2
A quel punto non sarebbe meglio rivolgersi a Cechov, Gogol, Dylan Thomas, Dostoevskij e tanti altri poeti e romanzieri... se non “darsi” addirittura ai mistici?
Ma senza accantonare questi dubbi e spesso anche una certa irritazione, dobbiamo però dire che la filosofia, diversamente dalla letteratura e dall'arte in genere non può permettersi di fantasticare o di scherzare: neanche in modo grottesco. Del resto, anche se per Pascal: “Burlarsi della filosofia è veramente filosofare”3, poi non mi risulta che quello spunto sia mai stato seguito (dai filosofi) in modo significativo.
Né la filosofia può sperare nelle consolazioni della mistica: perfino tra i pensatori di ispirazione religiosa come per es. S. Agostino, Abelardo, Pascal e Kierkegaard serpeggia un sentimento di dubbio, talvolta anche d'angoscia.
La filosofia, che per me è vitale quando è non pensiero “puro”, slegato quindi dal rapporto con altri esseri umani (come se fosse quello di un dio che vive lontano dal nostro mondo) bensì discussione filosofica, bene, quel tipo di filosofia è una sorta di tela di Penelope4: qualcosa quindi che deve essere continuamente fatto e disfatto... perché le conclusioni a cui arriva anche se potrebbero essere certe e definitive, non lo sono mai per tutti.
Ed anche quando le conclusioni di cui sopra potrebbero essere certe e definitive per tutti, magari si può trovare un modo per renderle più chiare, certe ecc.
La filosofia intesa quindi come discussione e come dialogo deve rientrare all'interno di un quadro razionale...
Ma come vedremo, la razionalità di questa filosofia non può né deve essere ridotta alla sola logica ed al solo principio di non contraddizione, che sono invece fondamentali in matematica, in geometria e nelle varie scienze
Nella 7/a parte illustravo sia il “rovescio della medaglia” della creazione artistica: un complesso insieme di autosuggestione, irrazionalismo, amore da parte dell'artista per il lato ludico del proprio lavoro, sia il suo lato positivo... vale a dire l'irripetibilità dell'opera d'arte ed il porsi l'artista oltre la dimensione logica e pratico-dimostrativa.
Beninteso, questo è solo un riepilogo, non l'epilogo di questo post in più parti, che infatti ne prevederà delle altre. Alla prossima, quindi!


* Ho pubblicato su questo blog le precedenti parti di questo post rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011; la 6/a il 15/11/2012; la 7/a l'8/12/2012.

Note  

1. Helmut Gollwitzer, Tredicesima lezione, in H. Gollwitzer Wilhelm Weischedel, Credere e pensare. Due prospettive a confronto (1965), Marietti, Genova, 1982, p.275
2. Cfr. Remo Cantoni, Kierkegaard e la vita etica, in Soeren Kierkegaard, Aut aut (1956), Mondadori “Oscar”, Milano, 1984, p.28.  
3.  Blaise Pascal, I pensieri, Edipem, Novara, 1984, 4, p.17.
4. G. W. F. Hegel, Prefazione a Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1979, p.4. L'immagine è stata ripresa anche da altri: cfr. Pietro Piovani, Indagini di storia della filosofia. Incontri e confronti, Liguori, Napoli, 2006, p.169. Se non erro, il Piovani utilizzò questa immagine anche in un altro testo; cfr. P. Piovani, Principi di una filosofia della morale, Morano Editore, Napoli, 1972. Al momento non saprei però indicare con precisione la pagina relativa appunto all'immagine citata.