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giovedì 28 febbraio 2013

La dolce Molly Malone


Molly Malone è un famoso pezzo irlandese che a me piace molto, noto anche come Cockles and mussels (arselle e cozze). Io conosco il brano in questione grazie all'esecuzione del gruppo folk The dubliners.
Di solito si attribuisce la paternità della canzone allo scozzese (dell'800) James Yorkston; qualcuno pensa che con essa intendesse deridere gli irlandesi che emigrarono appunto in Scozia durante una devastante crisi economica.
Ma come vedremo, l'intenzione (di per sé spregevole) ha ottenuto l'effetto contrario. Chi ascolti la canzone col cuore solidarizzerà con Molly e col suo destino.
Ora, probabilmente non è mai esistita una ragazza come quella cantata da Yorkston. Le fonti storiche registrano una M.M. che sarebbe morta di febbre tifoide a fine '600, ma non pare che dicano molto altro.
A Dublino, per l'esattezza a Grafton Street, esiste una statua dedicata appunto a Molly e mi è stato assicurato da persone che hanno vissuto e lavorato in quella città che laggiù il brano è cantato (e con forte trasporto) praticamente da tutti.
La questione storica cioè quella che riguarda la reale esistenza di Molly, beh, quella non interessa granché: in casi come questi contano l'aspetto poetico e quello romantico. E secondo me, in un mondo dannatamente storto, spigoloso, spinoso ed insomma ingiusto come questo, il romanticismo non è poi il peggiore dei mali.
Bene, la canzone è una ballata ed i Dubliners accompagnano il cantato con una o due chitarre acustiche; forse anche con un banjo ed un violino (o almeno, io ce li metterei).
Il giorno di S. Patrizio, io, Little Steven, Elliott Murphy, Van Morrison, Elvis Costello e Grace Slick l'abbiamo eseguita in versione folk-rock. Doveva accompagnarci al tamburello Dolores O' Riordan, ma purtroppo quella sera doveva andare nel bosco a raccogliere mirtilli. Ma vedo che sto divagando o che addirittura, non mi credete... perciò proseguiamo.
Celeberrimo l'inizio del pezzo: “In Dublin's Fair City/ when the girls are so pretty/ I firts set my eyes on sweet Molly Malone, nella bella città di Dublino/ dove le ragazze sono tanto carine/ posai per prima lo sguardo sulla dolce Molly Malone.
Il brano prosegue dicendo che lei conduceva un carretto attraverso ampie e strette strade gridando: “Cockles and mussels alive, alive, o!, arselle e cozze fresche!
Molly era quindi una “fishmonger”, una pescivendola e come aggiunge la canzone, di questo non dobbiamo meravigliarci: lo furono prima di lei già suo padre e sua madre.
Lei apparteneva quindi ad una classe di lavoratori che cercava di sbarcare il lunario in qualche modo. Inoltre, dal brano si potrebbe ipotizzare che alcuni di loro mancassero di un posto di lavoro stabile, o che ne fossero esclusi... come per esempio da un box al mercato del pesce.
A quei lavoratori, che potremmo definire itineranti, occasionali, avventizi ecc. mancava (ovviamente, parliamo di tanto tempo fa!) qualsiasi garanzia di tipo economico, sociale e sanitario; infatti l'ultima strofa dice: “She died for a fever/ and no one could save her, morì di febbre/ non avrebbe potuto salvarla nessuno.
La fine di Molly ricorda un po' quella di Michael Furey, un povero “ragazzo che lavorava nell'azienda del gas”, che nel racconto di Joyce I morti amava Gretta, futura moglie di Gabriel Conroy.
Sia Molly che Michael appartengono a quella schiera di umili lavoratori per i quali esisteva solo una vita fatta di sfibranti sacrifici, malattie e duro lavoro: fino alla morte.
La canzone termina infatti così: “But her ghost wheels her barrow/ through the streets broad and narrow/ crying cockles and mussels alive, alive o!, ma il suo fantasma conduce il suo carretto/ attraverso le ampie e strette strade/ gridando arselle e cozze fresche!
Insomma, Molly non trova pace neanche da morta, continua a vagare per le strade di quella Dublino che aveva già percorso tante volte e con ogni clima, quando cercava di guadagnarsi almeno il necessario per vivere.
Joyce, nel Portrait of the artist as a young man (Ritratto dell'artista da giovane, da noi tradotto spesso solo come Dedalus) sostiene che gli irlandesi sarebbero “sentimentali.”
Non saprei: non ho mai conosciuto un irlandese o una irlandese di persona
Sempre gli irlandesi, che in letteratura sanno essere dei gran burloni come Flann O' Brien; o che possiedono come lo stesso Joyce una forte inclinazione per la satira e la parodia; o che come Beckett, possiedono uno spirito piuttosto amaro e caustico, ebbene, essi hanno fornito della vicenda della povera Molly anche interpretazioni molto meno romantiche... che però ora tralascio per non guastare la magia del brano.
Che dire? Molly e Michael appartengono ad un mondo di fantasia tuttavia non lontano dalla realtà: per me sono simboli di fatiche e dolori che torturarono, per generazioni, un'infinità di uomini e donne.
Ne I morti, a G. Conroy pare di vedere Michael e tante altre “figure”, anche queste di morti.
Il brano di Yorkston continua a tenere viva, pur attraverso la sua esistenza di spettro, la voce e la persona della “dolce Molly Malone”... e la semplice ma incisiva melodia del brano rende il tutto molto malinconico, anche struggente... ma nello stesso tempo, quasi confortante.
Ora vado a studiarmi il pezzo con l'armonica.
Ci vediamo!

giovedì 21 febbraio 2013

La discussione filosofica (riepilogo)*


Poiché questi articoletti arrivano a distanza anche di mesi l'uno dall'altro, oggi riassumerò le precedenti parti o “puntate.”
Nella 1/a ho affrontato il problema di quella che ho definito “ipertrofia dell'io” (o anche “autoesaltazione”) di cui spesso soffrono molti filosofi. Si tratta della convinzione, bizzarramente sostenuta e difesa da molti di loro, d'essere i soli ad aver ragione.
Concludevo però che denunciare o almeno documentare questo narcisismo intellettuale non significa svalutare completamente né la “personalità dei singoli filosofi, né l'esito delle loro ricerche.”
Infatti, purtroppo questi due pericoli esistono sempre: è facile attaccare certi vizi o difetti sì da gettare determinati pensatori in una sorta di pattumiera della cultura.
E' facile, certo... ma così non si entra nel merito della filosofia di uomini spesso geniali o che comunque devono essere criticati da un punto di vista essenzialmente filosofico.
Nalla 2/a sottolineavo quanto la dimensione dell'io e la personalità del philosophus siano importanti, spesso decisive. Sottolineavo altresì quanto (anche per il philosophus, certo!) sia importante il mondo delle emozioni: ragionavo su quanto conti qualcosa che probabilmente racchiude altre realtà ed emozioni come per es. l'amore.
Riferendomi soprattutto alla figura dello scrittore statunitense dell'800 Hawthorne, nella 3/a spiegavo come l'amore possa salvare l'essere umano dal pericolo del solipsismo, intendendo con questo termine la credenza che un un individuo può coltivare d'esistere, al mondo, solo lui.
Nella 4/a parte sviluppavo l'esame del solipsismo, che in epoca moderna è stato teorizzato soprattutto da Schopenhauer. Mi collegavo così a Poe, che visse quella credenza con un senso d'angoscia, di lacerazione interiore quindi di serietà esistenziale che forse Schopenhauer non provò mai.
Nella figura poi del Dedalus di Joyce, il solipsismo sfocia nell'hybris (tracotanza) di tipo greco; il che, nella versione cristiano-cattolica è poi la ribellione di Satana a Dio.
Nell'uomo questa ribellione è quella dell'artista, che nella creazione e diffusione della sua opera rifiuta qualsiasi legame o responsabilità di tipo morale, familiare, sociale ecc.
Nella 5/a spiegavo come anche questa ribellione o rivolta, che in Joyce o comunque nell'artista che spezzi ogni legame si presenta come autoliberazione, possa però contenere forti scrupoli morali e notevoli ansie di tipo esistenziale. C'è insomma il classico prezzo da pagare...
Nella 6/a ho cercato d'evidenziare quanto la passionalità e talvolta eccessiva emotività dell'artista possano “captare e decifrare la natura intrinsecamente complessa del mondo.”
Strano? Forse. Ma non meno di quanto lo sia appunto il mondo. Anche senza seguire fino in fondo l'Aristofane che disse: “Il caos regna sovrano”, resta comunque il fatto che il mondo ed anche la conoscenza di noi stessi sono intessuti di contraddizioni, oscurità, verità parziali, equivoci e non di rado, anche di vere e proprie assurdità.
Allora a me sembra piuttosto sensato pensare che tutto ciò possa essere se non del tutto chiarito, almeno validamente affrontato da chi nella contraddizione, nell'oscurità ecc. vive: appunto dall'artista. Chissà che opporre al caos dell'altro caos non possa essere un buon sistema per arrivare all'armonia!
Del resto, spesso è arduo fidarsi dei filosofi: di fronte all'incertezza delle loro analisi ed alla problematicità delle loro soluzioni, si sarebbe tentati di pensarla come il poeta Kurt Tucholsky. Egli, infatti, parla di una “cesta piena di filosofi”, che una volta letti vorresti mettere “tra i ferrivecchi”, per ripetere dentro di te: “Non ne sanno niente. Non ne sanno niente.”1
Ancora: come possono certi discettare per delle ore (o per centinaia di pagine) di dubbio, angoscia, scelta, dramma dell'esistenza ecc. quando la loro è una vita di tranquilli e ben pagati professori universitari?2
A quel punto non sarebbe meglio rivolgersi a Cechov, Gogol, Dylan Thomas, Dostoevskij e tanti altri poeti e romanzieri... se non “darsi” addirittura ai mistici?
Ma senza accantonare questi dubbi e spesso anche una certa irritazione, dobbiamo però dire che la filosofia, diversamente dalla letteratura e dall'arte in genere non può permettersi di fantasticare o di scherzare: neanche in modo grottesco. Del resto, anche se per Pascal: “Burlarsi della filosofia è veramente filosofare”3, poi non mi risulta che quello spunto sia mai stato seguito (dai filosofi) in modo significativo.
Né la filosofia può sperare nelle consolazioni della mistica: perfino tra i pensatori di ispirazione religiosa come per es. S. Agostino, Abelardo, Pascal e Kierkegaard serpeggia un sentimento di dubbio, talvolta anche d'angoscia.
La filosofia, che per me è vitale quando è non pensiero “puro”, slegato quindi dal rapporto con altri esseri umani (come se fosse quello di un dio che vive lontano dal nostro mondo) bensì discussione filosofica, bene, quel tipo di filosofia è una sorta di tela di Penelope4: qualcosa quindi che deve essere continuamente fatto e disfatto... perché le conclusioni a cui arriva anche se potrebbero essere certe e definitive, non lo sono mai per tutti.
Ed anche quando le conclusioni di cui sopra potrebbero essere certe e definitive per tutti, magari si può trovare un modo per renderle più chiare, certe ecc.
La filosofia intesa quindi come discussione e come dialogo deve rientrare all'interno di un quadro razionale...
Ma come vedremo, la razionalità di questa filosofia non può né deve essere ridotta alla sola logica ed al solo principio di non contraddizione, che sono invece fondamentali in matematica, in geometria e nelle varie scienze
Nella 7/a parte illustravo sia il “rovescio della medaglia” della creazione artistica: un complesso insieme di autosuggestione, irrazionalismo, amore da parte dell'artista per il lato ludico del proprio lavoro, sia il suo lato positivo... vale a dire l'irripetibilità dell'opera d'arte ed il porsi l'artista oltre la dimensione logica e pratico-dimostrativa.
Beninteso, questo è solo un riepilogo, non l'epilogo di questo post in più parti, che infatti ne prevederà delle altre. Alla prossima, quindi!


* Ho pubblicato su questo blog le precedenti parti di questo post rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011; la 6/a il 15/11/2012; la 7/a l'8/12/2012.

Note  

1. Helmut Gollwitzer, Tredicesima lezione, in H. Gollwitzer Wilhelm Weischedel, Credere e pensare. Due prospettive a confronto (1965), Marietti, Genova, 1982, p.275
2. Cfr. Remo Cantoni, Kierkegaard e la vita etica, in Soeren Kierkegaard, Aut aut (1956), Mondadori “Oscar”, Milano, 1984, p.28.  
3.  Blaise Pascal, I pensieri, Edipem, Novara, 1984, 4, p.17.
4. G. W. F. Hegel, Prefazione a Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1979, p.4. L'immagine è stata ripresa anche da altri: cfr. Pietro Piovani, Indagini di storia della filosofia. Incontri e confronti, Liguori, Napoli, 2006, p.169. Se non erro, il Piovani utilizzò questa immagine anche in un altro testo; cfr. P. Piovani, Principi di una filosofia della morale, Morano Editore, Napoli, 1972. Al momento non saprei però indicare con precisione la pagina relativa appunto all'immagine citata.

sabato 19 gennaio 2013

Amsterdam o Amster-dam?


Quest’estate ho visitato l’Olanda e le Fiandre. Si è trattato di posti stupendi, che spero proprio di rivedere… un giorno o l’altro.
Amsterdam, poi, è un sogno. E’ una città che con quella profusione di canali che vanno di qua e di là, canali che serpeggiano ma senza incrociarsi (o che se lo fanno, lo fanno in modo molto razionale ed armonioso) mi fa pensare a Bach. Una città-sinfonia, la capitale olandese… mica scherzo.
Certo, all’inizio rischi un po’ di confonderti: infatti, la cartina della città ti segnala il canale ed anche la via, che se ho capito bene vanno in parallelo.
Mi spiego: in neerlandese (la lingua che parlano in Olanda e nelle Fiandre) canale si dice gracht e via, straat. Evidente, nel 2° caso, la vicinanza con l’inglese street ed anche (ma meno) col tedesco strasse.
Quindi, a meno che negli ultimi 10 minuti non ti sia bevuto 5 o 6 birre, se cerchi il Koninkgracht è sufficiente che non lo confonda con la Koninkstraat. Perché in quest’ultimo caso raggiungi la “strada del re” e non il “canale del re.”
Certo, l’assonanza dei 2 termini può confondere... ma allora non c’è altro da fare che continuare a consultare ed a leggere la cartina, senza fidarsi troppo dei suoni. Nei giorni da noi trascorsi ad Amsterdam, infatti, non ci siamo mai persi (nonostante qualche momento labirintico).
Insomma, ad A’dam puoi girare come se stessi esplorando le tue tasche… la città presenta poi il vantaggio di non essere bucata appunto come le mie tasche.
Ad A’dam se non parli neerlandese (io non lo parlo più da quando ho smesso di accompagnare Spinoza nei pubs)  è oltremodo consigliato l’inglese, che parlano in parecchi. Io un po’ lo parlo, o almeno vedo che quando lo bofonchio, mi capiscono. Spero…
Nella capitale olandese ho tenuto il mio francese in naftalina, anche se penso che lo parlino almeno le persone dai 50 anni in su; ohi, la mia età!
Tempo fa ho frequentato un corso di tedesco, ma in Nederland non ho messo alla prova la mia conoscenza della lingua di Goethe, conoscenza che giudico ancora acerba.
In generale, gli amsterdamesi sono riservati ma gentili. Qualcuno mi ha detto che sono anche tirchiotti; non saprei. Certo è un po’ seccante dover pagare ogni volta che ti serve il bagno: ma spesso questo capita anche a Parigi.
La città è pulitissima, pulita in modo quasi intimidatorio, come diceva Erica Jong in Paura di volare a proposito di Vienna; inoltre, non si sente mai urlare né parlare a voce appena un po’ alta.
Sull’igiene approvo incondizionatamente.
Approvo senza condizioni anche la mancanza di chiassate, ma con una precisazione: coi nostri modi, noi latini tendiamo a fare (voglio dirlo in modo che la cosa risulti almeno un po’ simpatica) del teatro non per volgarissima maleducazione ma solo per una certa esuberanza.
Certo, chi urla come se lo stessero scannando: chi spiattella ai 4 venti i propri problemi personali; chi manifesta stima per l’avvenenza di certe fanciulle in modo cafonesco, beh, quello lo trovo odioso anch’io. In casi come quelli o simili a quelli, la latinità non c’entra proprio niente.
Sia perché l’Olanda è una meta turistica da noi molto ambita, sia perché laggiù c’è stata un po’ d’emigrazione italiana (benché non paragonabile a quella che toccò Francia, Belgio, Germania ecc.) qualche olandese ha imparato 2 o 3 parole della nostra lingua.
Magari ho trovato un po’ buffo che un locale si sia dimostrato colpito dal fatto che diciamo: “Mille grazie.” Per noi, quella è una formula di cortesia come tante, con la quale non intendiamo esprimere chissà quale riconoscenza.
Di una cosa simile troviamo traccia in Gramsci, che scrive di quanto la tedesca Clara Zetkin fosse fosse stata colpita da questo, che gli italiani del sud augurassero non la semplice “Buona notte” bensì una “Felice” o addirittura “Santa notte.”
Si tratta, osservava il Nostro, di semplici locuzioni se non di convenzioni linguistiche; al massimo possiamo aggiungere che forse esse possono denotare una mentalità eccessivamente ossequiosa, magari (inconsciamente) legata a miti e rituali di un passato ormai superato.
Passando ad altro, la nostra guida olandese (sig. Stibe) insisteva parecchio sul fatto che il nome corretto del suo Paese è Paesi Bassi, in neerlandese Nederland e non Olanda. Da loro “Olanda” indica 2 delle province che compongono il Paese.
Aveva ragione, però in molte lingue europee è preferito il nome “Olanda”, come in italiano; Hollande, in francese; Holland, in inglese; Holanda, in spagnolo ecc.
Ma perché Paesi Bassi? Per la sua, particolarissima, conformazione geografica. L’Olanda è… come dire?, molto piatta, circa un quarto del suo territorio si trova sotto il livello del mare. Nel romanzo (ambientato nelle Fiandre del 1400) di Gilbert Sinouè Il ragazzo di Bruges, si parla proprio di plat pays.
Ancora: lo Stibe non diceva Amsterdam ma Amster-dam. Come saprete, la città fu costruita verso il 1250, presso la diga che sorgeva sul fiume Amstel. Ed in neerlandese “diga” si dice dam. Quindi, Amster-dam, diga sul fiume Amstel. Pare che la dicitura Amsterdam si trovasse già in un documento del 1275.
Sarebbe come se Roma si chiamasse Teverdiga; Parigi, Seinedigue: diga sul Tevere, diga sulla Senna ecc.
Unica nota negativa? Le bici, che sfrecciano per tutta la città ad una velocità impressionante e che (sebbene abbiano loro strisce e corsie) se non stai attento, possono piombarti addosso e portarti via una gamba o qualche costola.
Infatti, chi conduce quelle dannate bici-killer ti avverte con un suonetto che non sentiresti neanche se ti trovassi dentro il loro campanello; in più, la pista delle bici è allo stesso livello del marciapiede… se anche del tutto inavvertitamente scantoni di qualche cm, sei fritto ed impanato.
Ma se sono tornato a casa sano e salvo io, che sono una delle persone più distratte di tutti i tempi, beh, allora voi  andrete lisci come l’olio, tranquilli!
Ancora: sapevo di Amsterdam e dei suoi canali.. ma fin dalla prima sera nella tulipanica città ho avuto l’impressione di camminare quasi in mezzo al mare!
Non scherzo: mi sembrava che tra i marciapiedi e le strade ci fossero delle luci, boe di segnalazione ed altra roba del genere… mi sembrava che l’insieme appunto di semafori, strade e marciapiedi fosse stato lanciato sul mare, come una sorta di ponte.
In albergo, poi, abbiamo trovato degli scalini in legno che per colore e fattura facevano pensare proprio a qualcosa di marinaresco.
Del resto, poco dopo piazza Dam c’è una via anche piuttosto ampia in cui ancora a fine ‘800 arrivava davvero il mare!
Spesso quando andavo a dormire avevo la sensazione che la stanza ballasse, mi sembrava di trovarmi quasi a bordo di una nave o di una barca.
Ho avuto anche l’ispirazione per un racconto lungo o per un romanzo breve: chissà che non lo scriva, prima o poi! Però dovrei trasferirmi per qualche settimana ad Amster-dam, là consultare antiche carte e documenti d’archivio; insomma, dovrei trasferirmi nell’amstelica città per qualche mese.
Dichiaro quindi la mia disponibilità a farmi ospitare (a spese dell’amministrazione cittadina o di quella universitaria) in qualsiasi hotel di A’dam; anche non lussuoso.
Dite che ho una bella faccia tosta? Non credo proprio: come tutti sanno gli scrittori sono sacri agli Dèi, quindi…
Quindi, cari sindaco e/o rettore dell’università di A’dam, non fatemi aspettare mesi o anni.
Sappiate però che:
1) non insidierò le vostre donne (sono un marito iperfedele);
2) berrò moderatamente;
3) non nuoterò nei canali o almeno, darò la precedenza ai battelli.
Allora, che cosa rispondete?
Su, non statevene lì come salami, sappiate che le autorità di Bruges, Anversa, Dublino, Venezia, Bologna e Liverpool fremono per offrirmi la loro ospitalità!

domenica 13 gennaio 2013

Ricordo di Luigi Morsello



Il 25 gennaio 2012 si è spento a Lodi all’età di 74 anni Luigi Morsello.
Come leggiamo nella quarta di copertina del suo libro (che consiglio caldamente di leggere) La mia vita dentro. Memorie di un direttore di carceri, Infinito Edizioni, Roma, 2010, Luigi nacque ad Avigliano, Potenza e fu direttore appunto di carceri dal 1969 al 2005.
Francamente, l’espressione “si è spento”, se riferita ad un uomo come lui mi sembra... errata: difficile accettare il fatto che una personalità vivace, multiforme, ironica come la sua non “bruci” più.
Quel che invece continua a fare nel suo La mia vita dentro, testo che non racconta sola la sua carriera, ricco come è di spunti di riflessione ed inoltre animato da grande coraggio civile, spirito critico e… stile. Sì, perché Luigi sapeva anche scrivere. E bene.
Ci siamo conosciuti solo sul web: prima attraverso il suo blog http://ilgiornalieri.blogspot.it/ poi sul mio.
Una conoscenza “virtuale”, come si dice: eppure, non per questo meno forte ed intensa sul piano delle idee e di una visione della vita basata, per entrambi, su sogni e progetti di giustizia sociale e di cultura.
Proprio sul mio blog recensii il libro di Luigi http://riccardo-uccheddu.blogspot.it/2010/06/la-mia-vita-dentro-di-luigi-morsello.html ed il mio pezzo originò un' interessante ma a tratti anche polemica discussione, che (di questo mi spiace molto) forse non seppi gestire adeguatamente.
Purtroppo, poi io e lui non abbiamo avuto la possibilità di chiarire del tutto la “cosa.”
Probabilmente, discussioni complesse e delicate richiedono tempi più lunghi e modalità di discussione più ampie.
O forse, quelle discussioni richiedono semplicemente personalità più “elastiche” della mia.
Comunque, soprattutto in tempi come questi, nei quali cioè la Corte europea dei diritti umani accusa l’Italia di trattamento “inumano e degradante” dei detenuti, trovo fondamentale la lezione che proviene dal libro e dall’esperienza di Luigi: una lezione di tolleranza, comprensione e di forte impegno nel recupero  e nel riscatto appunto del detenuto.
Quello che per Luigi rimaneva sempre e comunque un uomo, in linea quindi (non solo teorica!) col Beccaria e con la nostra Costituzione.
Infatti, nel suo testo Luigi denuncia anche vuoti legislativi e culturali, facilonerie politiche, amministrative, crudeltà ecc. che rendono il carcere più un Inferno in terra che un luogo di recupero e di riscatto umano e sociale.
Ma nelle carceri da lui dirette il detenuto aveva accesso a dimensioni lavorative e creative.
Eppure su questo fondamentale aspetto, Luigi non insiste più di tanto: perché secondo me un grande uomo sa farsi piccolo; lascia il vanto ai vanagloriosi.
I suo interessi comprendevano diritto, politica, letteratura, giornalismo, musica… ricordo perfino un suo post su Springsteen!
Una volta rispose ad un mio commento dicendo più o meno: “In questo momento sto ascoltando un pizzicato che mi dà una forte emozione.”
Mi pare che stesse ascoltando qualcosa di Bach o di Rostropovic eseguito al violoncello.
Era un uomo che nonostante una vita lavorativa fatta di laceranti responsabilità aveva mantenuto o addirittura esteso i suoi interessi, non restringendo né confinando la sua personalità alla sola dimensione dell’ex-direttore di carcere e/o a quella del pensionato. Ed era capace di ironia e di autoironia.
Così, per quanto possibile voglio concludere questo suo ricordo cercando di mantenermi nel suo spirito.
Infatti, nel 1° capitolo del suo libro (a p.22) Luigi ricorda gli esordi della sua carriera e parla del traghetto che prese per raggiungere la Capraia.
Quel traghetto era la Nonno Beppe e nel racconto di Luigi quel vecchio barcone fa pensare ad un mix di: baleniera di Braccio di ferro, nave degli emigranti e zattera di Huck resa celebre da Mark Twain.
Così mi piace pensare che ora Luigi si trovi su una barca che navigando tra le nuvole, lo sta portando su una spiaggia tranquilla ed assolata da cui potrà scrutare il mare ed ascoltare dal vivo i suoi Bach e Rostropovic…
Nel frattempo sorseggerà un caffè e rivolgerà a noialtri molti suoi sguardi… secondo me, bonariamente ironici.
Buon viaggio, Luigi... buon viaggio.
    

lunedì 24 dicembre 2012

Il Natale di Giovanni Piras


Le galere del duca non erano proprio l’ideale per passarci la vigilia di Natale, così siano benedetti quei pochi pezzi d’argento che hanno favorito la mia fuga. Qualche ora fa stavo tra i topi ed i vermi ma ora sono di nuovo libero. La notte è buia, per fortuna: per quei cani di spagnoli sarà più difficile, trovarmi!
Anno Domini 1576, anno del Signore… ma a volte questi anni e questo mondo sembrano Diaboli, del Diavolo…
Il povero lavora come una bestia da soma per il ricco, che così diventa sempre più ricco; donne e vedove sono il trastullo di qualche puzzolente hidalgo; il bambino è un fragile, indifeso essere che chiunque può prendere a calci sulla pubblica via, come se fosse un cane; il prete parla dell’amore di Cristo ma sbava e ringhia predicandoci l’Inferno; il dotto usa il suo latino e la sua filosofia non per scacciare le tenebre dell’ignoranza e della superstizione ma per sbertucciarci e per confonderci.
Fui “preso a lavorare” (come si dice da noi) dal duca in quel suo schifoso palazzo che andava in rovina ogni giorno  di più; maledetta sia la mia fama di bravo muratore!
I miei amici dicono che penso “troppo” e forse è vero, ma secondo me gli uomini non vengono al mondo per pensare solo al lavoro, al vino ed alle donne. Mah. Certo che il mondo sarà sempre un grande mistero.
Quando il duca mi prese a lavorare mi parlò un po’ in sardo ed un po’ in spagnolo; seppi rispondergli in entrambe le lingue: in sardo perché è la mia lingua, in spagnolo perché è quella impostaci dai nostri dominatori.
Mi disse qualcosa anche in latino… attaccava i sardi che tempo prima (in un villaggio alle porte di Caller) avevano “osato” astenersi dal lavoro per un’intera giornata.
“E questo perché?!”, aveva ripreso in spagnolo. “Solo perché non li pagavo da qualche mese, o da un anno! Come se il loro padrone e signore avesse degli obblighi, dei doveri verso quell’accozzaglia di pastori, minatori, pescatori ed operai!”
Aveva ripreso in latino, ma anche se da fra’ Mario ne avevo imparato un po’, finsi di non capire; un uomo istruito, anche se non molto, poteva essere accusato d’eresia… e per quella c’era il rogo.
Mi piacerebbe studiare, ma nell’anno Domini 1576 e sotto i re di Spagna, è già tanto se puoi lavorare come un mulo e non beccare troppe bastonate…
Un amico di fra’ Mario mi ha prestato dei pezzi, degli estratti (non so come si dica) di libri greci da lui tradotti in sardo. Ne ricordo soprattutto uno che diceva: “Le leggi si pronunciano su tutto e tendono all’utile comune.”
Quella frase mi piace molto perché per me significa che non conta se sei un pastore, un muratore, un principe o un ufficiale del re: le leggi sono come un padre che pensa a tutti i suoi figli.
Certo, i nostri padroni non la pensano così: le leggi che fanno, le fanno solo per il loro utile.
Comunque io ho capito questo: la giustizia (che come diceva qualcuno è “virtù completa”) non può arrivare da sola, come per magia; arriva se tu la fai arrivare.
Ecco perché dopo aver corrotto i miei carcerieri, prima di scappare ho piantato il mio coltello nel petto del duca… non volevo essere un evaso o un fuggiasco come tanti. Se non vuoi che la giustizia sia solo roba per filosofi, giudici e poeti, allora devi prendere qualche scorciatoia.
Di certo non puoi essere gentile con chi prende a frustate, deruba, oltraggia o spedisce sul rogo te e la tua gente. Chi è gentile con l’aguzzino e col succhiatore di sangue, beh, allora vuol dire che gli dà quel diritto. Il duca è stato il primo a pagare e spero proprio che non sia l’ultimo.
Spesso sogno uomini e donne che si muovono in massa per la giustizia, sogno case pulite e ben riscaldate, acqua e cibo per tutti, sogno che anche quelli come me potranno leggere e scrivere quello che vorranno senza il terrore d’essere scoperti, sogno un lavoro che non sia più roba da schiavi, che nessun re ci ordini più di massacrare in guerre senza senso poveracci come me, sogno medicine che curano e che curano anche la mia gente.
E’ la notte di Natale del 1576 e mi piace pensare agli uomini ed alle donne che verranno… chissà, tra 100 anni, tra 200, 300, 400, 500…
Ed anche se sembra un sogno da fuggiasco o da ubriaco, vorrei augurare ai fratelli non ancora nati un sereno Natale. Forse quella gente vivrà quello che io posso solo sognare.     

   

lunedì 17 dicembre 2012

Quelli di “Borgo Polesinino”, di Franca Fusetti (1/a parte)


Tempo fa la cara amica blogger Franca Fusetti (Nou) mi ha inviato alcuni suoi scritti, sia in versi che in prosa. Si tratta di lavori che nella sua modestia lei non ha ritenuto meritevoli di pubblicazione, ma per me questo è un male, perché non di rado in libreria troviamo volumi che non possiedono di certo la freschezza della scrittura appunto di Franca…
Io spero che lei cambi idea, così come penso che in Veneto non manchino case editrici in grado di “lanciarla” come merita.
Comunque oggi vorrei parlarvi della raccolta di racconti Quelli di Borgo Polesinino. Si tratta di racconti brevi, bozzetti pieni di garbo ma che sono nello stesso testimonianze autentiche e sofferte di un mondo forse oggi scomparso.
Come leggiamo in Lungo l’argine: “Borgo Polesinino era una località sperduta, un gruppuscolo di case”; “Polesnin, così era chiamato il borgo per semplificare.”
Si trattava di una piccola cittadina situata nel Delta del Po, un micromondo di contadini, artigiani, pescatori ed altri umili lavoratori che conducevano una dura vita di lavoro ma che si aiutavano reciprocamente.
L’economia del Borgo non permetteva troppi sogni o svolazzi, se come leggiamo in Rosa e Tonino il fatto di sposarsi in inverno era considerato un “vantaggio” perché permetteva di “aggiungere al corredo un bel cappotto nuovo rispetto a chi sposa nella stagione calda.”
Ogni passo nella vita delle persone era insomma strettamente commisurata a quanto ed a quel che occorreva loro; l’idea del lusso (non parliamo nemmeno dello spreco) non esisteva proprio.
Sempre in Rosa e Tonino assistiamo ai preparativi per le nozze ed all’atteggiamento irritante e colpevolizzante del parroco, che non sopporta affatto il fatto che Rosa debba sposarsi in stato interessante...
In segno di “penitenza” la peccatrice non poteva sposarsi con l’abito bianco e quel che è peggio, non durante la messa grande bensì a quella delle 8 del mattino… come se dovesse nascondere chissà quale colpa o infamia.
Questo nonostante Bice, la madre di Rosa, si batta per difendere la figlia da quell’umiliazione. Nella sua saggezza, infatti, Bice afferma che Rosa e Tonino: “Hanno seguito una legge naturale”… quella cioè che porta un uomo ed una donna che si amino ad unire oltre che i loro corpi, anche i cuori.
Ma malgrado l’intransigenza del sacerdote, che viene percepito come uno che “sembrava contro di loro”, la comunità accoglie e festeggia i due senza assurdi moralismi… a riprova di come, tante volte, la cosiddetta povera gente possieda un cuore ben più ricco.
In Inseguendo un toast la protagonista (Nara) è una ragazza che alle soglie del diploma assiste all’irruzione all’interno della nostra lingua di varie parole straniere.
“Parole di lingue diverse erano inserite qua e là con una certa noncuranza, nonchalance appunto, da persone ricercate nei loro discorsi. Vocaboli come cocktail, sandwich, yogurt, pass-partout, reception, suite, knock-out ed altri ancora, venivano usati a profusione.”
Subisce questa irruzione anche quel mondo rurale a cui Nara appartiene e che Franca sa dipingere con affettuosa ironia. Ma quel che colpisce la fantasia di Nara e delle sue amiche è la parola “toast”, alimento di cui lei e la sorella si toglieranno lo sfizio a Milano.
La pagina in cui le due sorelle e compagne d’avventura sbarcano alla stazione centrale della metropoli lombarda, beh, a me ha ricordato la gag di Totò e Peppino in un famoso film… con in più, da parte delle ragazze della provincia veneta, una grande compostezza, un… aplomb di tutto rispetto.
Del resto: “Contrariamente alle sue abitudini, Nara lasciò un pourboire.”
Molto bello l’incontro di Nara con alcuni ragazzi delle borgate romane da lei incontrati “quando, con la solita valigia, modello emigrante, Nara scese dall’autobus in Via Appia Nuova.”
In Viaggio a Roma Nara presenta questi ragazzini senza pesanti finalità pedagogiche; del resto, loro non le mancarono di rispetto anzi la scortarono “a destinazione, in Via Appia Antica, dove la stavano aspettando.”
In Ragazza alla pari troviamo Nara a Bruxelles. In seguito alla tragica alluvione del 4 o 5 novembre del 1966 la Nostra perse l’impiego che aveva a Ca’ Tiepolo ma nella capitale belga sa farsi benvolere; inoltre acquisisce “un buon livello di conoscenza del francese parlato e scritto.”
Il carattere di Nara: quando M.me Dumais (la donna del cui bebè si occupa) si pone come intermediaria tra lei ed un suo lontano parente… ed inoltre si offre di trovarle un impiego presso l’ambasciata italiana… ma a quel punto Nara opta per il rientro in patria.
Forse altre donne avrebbero colto quelle occasioni al volo: un possibile marito (probabilmente ricco) ed un lavoro sicuro… ma non Nara, che volle rimanere padrona della sua vita. E lo rimase.
Benché i racconti di Borgo siano tutti in italiano, ogni fa tanto fa capolino anche il dialetto veneto, con effetti devo dire spesso molto divertenti.
Per es., in Comari si parla di uomini ormai attempati che riprendono a “vardarse”, guardarsi (attorno). Ma: “Tanto cossa voto che i trova? Più de qualche gallinassa vecia, gnanca più bona per el brodo, no ghe xe altro in giro!” Più di qualche vecchia gallina, neanche più buona per fare il brodo, in giro non c’è altro!”
Franca mi scuserà se la mia traduzione non è abbastanza accurata; del resto, spesso i dialetti possiedono un’incisività che talvolta alla lingua manca. Tuttavia io ho capito sempre almeno il senso delle frasi in veneto.
In Nina e Baldo troviamo una famiglia il cui capo (?) beve troppo e picchia la moglie, tanto che “un infausto giorno sono intervenute le assistenti sociali togliendo loro le figlie.”
Questi dell’alcol e della violenza domestica sono problemi che in varie parti del Paese rendono la vita di molte famiglie un inferno, ma Franca ha saputo affrontarli evitando d’assumere “abiti” morbosi o scandalistici… ma senza per questo dimostrare superficialità o fatalismo.

2/a parte

Per ragioni di spazio non posso parlare di tutti i racconti di Borgo, comunque ora vorrei ricordare Parole, in cui Franca cede la… parola alla signora Elena Zerbin.
La signora appartiene ad un tempo in cui, come scrive: “Non si conosceva nemmeno una stuffa a legna e si poteva anche contrarre il tifo ma: “Allora si pagava tutto, medicine e pure l’ospedale.”
La vita, nella valle del Po, era durissima: si lavorava nelle risaie, anche: “Dieci campi di risaia, come dire, melma si zappava! Non ci conoscevamo se eravamo persone o bestie: tutti pieni di terra sporca. E a fine anno quando andavamo a fare i conti col padrone, eravamo rimasti in debito.”
La drammaticità di questo quadro era poi simile a quella di tantissime famiglie operaie e contadine del nostro Paese e questo, per tanto, troppo tempo. Così è fondamentale che certe realtà siano ricordate e denunciate da chi le visse sulla propria pelle e non cede alla tentazione o alla menzogna del “bel tempo antico.”
La signora Elena ricorda inoltre il suo sicuro rifiuto del nazifascismo quando dice: “Dentro di me non mi sentivo per quel fare, mi sentivo ad essere alleata con tutti e aiutarsi nel modo più umano della nostra vita.”
Ecco, forse è questa la sintesi migliore sia del suo breve scritto che delle prose di Franca: questo sentimento di umanità e di giustizia che rifugge dalla retorica, dalla violenza e dall’inganno perché si desidera ardentemente un mondo più giusto… che non sia insomma né una giungla né una caserma.

3/a ed ultima parte

Ciò che costituisce la parte più autentica di uomini e donne oggi anziani e che furono duri ed umili lavoratori, è questo profondo sentimento e desiderio di una vita migliore: una vita cioè che non punta certo a lussi, applausi e riverenze ma solo a potersi godere in pace i frutti del loro lavoro coi loro cari, senza essere più tormentati dagli spettri della fame, della guerra e dell’ingiustizia… che purtroppo, ai nostri giorni sono ben più che spettri!
Per quegli anziani ed anche per noi, una vita migliore significa davvero “aiutarsi nel modo più umano”; il che non significa né correre come dannati per ammassare più danaro possibile, magari calpestando gli altri né vivere nell’ozio.
No, vuol dire fare in modo che ognuno possa avere qualcosa in proporzione a quanto ha fatto ed a quanto gli spetta.
Spesso è difficile, a volte sembra quasi impossibile esprimere con parole chiare queste più che legittime aspirazioni: ma quali mezzi possiamo utilizzare se non le parole? E talvolta quelle possono essere fraintese: non sempre in buona fede.
Ma come dice benissimo Franca: “Elena, abbiamo scritto le nostre parole. Ora si sono incamminate. Non conosceremo il loro percorso. Sicuramente non cesseranno, mai più, di vivere.”
E questo è verissimo: soprattutto quando si tratta di parole che nascono dall'esperienza e dal cuore di persone generose.... persone che oltretutto non hanno subito la vita ma hanno cercato di capirne il senso, hanno tentato (secondo me con successo) di ricomporre quello che spesso sembra un puzzle assurdo, incomprensibile e talvolta anche crudele.
 

sabato 8 dicembre 2012

La discussione filosofica (parte settima)*


Ma anche quanto detto finora su sensibilità e dimensione intuitiva dell’artista presenta il classico rovescio della medaglia, l’altra parte dello specchio o come vogliamo dire.
Infatti, proprio il complesso e spesso contraddittorio sentire dell’artista può presentarsi come il suo punto debole, poiché si fonda su elementi se non irrazionali almeno a-razionali o meta-razionali, che quindi non si oppongono necessariamente alla dimensione logico-razionale…
Ma nella mente e nel cuore dell’artista gli altri elementi premono con tutta la loro drammaticità ed urgenza fino a non fargli considerare la dimensione appunto razionale, fondamentale e forse, neanche tanto auspicabile.
Egli, infatti, vede (o crede di vedere, ma in campo artistico questa distinzione ha davvero poca importanza) lati che prescindono dalla razionalità o che la superano.
Inoltre, l’importanza della fantasia, della creatività, il ruolo insomma che nella creazione artistica riveste l’aspetto ludico, di gioco1, tutto questo può condurre l’artista o a credere egli nelle sue creazioni.
O ad instillare negli altri l’idea che esse siano reali.
O ad entrambe le cose.
Comunque non dimentichiamo quella che per me (e forse anche per tanti e tante) deve essere la stella polare della creazione artistica… come diceva infatti il Socrate di Platone: “Un poeta per essere veramente tale deve scrivere per immagini e non per deduzioni logiche.”2
L’artista che crei così cioè in modo, come potrei dire, oltrelogico sarà davvero un artista perché sapràabbandonarsi alla forza della sua ispirazione senza temere di passare per un adolescente, un folle, un ingenuo, un romantico fuori tempo massimo o chissà che altro ancora.
Le creazione di quel tipo di creatore (ovviamente bisognerà giudicare anche la qualità, il valore delle sue opere) saranno così fonte o occasione di godimento estetico, di sogno e di stimolo anche sul piano filosofico.
E la natura non logico-razionale dell’opera d’arte e dell’artista era del resto provata e difesa da un uomo ben poco incline a concessioni romantiche come Kant, che scrisse: “Il genio è il talento (dono naturale) che dà la regola all’arte.”3
Questa frase sintetizza la convinzione fondamentale di Kant rispetto al problema estetico: non può esistere alcun criterio oggettivo del gusto, che non può essere inculcato da argomenti, tesi, ragionamenti,  prove ecc.
Infatti, l’opera d’arte è libera da qualsiasi regola o complesso di norme e “il genio stesso non può mostrare scientificamente come le idee si trovino in lui.”4
  
                       
Note
Le precedenti parti di questo post sono comparse su questo blog rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011; la 6/a il 15/11/2012.

1)  E’ stato osservato che nel caso per es. di un’opera di Joyce come l’Ulisse il suo “modello (non solo strutturale) era quello del poema eroicomico in prosa. Così: “Il modello è sempre il medesimo: anche Finnegans Wake è un poema eroicomico in prosa; troppo spesso ci si dimentica che alla base delle due opere maggiori di Joyce vi è un elemento ludico, di gioco, di divertimento. Anzi, questo elemento è ancora più accentuato in Finnegans Wake, dove la parodia diviene struttura portante sul piano linguistico.” Giorgio Melchiori, Introduzione a James Joyce, Finnegans Wake, Mondatori, Milano, 1982, p.XI.
     Cfr. anche G. Melchiori, “I funamboli del romanzo: il manierismo nella letteratura inglese da        Joyce ai giovani arrabbiati, Einaudi, Torino, 1974, pp. 48-64.
2)   Platone, Fedone, Garzanti, Milano, 1980, IV, p. 77.
3)   Immanuel Kant, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari, 1982, p. 166.
4)  I  Kant,  Critica del giudizio, op. cit., pp. 166-167.  Per una trattazione più sistematica ed esaustiva di questi temi in Kant cfr. almeno Ibid., pp. 134-221.   

lunedì 26 novembre 2012

“La casa dei ricordi”, di Fabio Melis


Questo bel libro di Fabio Melis ha come sottotitolo Una storia cagliaritana, che però lui ha avuto il merito di non circoscrivere solo all’ambiente sardo ed appunto cagliaritano. Egli ha insomma utilizzato la sua (che è anche la mia) città come specchio o lente per scrutare il mondo.
Pare che una volta Tolstoj abbia detto: “Parla di Parigi e sarai provinciale; parla del tuo villaggio e sarai universale.”
Penso che intendesse dire che data la fondamentale (benchè non assoluta) somiglianza dei sentimenti e delle passioni umane in tutto il mondo, uno scrittore che sia dotato di talento saprà descrivere gli uni e le altre partendo da una realtà anche piccola… per poi allargare il suo sguardo sul mondo.
Ed è proprio quello che ha fatto Fabio.
Ora, al protagonista della storia, Andrea Manca, tocca un compito davvero ingrato: occuparsi della vendita della casa di famiglia. Per lui (e forse per tanti di noi) quella non una casa ma la casa.
Quella in cui sei cresciuto e che ti ha visto trasformarti dal bambino che eri in uomo. La casa in cui hai visto invecchiare e morire i tuoi genitori… il luogo che ha custodito gli affetti, accolto le nascite, l’amore ma che ha anche covato scontri, noia, solitudine.
Su tutte le figure del libro spicca quella della madre di Andrea, Letizia… una figura di donna forte e molto dolce ma nello stesso tempo quasi tragica. La dimensione appunto tragica di Letizia risalta soprattutto da come, progressivamente, lei viene fagocitata da un grave disturbo della personalità… al quale peraltro Fabio accenna con evidente dolore ma anche con grande pudore.
Di lei, che aveva come solo svago l’esecuzione al piano di brani di musica classica, Fabio scrive: “Il pianoforte le fatto compagnia sino all’ultimo, quando è rimasta sola coi suoi ossessivi ricordi e non veniva neanche più l’accordatore a donare un po’ d’armonia e dolcezza al suono del suo strumento. E’ stato allora che la sua melodia… si è lentamente involuta in un’atroce agonia.”
Ecco, queste frasi sono così struggenti nella loro bellezza che non saprei proprio commentarle… preferisco evitare.
Inoltre, finchè la signora stava bene, aveva un modo d’essere che ad Andrea ricordava L’onorevole Angelina, il grande personaggio interpretato dalla grandissima Anna Magnani: “Determinata, generosa, libera, creativa, amante della giustizia, simpatica e spontanea.”
Da La casa dei ricordi emerge il quadro di una famiglia felice ma la cui felicità non è sempre piena o assoluta, una famiglia in cui si scherza e si discute molto (per es. di Brera ed anche di Pasolini) e che tutto sommato, vive in armonia ed è piuttosto unita.
In casa Manca c’è tutto il necessario, ma benché il capofamiglia sia uno stimatissimo professore di liceo, si è ben lontani da quel vivere (come talvolta dice qualcuno che dovrebbe documentarsi meglio) al di sopra delle proprie possibilità che viene rimproverato alle famiglie italiane.
Dai Manca si vive dignitosamente ma la loro vita è fatta di economie, lavoro, rinunce. E’ una vita quindi non di lusso ma di sacrificio.
Molte delle cose di cui parla Fabio sono tipiche della nostra generazione: per esempio il programma radio Alto gradimento coi suoi stralunati personaggi, l’annuncio pubblicitario della Stock di Trieste che precedeva l’altra trasmissione radiofonica, la calcistica Tutto il calcio minuto per minuto.. che con mio padre, seguivo anch’io.
Appartengono un po’ alla nostra generazione anche Gigi Riva, Corto Maltese, i Beatles, l’allunaggio ecc. ma Fabio ha “reso” tutto ciò con affetto ma senza lacrimosa nostalgia. Non si tratta insomma di un libro solo per noi che ormai siamo negli anta!
Inoltre, luoghi, fatti e persone di quegli anni sono presentati in un modo che risulterà chiaro anche a chi è molto più giovane, o non cagliaritano.
N.B: le stesse frasi o battute in sardo o in dialetto cagliaritano sono tradotte.
Vorrei dire ancora tanto ma è meglio di no: leggete questo libro, che sa dire parecchio da solo… leggetelo, non ve ne pentirete.
Ah, dimenticavo, Fabio: chapeau!  

giovedì 15 novembre 2012

La discussione filosofica (parte sesta)*



Ora, io credo che talvolta certi artisti più che tanti filosofi di professione possano pervenire ad una profonda comprensione di problemi storico-sociali, relativi all’etica, alla natura della conoscenza, dell’amore e dell’odio ecc.
Forse ciò accade perché la loro passionalità e la sfera dei loro sentimenti, delle loro emozioni ed il complesso delle loro sensazioni è più viva che in altri.
Così, l’inquietudine che li muove agisce probabilmente come una sorta di potentissima lente d’ingrandimento del reale, o come un raffinatissimo strumento in grado di captare o decifrare la natura intrinsecamente complessa di quel mondo che Gramsci definiva “grande e terribile e complicato.”1
Nel dir questo penso a Poe ed al  suo forte interesse per l’orrore e la violenza che talvolta esplodono in modo del tutto imprevedibile nel quotidiano (pensiamo almeno agli Assassinii della Rue Morgue), ma anche a come Thoreau, il teorico della disobbedienza civile presentiva l’avvicinarsi della meccanizzazione dell’uomo.
Penso al travaglio di Dostoevskij per il dolore dei bambini, tanto che nei Fratelli Karamazov leggiamo che non sarebbe lecito “mettere alla tortura anche soltanto un piccolo essere”: nemmeno se con ciò si potesse “rendere definitivamente felici gli uomini.”
Se cioè con questo si potesse far sparire per sempre dal mondo il male, l’ingiustizia ed ogni angoscia ed insomma portare per così dire il Paradiso in terra.2
Penso col Piovani a come scrittori quali Proust, Kafka e Joyce  siano assimilabili a un “palombaro che sondi”.3
L’artista, infatti, esplora profondità psicologiche ed esistenziali che tanti filosofi di professione sarebbero tentati di fissare in categorie concettuali rigide, quindi ben poco dialettiche ed insomma non del tutto filosofiche.
Ancora, la grande capacità intro-spettiva degli artisti, la loro capacità di saper guardare dentro le cose, al loro interno, davvero nel loro in-timo è stata rappresentata al meglio dal Dostoevskij dei Ricordi dal sottosuolo...
In quel particolarissimo romanzo (che è insieme invettiva, confessione e demolizione d'ogni e troppo consolatoria visione estetica o filosofica), il protagonista afferma la propria esigenza di isolamento ma non di solitudine
Egli afferma inoltre l'esigenza di voler difendere la sua individualità da masse che perlopiù non sarebbero composte da esseri realmente coscienti… e che perciò non costituirebbero ancora una società. Eppure, come potrebbe un misantropo come questo vivere in società?
Il Dedalus di Joyce può comunque dimostrare se non “rigore scientifico” almeno un certo grado di “intuizione” e di persuasione.4


Note

* Le precedenti parti di questo post sono comparse su questo blog rispettivamente: la 1/a il 25/03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011.

1)  Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, a Giulia, 18 maggio 1931, Editrice L’Unione Sarda,  Cagliari, 2003, p.243.
2)   Cfr. Charles Journet, Il male. Saggio teologico, Borla, Torino, 1963, p.220.
3)   Pietro Piovani, Principi di una filosofia della morale, Morano, Napoli, 1972, p.13.
4)  Umberto Eco, Il problema estetico in Tommaso D’Aquino, Bompiani, Milano, 1982, p.152. La stima di Eco per Joyce dipende qui dall’analisi che Dedalus conduce attorno al termine claritas come si trova nell’Aquinate; cfr. J. Joyce, Dedalus, Mondatori, Milano, 1986, pp.248-249.

sabato 13 ottobre 2012

Qualche scemenza su qualcosa che non lo è



   Lo metti
tra i raggi della tua bicicletta,
tra le speranze inacidite,
le tue carte e i tuoi ricordi…
lo metti
e a volte lo trovi
in progetti che non realizzerai,
lo cerchi
e non lo trovi
in incubi senza consolazione…
è il bacio di una ruspa a forma di nostalgia,
è un angelo e a volte un vampiro.
Me ne cibo
ma devo assassinare il mio orgoglio,
è un vecchio orsacchiotto
che sogna fiumi in cui non sa nuotare
ma ti offre il suo salvagente,
gli piace cantare
quando non hai altra musica che un rauco silenzio.
Penso che quando sarò troppo vecchio, stanco
ma ancora abbastanza affamato
e sarò magari un barbone
o un moderno tipo di monaco
lo metterò
in un sacchetto di carta
e mi sdraierò da qualche parte
a mangiarlo,
l’amore.

venerdì 31 agosto 2012

On the road again (di nuovo sulla strada)


Come tanti, anch’io viaggio d’estate… cioè quando con la famiglia siamo liberi dal lavoro e dalla scuola; secondo me, quella è la stagione ideale per visitare e gustare panorami.
Certo, può esserci il problema del caldo. Per questo spesso scegliamo climi e Paesi freschi.
Fosse per me, che non soffro proprio il caldo, potremmo andare in vacanza anche nel Sahara… o giù di lì. Solo, dubito che la mia famiglia gradirebbe!
Bene, finora abbiamo visitato soltanto l’estero, ma ci tengo a sottolineare che prima o poi non ci dispiacerà per niente visitare anche l’Italie.
Il nostro patrimonio storico-artistico è tra i migliori del mondo: ma forse il fatto di conoscerlo (voglio dire a livello di studio, precedenti e singoli viaggi, internet, giornali ecc.) può forse renderlo scontato mentre ovviamente, non lo è.
Bene, tra i Paesi da me-noi finora visitati, ho sempre apprezzato quelli latini… per via della mentalità e del modo di essere, che ho sempre trovato in sintonia con noi del Belpaese.
Ricordo infatti che nel 1996 a Toledo la guida spagnola ci disse (criticandola un po’) che a Siviglia la gente diceva spesso mañana, domani; come a volte si pensa che facciano i messicani…
Ma forse, spesso si volge in caricatura una tendenza dello spirito latino ed anche mediterraneo a prendere le cose con calma, non ad evitare di farle.
Gli antichi Romani dicevano festina lente, affrettati lentamente; eppure conquistarono e civilizzarono quasi tutto il mondo allora conosciuto.
Un giornalista svedese raccontava che durante un suo soggiorno in Tunisia doveva fare delle cose urgenti all’ufficio postale. Così entrò trafelato nell’ufficio in questione, ma l’impiegato disse: “Prima di tutto, buongiorno.”
Ecco, non è detto che la velocità e l’efficienza debbano farci trascurare la cortesia o trasformarci in robots che corrono come schegge impazzite. Velocità, efficienza e cortesia possono star benissimo insieme.
Nel caso poi della Spagna, ho avvertito un’affinità particolare non solo col carattere italiano, ma anche con ciò che caratterizza noi sardi… cioè un’apparente lentezza.
Il nostro scrittore Giuseppe Dessì diceva in Sale e tempo (cfr. G. Dessì, Un pezzo di luna, Edizioni della torre, Cagliari, 1987, p.41) che gli aveva fatto perdere del tempo solo l’ansia di perderlo.
Egli spiegava che una volta libero dagli obblighi e dai doveri impostigli da genitori, insegnanti ecc., capì che la sua non era (ciò di cui lo accusavano) pigrizia ma volontà e capacità di guardare le cose, gustarle, ricrearle nel suo cuore e nella sua mente. In tal modo padroneggiandolo, quel benedetto tempo…
Del resto, come mi faceva notare giorni fa in Olanda un mio anziano conterraneo (certo dotato di competenze nel lavoro contadino), spesso quando ammiriamo l’efficienza e l’organizzazione agricola olandese, non dobbiamo scordare l’influenza che su tutto questo esercita il clima.
Piogge per almeno 3/4 dell’anno; di conseguenza, pascoli abbondanti; temperature che a parte il periodo invernale non sono mai troppo rigide… né calde o torride durante il resto dell’anno.
Su quest’ultimo punto, molti amici di Nuoro città (e dintorni) mi hanno sempre detto che da loro, in Barbagia, in inverno nevica parecchio ed il clima è molto freddo almeno fino ad aprile.
Poi, in circa metà della Sardegna (da Oristano in giù) la primavera e l’estate fanno registrare temperature che vanno dai 20 ai 35 gradi abbondanti… e con piogge davvero scarse, in confronto alla media olandese.
Certo, agli olandesi dobbiamo riconoscere qualcosa che non può derivare dal clima, intendo  programmazione economica, studio e conoscenza del territorio, utilizzo dei mezzi tecnici e finanziari senza sprechi né ruberie, inesistenza di tangenti e corruzione, bassa evasione fiscale ecc. Non mi sembra poco!
Ma se anche qualcuna di queste ultime cose dovesse esistere, non impedisce il buon funzionamento delle cose.
Sul piano del carattere un mio amico (memore del Montesquieu de Lo spirito delle leggi e dei luoghi) sottolinea come il clima influenzi appunto il carattere ed i costumi degli esseri umani. I climi freddi ci chiudono nell’ambito della nostra famiglia o al massimo di ristrette cerchie d’amici.
Quelli caldi ci invitano alla vita all’aperto, nelle piazze, nelle strade, ci rendono più espansivi anche verso gli sconosciuti.
E’ questa, prosegue l’amico, una caratteristica dei latini e dei mediterranei.
Condivido la sua tesi, ma con qualche riserva: amici ed alcuni miei nipoti, che hanno lavorato e lavorano tuttora a Dublino, in Irlanda, mi parlano dei locali proprio quasi come se fossero italiani, spagnoli, greci ecc.
Il mio amico Max, valente chitarrista, durante le sue scorribande rock-alcolico-musicali (sulle altre massimo riserbo) mi ha dipinto i bretoni con colori latino-mediterranei. Eppure, la Bretagna si trova nel nord della Francia.
Io ho conosciuto gente di Parigi molto affabile; altrettanto dicasi d’alcuni inglesi e tedeschi.
Ma certo, da un punto di vista generale direi che esista un’influenza del clima sul carattere.
Io, per esempio, mi sento molto latino ma ho spesso dei momenti in cui mi estranio da tutto e da tutti per immergermi nei miei pensieri, nei miei sogni ed anche in qualche… incubo. Sì, perché ci sono anche quelli: se vuoi il sogno non puoi schivare l’incubo; troppo comodo, cocco!
Proseguiamo.
Arrivati all’isolotto di Marken, la nostra guida (il sig. Ben Stipe) ci ha raccomandato di non fare chiasso.
Questa raccomandazione sarebbe stata inutile per degli olandesi, per dei tedeschi, danesi ecc., ma utilissima per dei latini (però forse noi sardi possediamo un certo autocontrollo). In effetti, noi che abitiamo da Parigi in giù, con la nostra espansività potremmo risultare fastidiosi ad occhi e ad orecchie nordiche.
Vedete, Marken è stata fino ad un po’ di tempo fa una cittadina di gente di mare e di pescatori… e non per hobby.
Tantissima parte del territorio olandese è stata letteralmente sottratta al mare o comunque a corsi d’acqua che la percorrevano, la solcavano e circondavano… mettendo non di rado a rischio l’esistenza della terra e la vita delle stesse persone.
Per me, nella lotta condotta sia dall’antica che dalla moderna gente d’Olanda contro il mare, è stato  creato un prodigio di fronte al quale sfigurano perfino le piramidi.
Ora a Marken non si vive più di pesca: secondo Ben, almeno l’80% dei suoi abitanti lavora ad Amsterdam o alla sua periferia. Ma quando l’abbiamo visitata noi (a ferragosto) erano tutti in ferie e chi si trovava in casa aveva bisogno di riposare. Da qui la raccomandazione del buon Ben.
Marken… casette in legno molto basse risalenti ad alcuni decenni fa ma perfettamente curate, inoltre disposte su alcune file a ragionevole distanza le une dalle altre, verde ovunque, vialetti perfetti, le barche anch’esse disposte secondo un ordine quasi geometrico (sarebbe il caso di dire… spinoziano!), nessun tanfo di nafta né (perfino) di salsedine, nessun frastuono di radio né di tv, nessuno che trincasse o urlasse per strada…
Poi, in un bar in rigoroso legno marinaresco, ho visto delle foto degli antichi abitanti…
Quelle foto, che risalivano a fine ‘800 inizio ‘900, mostravano della gente fiera, anche dura; mostravano uomini, donne ed anche bambini dalla facce scavate dal lavoro, dal gelo e dal vento.
Perfino i bambini avevano un’aria indifferente all’obiettivo… ma nello stesso tempo, quasi spaurita. Ed in quelle foto, non sorrideva nessuno.
Ecco, io ho trovato questo molto interessante: perché gente come quella aveva ben poco da sorridere e vedere quei volti mi ha dato una certa tristezza… uomini, donne, bambini: tutti condannati, se volevano vivere (ma era vita?) a tantissimi stenti ed a parecchie privazioni; condannati, non di rado, anche alla morte.
Ad un livello più generale, ho pensato a perché mai nelle foto si debba (quasi per forza) sorridere.
Io, poi, “esco” sempre con una smorfia a metà tra Jack lo squartatore ed una maestrina dell’’800.
Comunque, dopo Marken siamo tornati ad Amsterdam.
Ma racconterò questa storia un’altra volta.

venerdì 3 agosto 2012

L’ultimo mandante (Bologna, 2 agosto 1980- Bologna, 2 agosto 2…)



Per molti era il senatore; per qualcuno, il paracadutista.
Ma per tutti era il dottore: sì, un titolo quasi umile, quest’ultimo… ma lui coltivava una sottile, ipocrita umiltà.
Anni prima aveva pubblicato il saggio Sul valore del male in cui sosteneva che non era difficile essere onesti, altruisti, sinceri ecc. ma che tutto ciò era “bovino, asinino,  tipico di chi teme la vita  e non sa assaporarla.”
Era scoppiato uno scandalo così decise di interrompere la propria carriera di saggista; si era trattato del suo solo passo falso.
Ma da allora aveva iniziato a tessere i fili della sua oscura ed in apparenza poco redditizia ragnatela, che per sua scelta non l’aveva condotto (per decenni) ai vertici del potere.
Ed aveva i suoi dossiers, le sue intercettazioni, registrazioni, foto, video, documenti ecc.
Perché tenere sotto controllo il tenentino, lo scribacchino di provincia, il sindaco di paese,  l’industrialotto? Questo gli chiedevano i suoi amici.
Che domande!
Lui sentiva che il tenentino sarebbe diventato generale, l’industrialotto un grande imprenditore; il sindaco, ministro o boss di una grande banca; lo scribacchino, influente opinionista tv.
E non sbagliava quasi mai.
Al momento giusto quei piccoli sarebbero diventati grandi, utili e ricattabili.
Ed aveva capito che se sali troppo, quando cadi sei finito.
Molto meglio stare in basso…
Da dove puoi osservare la caduta dei grandi, magari attutire la loro caduta ed aiutare a salire gli ancora piccoli… così avrai la riconoscenza e l’appoggio degli uni e degli altri ed accumulerai potere… che utilizzerai al momento giusto.
Importante non puntare all’esercizio diretto del potere ma stare nell’ombra, prendere e/o fingere di prendere accordi, progettare nuove alleanze da intrecciare alle vecchie, essere severi custodi degli antichi valori ma entusiasti sostenitori dei nuovi.
Certo, ogni tanto il Paese aveva bisogno di qualche scappellotto: come aveva scritto qualcuno, da noi “lo stragismo” è stata la modalità normale di gestione del potere… almeno dai tempi del Valentino, tanto ammirato da Machiavelli!
Che cosa non avevano fatto, loro…
Poi non era importante (e forse neanche possibile) stabilire chi fossero, appunto loro
I vari dominatori che si erano succeduti alla guida del Paese dal Medioevo ad oggi, le tante mafie, la massoneria, i servizi segreti deviati?
I vertici di polizia, Chiesa, industria, magistratura, media, sindacati compiacenti?
Terroristi d’ogni colore, intellettuali da salotto, artisti vanesi o deliranti?
Sì, loro erano tutto questo e molto più di questo.
E trovavano ulteriore forza pescando in quella zona grigia priva di qualsiasi confine e consistenza… che così dava sempre più il Paese in mano a loro: oxfordiani o francescani di fuori, banditi di strada di dentro. E per sempre.
Sì, ogni tanto qualcuno urlava il suo no! Gente come Gramsci, Pasolini, Falcone e Borsellino. Ma erano pochi e stroncarli, facilissimo.
In un Paese in cui quasi tutti temono più di passare per fessi che risultare assassini, cavernicoli, erotomani o ladri, loro avrebbero regnato in saecula saeculorum.
Ed ogni tanto una bella strage, lo scappellotto teneva il Paese buono per 15-20 anni.
Negli ultimi tempi lui aveva finalmente accettato incarichi importanti: prima a Bruxelles poi nel governo italiano.
Ora, a 40 (o erano 50?) anni dalla strage di Bologna era ministro della difesa ma stranamente, aveva iniziato a provare una nuova sensazione… come di rimorso, se non di pentimento.
Molti di quelli che avevano tramato con lui erano morti… ma non tutti. E lui era il mandante più potente: anche perché aveva tutto quel materiale…
Forse era arrivato il momento di spezzare quella catena di menzogne, depistaggi, massacri e connivenze che durava da un tempo schifosamente infinito.
Padre Mario era stato chiaro: “Senza riparazione non può esistere assoluzione. Insomma, vada a dire tutto quello che sa, che ha fatto e che ha fatto fare, assassino!”, aveva concluso urlando.
‘sti preti che parlano come guerriglieri sudamericani!, aveva pensato lui, stizzito. Ai vecchi tempi aveva prestato la sua consulenza d’esperto torturatore in Argentina ed in Cile…
Ma il gesuita aveva ragione, doveva parlare.
Ora l’aveva fatto e tutto era stato messo a verbale, ma capì subito che provava vergogna, non rimorso o pentimento. Avrebbe voluto pentirsi ma non ci riusciva.
Ormai il cancro gli lasciava solo altri 2 mesi, presto avrebbe dovuto presentarsi davanti ad Autorità ben più potenti e scaltre di lui.
Dovrò bruciare all’Inferno, pensò con amarezza.
Improvvisamente ebbe una chiara visione del nulla che era nonché una lacerante percezione della sua inumanità e di tutta la morte che aveva causato.
Invocò disperatamente il dono del pentimento, che però non venne; pensò che era giusto così perché in fondo, anche ora, cercava solo una via di scampo.
Ma stavolta non ci sarebbe stato nessun depistaggio o cavillo, prescrizione, falsa testimonianza, ragion di Stato, immunità diplomatica, aereo che lo trasportava in Paesi compiacenti nè nient’altro di simile.
Stavolta era solo e disperato.
E lo sarebbe stato per sempre.
In questa e nell’altra vita.
Per l’eternità.