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martedì 23 ottobre 2007

Las Casas, un frate contro gli schiavisti (parte seconda)

Per sfruttare meglio le ricchezze americane, nel 1503 il re di Spagna istituì l’encomienda, affidamento: gli indios venivano ripartiti in gruppi, riuniti in villaggi ed affidati all’encomendero che li sottoponeva a regime di lavoro forzato nei campi e nelle miniere. Gli indios, spesso incatenati e marchiati a fuoco come il bestiame, erano sorvegliati da guardie armate, frustati di frequente, malnutriti, alle loro donne si usava violenza carnale e gli spagnoli (gioco della “fionda”) lanciavano i loro bambini in aria o contro delle rocce. Talvolta, i civilizzatori per sfamare i cani tagliavano a dei bambini ancora vivi le gambe e le braccia. Se i cani avevano ancora fame, gettavano “il piccolo corpo alla muta perché finissero di divorarlo.” Le condizioni di vita e di lavoro degli indios erano tali che alcuni si suicidavano. Delle madri, per risparmiare tutto ciò ai figli, li uccidevano appena nati. Niente di tutto questo provocava negli spagnoli alcuno scrupolo morale, né metteva in crisi il loro sistema economico: la forza-lavoro era tanta… Molti conquistadores tagliavano agli indios naso ed orecchie, e li costringevano ad andare in giro per gli altri villaggi per farsi “ammirare.”
Proteste e scritti di domenicani e francescani non sortirono nessun effetto; anzi, chi protestava poteva essere ucciso. Chi non subiva quella sorte era da ignorare o da compatire: le ricchezze che affluivano dall’America erano tante e tali che solo un folle poteva aver qualcosa da ridire.
Tra il 1512 ed il 1513 fu istituito il requerimiento, intimazione: prima d’attaccarli, i capitani dovevano leggere agli indios un documento con cui si notificava che le loro terre appartenevano ai re di Spagna. Costoro le avevano ricevute dal Papa e lui dall’unico vero Dio. Dovevano scegliere tra la sottomissione a tali sovrani oppure essere attaccati e fatti schiavi. Si negava così agli indios ogni diritto sulle loro terre, si parlava di re e Papi appartenenti ad un popolo che non avevano mai conosciuto e di un Dio che ignoravano. Dovevano accettare il tutto sotto una minaccia militare e schiavistica. Il testo del documento era redatto in una lingua (spagnolo o latino) ed intriso di tecnicismi giuridico-filosofici che non potevano certo capire. Talvolta il testo era letto a miglia di distanza dal villaggio: in modo che qualcosa di incomprensibile e di inaccettabile, non fosse neanche udibile. Ma la legge non ammetteva ignoranza…
Fino al 1514 fu encomendero, benché molto umano lo stesso Las Casas. Questi entrò in crisi dopo aver assistito a certi massacri ed aver letto Siracide 34, 18-21 che condanna chi si macchia di ingiustizia sanguinosa. Rinunciò così alla ricca encomienda di Cuba e minacciando l’Inferno ingiunse a tutti gli encomenderos di rinunciare subito agli indios in loro possesso. Era come ordinare la totale distruzione del mondo coloniale. Da allora iniziò la sua battaglia per la liberazione degli indios. Guidato da grande senso logico e di giustizia, ritenne il re di Spagna “obbligato” (se vuole “salvare la sua anima”) a restituire agli indios i loro regni ed a muovere guerra ad eventuali oppositori. Certo, gli interessi economici erano fortissimi: Las Casas non era un ingenuo. Ma sapeva che è dovere del cristiano opporsi all’orrore. Così, nel 1544 diserterà una ambasciata spirituale presso nuovi popoli: che pure aveva patrocinato. Qualche studioso si chiede perché. Per me il motivo è evidente: egli aveva già visto quante volte altri frati avevano, seppure involontariamente, aperto la strada ai massacratori.

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