Negli anni ’60 si impegnò contro la guerra nel Vietnam. Era 1 dei pochi che scrivesse certe canzoni. Per certi diventò forse una moda. Smise. Certo ora non ama la guerra più di quanto l’amasse 30-40 fa, ma ormai evita temi politici. E’ una scelta, condivisibile o meno. Ma questo non blocca il suo spirito ironico e satirico, come quando in una canzone si dice innamorato “della donna più brutta del mondo.” In effetti, il mieloso romanticismo è odioso.
Bob non è 1 rocker ma utilizza il rock. Non scrive contro certa politica ma fustiga il sentimentalismo: che per la O’Connor è deformazione del sentimento. Ed una società di sentimentali può compiere qualsiasi follia. A fine anni ’70 lui, ebreo e sempre insofferente verso dogmi e chiese, si fa cristiano. Ma è una fase; l’elenco di contraddizioni, dubbi e “cambi” di Bob è lungo. L’uomo ha detto: “Accetto il caos, non so se il caos accetti me.” Tangled è sintesi di questo e storia di una generazione.
Bob incise il brano nel ’75, a 34 anni: nel mezzo del cammin… In Tangled il protagonista ha una storia con una donna; lei divorzia, si mette con lui ma poi lo lascia. Lui gira tutto il Paese, vive come viene. Prima va a vivere con lei e con dei misteriosi “loro” in Montague Street. I testi di Bob sono spesso intrisi di simboli perciò difficili da interpretare: ma per me questo rende + stimolante l’interpretazione stessa. Es.: in inglese Montague significa Montecchi: il che richiama Romeo Montecchi e Giulietta. Qui il protagonista si trova davvero tangled cioè aggrovigliato in blue: che sta per blu ma anche per “tristezza”, “malinconia.” E blue è vicino a blues; la musica del Diavolo.
Si incontrano in 1 topless bar. A casa lei gli porge un libro di 1 poeta italiano del tredicesimo secolo. Dante? Bè, amore illecito e travagliato = Paolo e Francesca. Ma nella nota di copertina del disco che contiene Tangled (Blood on tracks), Pete Hammil assimila Dylan al 4centesco Villon ed afferma che è sopravvissuto “alla peste”; né giorni ed amori di Villon sono stati + tranquilli. In Tangled Bob si descrive come uno che continua ad andare come 1 uccello che non c’è più. E da un certo punto in poi, Villon scomparve.
Su “Tangled Up In Blue” & dintorni.
RispondiEliminaStavo giusto pensando a “Tangled Up In Blue”, l’altro giorno, quando ho letto il post di Riccardo. Ci stavo pensando perché quel buontempone di Bob Dylan, qualche sera fa, sul palco di Austin, Texas, seconda tappa del nuovo capitolo 2007 del Neverending Tour (millenovecentottantacinque concerti negli ultimi 19 anni), ha eseguito l’ennesima versione rivista e corretta di questo brano. La riscrittura non riguarda tanto la parte musicale, quanto un breve passaggio centrale della terza strofa del testo, là dove si parla di New Orleans, di un piccolo borgo di pescatori nella Louisiana chiamato Delacroix, e di un misterioso peschereccio sul quale il protagonista trova un impiego. Nel nuovo arrangiamento scompare il riferimento a Delacroix e resta invece il peschereccio, il quale però – rispetto ai versi originari – viene distrutto per ben tre volte.
Proprio un bel mistero. Ora, non oso immaginare i caroselli di interpretazioni e di commenti che si scateneranno nelle prossime ore all’interno della nutrita cerchia di dylanologi (tutte persone stimatissime, al di sopra di ogni sospetto, anche se un po’ ossessionate dal verbo del Vate di Duluth). Sono sicuro che molti di loro si chiederanno che cosa mai stia a simboleggiare il nuovo peschereccio. Altri si domanderanno attoniti: “perché destroyed three times?”. Ma, soprattutto, ognuno di loro si interrogherà nel tentativo di capire per mano di chi il peschereccio viene distrutto.
In attesa di scoprire il movente e i presunti colpevoli di questo spiacevole episodio (sarà stato l’uragano Katrina?), sono convinto che Bob Dylan, nelle settimane che verranno, troverà tempo e modo per stravolgere on stage qualche altro “sacro testo”. Così, giusto per non perdere l’abitudine di stupirci.
Tornando al post, il mio vecchio compagno di bevute – Riccardo, non Dylan – sostiene di essere stimolato dalla ricchezza di simboli presenti in “Tangled Up In Blue”, e in generale nella maggior parte dei testi delle canzoni di Dylan. Parole sante. Come quelle pronunciate qualche anno fa da Allen Ginsberg: “Bob Dylan è il maggiore Bardo & menestrello Americano del XX Secolo, le cui parole hanno influenzato molte generazioni in tutto il mondo. Egli merita il Premio Nobel in riconoscimento della sua imponente ed universale opera”.
Breve digressione.
Il fatto che Riccardo Uccheddu e Allen Ginsberg la pensino più o meno alla stessa maniera potrebbe suonare stravagante, ma credo che questo non debba destare eccessiva preoccupazione nel resto dell’umanità.
Fine della digressione.
I simboli di “Tangled Up In Blue”, dunque. Sono talmente tanti che si rischia di restare travolti e storditi. A leggere semplicemente il testo (che Dylan ha cambiato, modificato, limato e corretto più volte nel corso degli anni) si ha l’impressione di avere a che fare con una classica storia d’amore finita a puttane. Non a caso, è proprio nel 1974, anno di incisione del brano (anche se poi è stato pubblicato nel 1975), che il matrimonio tra Dylan e la moglie comincia ad andare in frantumi (i due divorzieranno nel 1977). E tutto l’album che contiene la canzone, “Blood On The Tracks”, è intriso di una forte vena cupa e malinconica. Il disco è ancora oggi considerato uno dei capolavori di Dylan. Ha avuto un successo straordinario, è stato acclamato dalla critica e ha venduto milioni di dischi. Questo il commento del musicologo Alan Rinzler: “L’album è la cronaca fedele di un’unione in profonda crisi”. Ecco la risposta spiazzante del musicista: “Non vedo come possa piacere tutta questa sofferenza”.
Dylan, in realtà, ha sempre negato che le canzoni dell’album avessero un qualche riferimento autobiografico. Questa è un’altra sua dichiarazione dell’epoca: “…prendi “You’re A Big Girl Now”, be’, ho letto che questa canzone parlerebbe di mia moglie. Vorrei che la gente mi chiedesse il permesso prima di uscirsene con cose del genere”.
D’altro canto, uno dei figli di Dylan, Jakob (leader della rock band “Wallflowers”), una volta si è espresso così: “mi piacciono molto i dischi di mio padre, li ascolto volentieri quasi tutti, ma “Blood On The Tracks” proprio no! Quel disco significa mio padre e mia madre che vanno in pezzi. Quale figlio ascolterebbe volentieri un album del genere?”.
“Tangled Up In Blue”, insomma, potrebbe essere una storia d’amore. Ma è anche una storia che mantiene ben visibili sullo sfondo i sogni infranti di un’intera generazione nell’America di Woodstock e della controcultura, la generazione degli anni sessanta e settanta.
Anzi, se volessimo leggerla come un’unica grande metafora, la canzone potrebbe proprio essere La storia di quei mitici anni, di ciò che significarono per milioni di giovani e anche per lo stesso Dylan, spesso e inutilmente sollecitato a ricoprire il ruolo di Profeta, veste che lui – con giusta e comprensibile irritazione – ha sempre rifiutato. Spingendoci ancora oltre, la canzone potrebbe descrivere i motivi della rottura, in quegli anni, tra lo stesso Dylan e i Movimenti Politici e Pacifisti che avevano chiesto all’artista di impegnarsi per la causa, per la pace e contro la guerra nel Vietnam. Motivi che, se dessimo per buona questa versione, Dylan sintetizza negli ultimi versi del brano : “…abbiamo sempre provato le stesse cose, solo che le vedevamo da un punto di vista differente, aggrovigliati nella tristezza”.
Dylan non ama parlare spesso delle composizioni che ha inciso. Ma ogni tanto ci regala qualche squarcio di luce, attraverso cui possiamo tentare di interpretare la sua opera. Ecco che cosa ha detto una volta in merito a “Tangled Up In Blue”.
“Stavo solo cercando di scriverla come se fosse un quadro in cui tu puoi vedere le diverse singole parti ma puoi anche vedere il totale del dipinto. Con quella canzone, in particolare, era quello che stavo cercando di fare... con il concetto di tempo, e il modo in cui i personaggi cambiano dalla prima persona alla terza persona, e non sei mai sicuro del tutto se stia parlando la terza o la prima. Ma quando getti uno sguardo d’insieme al totale non ha molta importanza”.
Certo, non è che abbia dato un grande contributo in termini di chiarezza. Per cui è necessario indagare ancora.
Puoi esserci d’aiuto, allora, sapere che le canzoni di “Blood On The Tracks” sono nate e cresciute in un periodo artistico che lo stesso Dylan ha definito “travagliato”, o qualcosa del genere.
“L’album – ha scritto il critico musicale Cameron Crowe – deriva molto del proprio stile dall’interesse di Dylan per la pittura. Le canzoni affondano in profondità e il loro senso della prospettiva e della realtà è in continuo mutamento”.
Per usare ancora le parole di Dylan: “Nel disco ho cercato non solo di fare in modo che il passato, il presente e il futuro esistessero tutti, ma anche che fossero tutti presenti nello stesso momento. Tu hai ieri, oggi e domani tutti nello stesso spazio e c’è molto poco che non puoi immaginarti succeda”.
Queste teorie sullo spazio e sul tempo Dylan le aveva elaborate frequentando a New York un corso di pittura tenuto da un personaggio alquanto stravagante, Norman Raeben, nato in Russia nel 1901, figlio del famoso scrittore Yiddish, Sholem Aleichem (1859-1916), meglio conosciuto per aver creato le storie di Tewje il Lattivendolo. Bob Dylan, in passato, non ha esitato a definire Norman Raeben una persona speciale. “Non c’è nessuno come lui”, ha detto.
Il cambiamento più importante, derivato dai mesi che Dylan aveva passato nello studio di Raeben, riguardava la maniera in cui aveva cominciato a comporre i testi delle nuove canzoni. Ancora parole di Dylan: “Tutti furono concordi nel dire che quel mio album era un qualcosa di davvero diverso dal solito, e quel che era diverso era il fatto che esisteva un codice nei testi, ed anche che non esisteva il senso del tempo”.
Cosa c’entra tutto questo con una storia d’amore? Siamo ancora convinti che “Tangled Up In Blu” siano una canzone che racconta il fallimento di una relazione sentimentale? O, come al solito, è Dylan che si diverte a mescolare le carte in tavola per farci vedere qualcosa che non esiste?
C’è chi ha preso molto sul serio la questione dei simboli che appaiono e scompaiono all’interno del brano. E ne ha tratto conclusioni che alcuni non esiterebbero a definire sconcertanti.
Secondo un gruppo di studiosi ed esperti (tra i quali l’italiano Nicola Menicacci, autore del volume “Bob Dylan, L’ultimo cavaliere”, edizioni Hermatena 2005), in tutto il disco c’è un abbondanza, senza precedenti nell’opera dylaniana, di messaggi cifrati. Anzi, sotto questo aspetto “Blood On The Tracks” sarebbe proprio uno degli album di Dylan più importanti. E vi si troverebbe un vero e proprio codice simile a quelli che si potevano trovare nei quadri di Leonardo da Vinci, Botticelli o Nicolas Poussin. L’opera di Dylan, insomma, nasconderebbe degli indizi attraverso i quali, dietro simboli apparentemente normali, è possibile tramandare un messaggio esoterico alle generazioni future. L’album in questione sarebbe “un lungo viaggio all’interno del pensiero gnostico e di quelle correnti che la Chiesa di Roma aveva definito eretiche, perché minacciavano i fondamenti sulla quale essa stessa si fondava”.
Come leggere allora, sulla base di queste asserzioni, il testo di “Tangled Up In Blue”? La canzone non celerebbe altro che il racconto della storia d’amore tra Gesù e Maddalena, estendendo il cosiddetto tema della Sposa Perduta, The Lost Bride. La donna alla quale il personaggio principale sta pensando all’inizio del brano sarebbe proprio Maria Maddalena, discendente della tribù dei Maccabei, la sposa devota di Cristo, non una semplice prostituta, come afferma il cattolicesimo ufficiale, ma la madre dei figli di Gesù. E tutta la canzone ruoterebbe attorno a simboli e messaggi cifrati ben precisi, per raccontare (con una struttura abbastanza complessa) la vicenda di Maddalena (la sposa) costretta ad andarsene e a rimanere separata da Gesù (il suo uomo).
Ci sono i capelli della donna, capelli rossi, colore associato alla nobiltà e alla fecondità. Si parla di un matrimonio, di una separazione e di una fuga (quella di Gesù sopravvissuto alla crocifissione?) verso Ovest (in Francia?), in una notte buia. C’è il peschereccio (eccolo!), e i pesci erano un messaggio in codice per i primi cristiani che si incontravano clandestinamente nelle catacombe. C’è il borgo di Delacroix (altro messaggio, Delacroix in francese vuol dire “Della Croce”). C’è la ragazza che lavora al topless bar che si china per allacciare le scarpe al protagonista. Una posizione che ricorda da vicino la Maddalena che lava i piedi a Gesù. E così via.
L’intero album, con canzoni dalle liriche molto più sibilline di “Tangled Up In Blue”, rimanderebbe dunque a numerosi concetti chiave delle principali teorie esoteriche. “Nel doppio fondo delle liriche di un matrimonio in disfacimento”, scrive Nicola Menicacci, “si nasconde un mistero vecchio di duemila anni”. Ovviamente, Dylan – secondo i seguaci di queste interpretazioni – non si sarebbe limitato a sparpagliare gli indizi massonici solo nell’album in questione, ma avrebbe disseminato altri codici e segni cifrati in buona parte della discografia, almeno sino alla metà degli anni ottanta.
Esagerazioni? Forzature? Coincidenze? Banalità? Stupidaggini? Davvero non lo so. A chi non conosce “Blood On The Tracks” offro un solo consiglio: compratelo subito, non ve ne pentirete. A chi già lo conosce, invece, consiglio di procurarsi una copia delle prime registrazioni dell’album, quelle che poi non vennero pubblicate perché Dylan decise di incidere nuovamente tutti i brani. A tutti gli altri ricordo ciò che ha scritto Michael Gray: “Non so come, ma un qualche aggiustamento della nostra consapevolezza dovrà ora derivare dal fatto che Dylan, con ‘Blood On The Tracks’, ha prodotto uno degli album più incredibilmente intelligenti degli anni settanta”.
Da dove ha preso la citazione di Raeben?
EliminaGrazie
fantuzzi.ilario@gmail.com
Rif. Gianni Zanatta
RispondiEliminaHo letto il tuo commento, caro Gianni, con un sentimento molto vicino alla… venerazione. Scherzi a parte, è molto bello e più che documentato. Rispetto ai testi d’altri dynalogi e dylaniati (definizione quest’ultima dei fans del grande Bob) ha poi l’inestimabile pregio d’esser chiaro!
Alcune cose non le avevo mai neanche sospettate: per es. l’interpretazione di “Tangled” in chiave vangeli apocrifi (Dan Brown, sparisci!). Altre non le sapevo proprio, penso al peschereccio distrutto per tre volte… vago accenno al Cristo che risorse dopo tre giorni? Chissà.
Ma non importa, perché in Dylan quel che conta è anche quel continuo rimando, spesso irriverente, a situazioni e “luoghi” colti di letteratura e pensiero umani, il comporre e scomporre l’io, il giocare col tempo…
Inoltre, nel tuo commento leggo che Dylan frequentò un corso di pittura tenuto dal figlio di Sholem Aleichem, il grande scrittore yiddish. Ecco, questo è un altro aspetto interessante. Il rapporto dell’ebreo-americano Zimmerman con l’ebraismo, cultura-religione del dubbio ed insieme della devozione. Un aspetto, quello del Dylan “ebraico” forse poco indagato o comunque sempre molto stimolante.
Ma è inutile commentare… un commento come il tuo. Penso proprio che andrò a rileggermelo anche se, data l’ora, non con un bel mirto. A presto!
Bellissimi questi due commenti.
RispondiEliminaTralasciare il Dylan ebreo significa sostanzialmente ignorare Dylan. Dylan non avrebbe potuto essere ciò che è se non fosse cresciuto all'ombra di quella cultura. Sarebbe qualcosa di diverso. E basta.
"Blood on the Tracks" è per tanti aspetti il capolavoro assoluto di Dylan. A mio avviso lo sarebbe stato ancora di più se alcuni brani, fra i quali la stessa "Tangled Up in Blue", non fossero stati ri-registrati a Minneapolis.
Ma sono gusti.
Quando Dylan, dopo Newport 1965 si stacca dai movimenti di massa diventa un enorme oggetto introspettivo. La sua vivacità intellettuale, unita al dono della maestria nelle parole, lo rende uno dei soggetti più inteessanti nella creatività artistica del XX secolo.
Il suo recente e progressivo declino nell'espressione musicale non ne altera minimamente la consistenza, perché accanto ad una vena musicale che sembra affievolirsi e attorcigliarsi su se stessa (in attesa di un'altra zampata) spunta una scrittura magnifica. I suoi "Chronicles" sono meravigliosi.
Credo che tutti attendiamo il secondo volume con trepidazione.
Rif. nicola menicacci
RispondiEliminaCommento dal punto di vista musicale e concettuale molto e denso e stimolante il tuo, Nicola.
In effetti, penso anch’io (e da tempo) che non si possa “staccare” Dylan dall’ebraismo, inteso non solo come religione ma proprio come modus vivendi.
Il fatto stesso che Dylan sia sempre andato controcorrente, anche quando avrebbe potuto cavalcare l’onda folk (ottimo il tuo richiamo a Newport) prova la validità di quel che diceva Freud, sull’ebreo che è disposto a stare all’opposizione anche da solo.
E quando un artista è grande, sa davvero ripiegarsi su sé stesso in attesa, come dici, di “un’altra zampata.”
Sarebbe davvero interessante studiare Dylan anche in rapporto all’ebraismo, magari per scoprire i legami tra il suo caustico e sottile umorismo e lo spirito, per es., di certi maestri del Talmud.
In ogni caso, benvenuto sul treno… cioè, sul blog.
Grazie tante, Riccardo, per il benvenuto.
RispondiEliminaHo parlato in modo copioso dei rapporti tra Dylan e l'ebraismo in molti dei miei articoli pubblicati sul "Bob Dylan Critica Corner", e nel mio libro un intero capitolo, quello su "Infidels", analizza a fondo l'identità ebraica.
Per esempio, cosa ci sta a fare la Regina di Saba in "I and I"?
Rif. nicola menicacci
RispondiEliminaSono felice, Nicola, di sapere che hai scritto sul legame Dylan-ebraismo. Poi, esplorando il tuo blog ho trovato cose che sto leggendo… avidamente. Così, mi procurerò presto il tuo libro.
Di “Tangled up in blue” mi interessa parecchio anche la concezione del tempo elaborata dal Nostro: non lineare, anti-aristotelica. Da un saggio di Robert Aron risulterebbe che una concezione simile abbia attraversato alcune comunità e correnti culturali appunto ebraiche (nell’Est Europa).
Ed a me, in “quel” Dylan stimola molto (anche come “scrittore” e poi per i miei interessi filosofici) tale lato… metafisico.
Ciao.
Vi segnalo l'articolo di Fabio Fantuzzi "I dieci comandamenti dell'Arte" (di Raeben) su Musica/Realtà N° 105 Nov 2014. Fabio ha materiali inediti di Raeben: se qualcuno può collaborare a pubblicarli, si faccia sentire!
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