venerdì 17 luglio 2015
Il lavoro che brucia
Il 12 giugno 2015 su
Controlacrisi.org Fabio Sebastiani
ha pubblicato un articolo dal titolo Il lavoro uccide di
più, anche senza ferire. La competizione individuale aumenta il
burnout. I risultati di uno studio internazionale.
Ora, il fatto
che il lavoro possa uccidere o comunque provocare danni gravissimi al
fisico ed alla psiche delle persone può essere considerato in molti
modi.
Il primo è
quello tradizionale, quello cioè che collegandosi a Genesi
3,19 proclama: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane.”
Stando al
racconto biblico, Adamo ed Eva hanno appena trasgredito al precetto
divino (la famosa mela) e Dio li caccia dal Paradiso terrestre,
condannandoli ad una vita di sacrifici, grandi pericoli e durissimo
lavoro. Appunto il lavoro si presenta quindi come una punizione o
una maledizione. Del resto, che esso sia molto faticoso e
spesso per niente gratificante, è innegabile.
In latino
“lavoro” si dice labor, che significa anche “fatica”,
“sforzo”, “pena.” Addirittura, in Columella (I sec. d.C.)
labor acquista anche il senso di malattia.
In inglese, la
parola career che significa carriera: “Rimanda a una
'strada per carri'”; ancora: “Nell'inglese del Trecento la parola
job (“lavoro”) indicava un blocco o un “pezzo”,
qualcosa che poteva essere spostato da una parte o dall'altra.”1
Anche qui,
“farsi una carriera” implica una costante ed immane fatica.
Già
nell'Odissea Sisifo era condannato a portare in cima ad
una montagna un masso che cadeva sempre giù a valle; masso che
doveva recuperare e riportare su. Ogni volta invano. La famosa
“fatica di Sisifo.”
In dialetto
napoletano lavorare si dice faticà: anche qui abbiamo il
concetto di un grande sacrificio, non di qualcosa di positivo a
priori.
Probabilmente
l'analisi di altre lingue, dialetti e culture confermerebbe quanto
detto sinora.
Ma accanto a
questa visione del lavoro, ne esistono anche altre: il lavoro
come fatica ma anche come autorealizzazione ; o come
condivisione con altri di esperienze, tecniche e saperi; come
gioco, per es. nell'arte e nello sport; come ricerca,
per es. nel caso della storia, della filosofia, della critica
letteraria, dell'indagine scientifica e così via.
Ora, nessuna
di queste visioni accantona l'idea che il lavoro richieda fatica e
sacrificio.
Ma il discorso
cambia quando la dimensione lavorativa richiede prezzi francamente
eccessivi. Come, infatti, dimostra articolo di Fabio, il “burnout”
ti brucia anche quando sul posto di lavoro non muori.
Anche quando
poi la mortalità sul luogo di lavoro diminuisce, ciò dipende solo
dal fatto che a causa di una devastante crisi economica come
l'attuale, diminuiscono anche le persone impiegate.
Ma appunto sul
posto di lavoro, la mortalità continua ad esistere. Fabio
cita, infatti, una ricerca internazionale: “I cui risultati sono
stati resi noti la scorsa settimana nel corso di un convegno della
fondazione Rodolfo Debenedetti.”
Lo studio ha
evidenziato come vi sia una “correlazione diretta” tra l'aumento
della “concorrenza internazionale” ed il “tasso di mortalità
tra i lavoratori del settore manifatturiero.” Questo aumento ha
comportato un aumento di mortalità sia in Italia che negli USA.
Si tratta di
dati ufficiali che però (come è noto) non tengono conto del fatto
che molto spesso, le persone impiegate lavorano in nero;
perciò le imprese hanno tutto l'interesse a non segnalare eventuali
decessi.... che ufficialmente, non avvengono.
Gli stessi
lavoratori, che trovandosi in stato di necessità o di non regolarità
con la legge (“assunti” da organizzazioni criminali, immigrati,
profughi ecc. ecc.) e che subiscano un grave infortunio, temendo di
perdere il lavoro e/o di essere scoperti, decidono di tacere. In caso
di morte, per gli stessi motivi, i loro compagni o parenti compiono
la stessa “scelta.” I dati reali sono quindi sicuramente più
alti.
Secondo gli
studiosi Adda e Farwaz: “Le cause di morte sono le più varie:
aumento di suicidi, dei casi di cirrosi epatica e delle patologie
respiratorie.”
Ritmi di
lavoro sempre più frenetici, compressione dei diritti, scarse misure
di sicurezza, frequente rischio e/o minaccia di licenziamento,
salario spesso esiguo e che inoltre viene corrisposto con lentezza...
tutti questi fattori determinano una situazione di intollerabile
stress psicofisico.
Ancora:
“Veneto, Lombardia e Piemonte sono le regioni più interessate al
fenomeno.”
Ecco, questo è
un dato davvero sorprendente: di solito pensiamo che il nord-est sia
terra di benessere. A quanto pare, il benessere è prodotto sì dai
lavoratori, ma va a beneficio di altri.
Addirittura:
“Secondo altre fonti, il 'burnout' colpisce in Europa il 22% di chi
ha un impiego.”
Quest'ultimo
dato è ancora più sorprendente perché non si parla solo dei
lavoratori del sud-Europa ma proprio di quelli dell'”Europa”: ci
si riferisce quindi anche ai lavoratori tedeschi, inglesi ecc. ecc.
Per es., di recente il personale della tedesca Lufthansa è
stato impegnato in una dura vertenza coi vertici dell'azienda,
proprio per condizioni di lavoro eccessivamente pesanti.
Ancora, agli stessi lavoratori dell'ospedale della Charitè di Berlino è toccato ricorrere allo strumento dello sciopero, così come hanno dovuto fare i loro colleghi di Parigi.
Eppure (cito
ancora dall'art. di Fabio): “I Paesi scandinavi ed i Paesi Bassi,
dove i lavoratori godono di una maggior autonomia, registrano meno
casi di stress lavorativo.”
A questa
conclusione pervengono gli esperti dell'Agenzia europea per la
sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) e della Fondazione europea
per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro
(Eurofound).
Evidentemente,
quando i lavoratori non sono trattati come bestie da soma ma come
esseri sociali e razionali, allora possono e vivere e lavorare
molto meglio. Il che implica il fatto che possano prendere decisioni
autonome e direttive.
Quanto detto
sinora dovrebbe portare a riconoscere la follia di un sistema
economico-sociale che trasforma le persone in omini nevrotizzati come
il personaggio rappresentato da Chaplin in Tempi moderni.
Né può
servire il mito della “concorrenza”, della “competizione”
ecc. ecc., o le ricette del “rigore” di cui cianciano sempre
istituzioni come il Fmi, che a proposito per es. della Grecia ha
ammesso d'aver sbagliato i calcoli, ma continua a proporre le
famigerate ricette!
Non abbiamo
bisogno di un mondo (non dico mercato sennò penso a
quello del bestiame) del lavoro che ricorda le antiche società
schiaviste... sia pure in salsa tecnologica.
Del resto, i
costi sul piano sociale ed umano che questo modo di lavorare ci
impone, sono determinati da una disciplina davvero rigida, diciamo
pure di tipo militare. Come infatti scrisse Max Weber: “Non richiede una particolare dimostrazione
il fatto che la 'disciplina militare' sia invece il modello ideale
non soltanto della piantagione antica, ma anche della
moderna impresa capitalistica.”2
Infatti, sia
per Weber che per i seguaci di questo modello lavorativo (che spesso
non posseggono la finezza di analisi del sociologo) ciò che conta è
la “meccanizzazione” nel processo produttivo: una meccanizzazione
che per Weber si presenta come “razionalizzazione.”
Ma forse dovremmo chiederci che cosa possa mai esserci di razionale in
un sistema che adatta “l'apparato psicofisico degli uomini” allo
“strumento” ed alla “macchina.”
Su
un versante più morale che economico-sociale, ma comunque
nobilissimo, già Thoreau aveva scritto nel 1848 che “la
massa degli uomini” serve lo Stato: “Non come uomini coraggiosi
ma come macchine.”3
Del resto Weber aggiunge che così
l'apparato psicofisico umano: “Viene spogliato del suo ritmo” e
dunque “riordinato completamente in corrispondenza delle condizioni
di lavoro.”
Questo modo di lavorare può
essere descritto in termini più semplici come sfruttamento ed
alienazione. Inoltre,
tutta questa insistenza su competizione, disciplina e meccanizzazione
del lavoro non dovrebbe essere accettata come una sorta di destino o
di dato naturale, come tale indiscutibile o addirittura giusto.
Almeno
in teoria dovremmo essere usciti dallo schiavismo secoli fa. Ma come
prova l'articolo di Fabio, certe uscite non
sono mai definitive e necessitano sempre di vigilanza,
controinformazione e volontà di cantare fuori dal coro.
Note
1 Richard
Sennett, L'uomo flessibile (1999), Feltrinelli, Milano, 2001,
p.9.
2 Max Weber,
Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano, 1995,
vol.4, p.268. I corsivi sono miei.
3 Henry David
Thoreau, La disobbedienza civile, Corriere della Sera, Milano, 2010, p.19.
Qui scorgiamo
una certa affinità con analisi che privilegiano il fatto
economico-sociale, come quando leggiamo che: “L'operaio diventa un
semplice accessorio della macchina”; cfr. Karl Marx Friedrich
Engels, Manifesto del partito comunista (1848), nella
traduzione di Antonio Labriola, Tascabili economici Newton, Roma,
1994, 1, p.24.
Ancora: “Delle masse di operai addensate nelle
fabbriche ricevono una organizzazione militare.” Essi: “Non
sono soltanto gli schiavi della classe borghese e dello stato
borghese, perché sono tutti i giorni e tutte l'ore gli schiavi
della macchina, e del vigilatore, e soprattutto del singolo
padrone della fabbrica”; K. Marx F. Engels, op. cit., pp.24-25. I corsivi sono
miei.
4 M. Weber,
op. cit., p.268.
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Ottime riflessioni, che condivido, quindi ne aggiungo un paio. Non sono credente, ma in nessun "paradiso" di nessuna religione (cioè, in linea teorica, il luogo ideale dove passare il tempo), si lavora, mentra nei campi nazisti campeggiava la scritta Il lavoro rende liberi ....
RispondiEliminarif. Alligatore
RispondiEliminaTi ringrazio per aver apprezzato, Diego.
Molto interessante anche quanto hai aggiunto... in effetti, dove non dovrebbe esistere punizione e dolore ma solo gioia e giustizia, il lavoro non dovrebbe esistere.
La scritta (volutamente e crudelmente derisoria) nazista, sta purtroppo trovando una certa attualizzazione anche oggi...
Conosci la canzone di Ricky Gianco "La loro democrazia" (che ha tradotto dall'originale di, se non erro , di Jeff Buckley)?
Sull'originale devo però ri-documentarmi. Il pezzo di Gianco è però notevolissimo.
eif. Alligatore
RispondiElimina"Call it democracy", di Bruce Cockburn.