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giovedì 19 giugno 2014

Esplorando Thomas Bernhard


Thomas Bernhard nacque a Heerlen, in Olanda nel 1931 e morì a Gmunden, in Austria nel 1989. Straordinaria la frase con cui la nonna gli trovò un lavoro in un giornale austriaco: “E' mio nipote, non sa fare niente; sa soltanto scrivere.”
La caustica frase dell'anziana signora era probabilmente tipica di una mentalità, non so se austriaca o solo salisburghese (la città dei genitori di Bernhard) contro cui lo scrittore si sarebbe scontrato per tutta la vita... L'idea cioè che l'arte ed in fondo anche la filosofia debbano essere schivate come la peste; insomma, Dante, Socrate, Goethe, Kant ecc. ecc. sarebbero stati dei grandissimi idioti. Del problema si occupò anche Achille Campanile nel suo Vite degli uomini illustri.
Ma Bernhard non si arrese mai a questa mentalità.
In ogni caso, a 16 anni lasciò il ginnasio ed iniziò a lavorare come apprendista in un negozio di generi alimentari nel quartiere, considerato malfamato, di Scherzhauserfeld; è questo il tema del romanzo autobiografico La cantina (T. Bernhard, La cantina (1976), Adelphi, Milano, 1984).
Nota bene: egli fece questo di propria iniziativa, non col consenso né su imposizione della famiglia. Così, appena adolescente iniziò a sgobbare alla grande; comunque come scrisse ne La cantina, al ginnasio aveva voglia di suicidarsi. Ma lavorando a Scherzhauserfeld... rinacque!
Chi legga le opere di Bernhard può accusarlo di misantropia; facile accusa. E' misantropo chi detesta o addirittura odia l'umanità. Certo, spesso lui polemizza con tanta gente e la sua penna ferisce.
Ma io penso che Thomas non sopportasse chi finge di esserti amico e chi pretende di conoscerti perfettamente quando questo è impossibile anche a noi stessi... egli detestava poi l'intervistatore che gli rivolgeva delle domande assurde o banali e si infuriava quando qualcuno invadeva i suoi momenti di riflessione. E gli piacevano le persone corrette, non quelle fintamente buone.
Inoltre denunciava il miscuglio, in Austria, di cattolicesimo e mentalità nazista che a suo avviso esisteva ancora, a decenni dalla fine della guerra. E pare che su questo punto tra gli artisti d'Austria concordassero il marito di Maxie Wander, Fred, la scrittrice Jelfriede Jelinek e la poetessa Ingeborg Bachmann.
Thomas, inoltre, non aveva timori reverenziali verso certi mostri sacri della cultura: per esempio, in Antichi maestri attacca Heidegger del quale dice: “Heidegger è il filosofo dei tedeschi in pantofole e berretto da notte.” Ed aggiunge: “Heidegger è un piatto forte della filosofia tedesca, e fa sempre un figurone, lo si può servire ovunque e a qualsiasi ora(...), è un budino di letture, insapore ma facilmente digeribile per l'anima tedesca media.
Se non erro, in un punto di Goethe muore, Bernhard attacca con discreta violenza anche Popper.
Leggendo T. Bernhard, che secondo me doveva avere molto dello spirito giocoso ed irriverente di Mozart, (altro enfant terrible di Salisburgo) in lui si coglie anche della voglia di divertirsi... non solo di fustigare uomini o costumi. Penso che tutto questo risulti dalle espressioni usate dal Nostro, per quanto colleriche possano sembrare.
In Conversazioni con Thomas Bernhard egli osserva infatti che: “Ci sono persone tanto tenaci, che non capiscono o non sentono assolutamente niente. Diventano subito insolenti se, per esempio, non si apre la porta, allora picchiano con questo batacchio, come se la volessero fare a pezzi dalla rabbia, e i vicini dicono 'E' in casa.' A Vienna vivo addirittura nell'anonimato.”
In effetti, è il sogno soprattutto dell'artista, quello di vivere in splendida solitudine (che non è isolamento) per poter creare senza interferenze da parte del mondo esterno. L'artista che perda questa sua volontaria solitudine finisce per vivere male e per creare peggio. Del resto, lui non va in giro a seccare nessuno, allora perché gli altri lo fanno?!
Qui ci troviamo di fronte ad una contraddizione, che però per me è solo apparente: come diceva Lennon, un artista lavora soprattutto a casa. L'artista potrà anche fare tutte le esperienze di questo mondo, ma poi deve concretizzare, dare forma compiuta ad esse... e per farlo deve rimanere da solo e tranquillo. Nessuno può creare davvero con una folla che gli invade la casa e gli fracassa concentrazione ed ispirazione.
Comunque sempre nelle Conversazioni citate Bernhard, benché consapevole che: “Nessuno dovrebbe rinchiudersi e sbarrare tutto”, aggiunge “ma se apro la porta la gente entra dentro; vengono qui pensando di essere a casa propria. Come se io fossi una specie di giraffa che si può guardare, che è comunque a disposizione del pubblico.”
Allora, l'artista che non voglia passare da “giraffa”, sa che: “Ogni persona vuole partecipare a qualcosa e nello stesso tempo essere lasciata in pace. Siccome le due cose, in realtà, sono inconciliabili, si è sempre in conflitto con sé stessi.”
E davvero il dissidio tra inclinazione a creare e desiderio di stare con gli altri è lacerante. Penso che seguendo la prima strada ci sia il rischio di realizzarsi come artista ma di fallire come essere umano; seguendo la seconda, si può fallire come artista e realizzarsi come uomo, o come donna.


Ma forse le cose non sono poi così tragiche, magari sono solo un un tantino drammatiche. Credo che Bernhard ci avrebbe riso sopra. Senz'altro. E quasi quasi, lo faccio anch'io. Perché un artista sa sempre che cosa fare; soprattutto quando non lo sa.

venerdì 13 giugno 2014

La discussione filosofica (16/a parte)*


Spesso chi voglia ragionare di filosofia si lancia in lunghe, talvolta interminabili polemiche. Non di rado questi infuocati polemisti difettano d'effettiva padronanza della materia e degli argomenti che affrontano.
Ora, questo non è necessariamente un male: anzi io apprezzo l'entusiasmo e che alcuni/e vogliano dedicare parte del loro tempo a qualcosa di così difficile ed anche poco divertente come appunto è la filosofia.
Quel che conta è che queste persone siano disposte a prendere sul serio la discussione filosofica: il che significa cercare di capire le tesi del loro interlocutore ed eventualmente accettare la correzione dei loro errori.
Purtroppo, questo capita di rado. Già Platone osservava che per es. “i giovincelli, quando la prima volta assaggiano l'arte del ragionare, ne usano come di un gioco, servendosene sempre per contraddire; e scimmiottando quei che li confutano, van loro confutando altri, godendo come dei cagnolini a trascinare e sbranare coi ragionamenti chi si trovi via via loro vicino.”1
Ma per me tale discorso non riguarda solo i giovincelli. Comunque, il sopraggiungere della cosiddetta “maturità” conduce tanti/e a considerare le questioni più importanti ( il problema del bene e del male, quello della giustizia, della conoscenza, di una umana convivenza civile ecc.) roba da idealisti o da... perdigiorno!
Ammucchiare (spesso non onestamente) danaro, lanciarsi in avventure in fondo pseudopolitiche (perchè in esse ci si disinteressa del bene comune), scolpire il proprio corpo in palestra, considerare le donne o gli uomini semplici prede sessuali, non perdersi una partita di calcio ecc. ecc., tutto questo dalla maggior parte delle persone è considerato davvero importante.
Ma in filosofia il duro ed umile tirocinio passa per folle o inutile. Così, certo giustamente, si pensa che per qualsiasi scienza, mestiere, tecnica o professione serva una preparazione specifica. Addirittura: “Si ammette che per fare una scarpa, bisogni avere appreso ed esercitato il mestiere del calzolaio”, ma: “Solo pel filosofare non sarebbero richiesti né studio, né apprendimento, né fatica.”2
Così, spesso pensa di capire la filosofia perfino chi possegga il “fondamento di un'ordinaria cultura” e soprattutto chi si affida a dei “sentimenti religiosi”3, peraltro genericamente intesi. Tutto questo spiega perché tante persone dimostrino tanta sicurezza in fatto di filosofia, laddove un certo Socrate (che come è noto asseriva di non sapere) doveva capirne pochino...
Ma il vero problema nasce quando la discussione filosofica avviene con chi della disciplina ha una conoscenza ma cerca il cavillo o come si dice popolarmente, va a cercare il pelo nell'uovo. Infatti, poiché in filosofia direi qualsiasi argomentazione, idea o teoria conterrà sempre qualcosa di non totalmente esatto (i filosofi non sono divini), questo permetterà al cavillatore di scovare senz'altro qualcosa a cui aggrapparsi per “dimostrare” che la tesi altrui è errata.
Così questo simpatico personaggio, olimpicamente indifferente al senso complessivo del pensiero da lui criticato, senso che peraltro gli è chiaro, bollerà indifferentemente l'altrui pensiero di astrattezza o all'opposto, di ovvietà. Di sentimentalismo o di cinismo. Di ignoranza o di esibizionismo culturale. Di illogicità o di pedanteria...
L'accusa, condotta sul filo di una polemica in apparenza bonaria ma in realtà parecchio astiosa, attribuirà all'avversario e/o alle sue tesi colpe e difetti d'ogni tipo.
Del resto, per chi abbia una purchessia preparazione filosofica e soprattutto una certa attitudine al cavillo, un'operazione come quella risulta facile: gli basterà fondare le sue critiche sul “buon senso” che porta l'uomo della strada a diffidare di qualsiasi cosa si allontani di un cm dal suo naso e dal ritenere “illogico” l'uso di alcuni termini. Crederà così d'aver ridotto la filosofia ad una sorta di delirio che non reggerebbe il confronto col più scalcinato dei telequiz: nei quali, almeno: “A è a e b è b, diamine!”
L'esasperato culto quindi della logica formale, quella che è stata codificata da Aristotele (e che si fonda sul principio di non contraddizione) viene utilizzato come un killer per assassinare qualsiasi tesi non rientri in un quadro evidentemente già dato, precostituito. Un po' come se uno dicesse: “Va' dove vuoi, ma non uscire da questa stanza.”
A fine '600 commise questo errore perfino il filosofo tedesco Leibniz, che attribuì alla personalità ed al pensiero di Abelardo un'irrazionale ed irritante inclinazione a contraddire comunque il prossimo. “Perché in fondo, non si trattava che di una logomachia: egli alterava l'uso dei termini.”4
Letteralmente, logomachia significa “battaglia di parole.” Per Leibniz uno dei filosofi più importanti del Medioevo era solo un noioso parolaio.
Eppure, già Cicerone aveva chiarito quel che ribadirà Abelardo nel XII secolo: “Soprattutto ci ostruisce il cammino verso la comprensione l'insolita forma dell'espressione e il più delle volte il diverso significato delle medesime parole, per il fatto che lo stesso termine in alcuni casi è utilizzato in un significato, in altri in un altro.”5
Nessuna alterazione dei termini quindi ma semmai un loro ragionato e ragionevole (perciò prudente ed onesto) utilizzo.
Di un problema simile si occuperà nel '900 anche Gramsci quando osserverà che: “Tutto il linguaggio è diventato una metafora e la storia della semantica è anche un aspetto della storia della cultura: il linguaggio è una cosa vivente e nello stesso tempo un museo di fossili della vita passata.  Quando io adopero la parola "disastro" nessuno può imputarmi di credenze astrologiche, o quando dico “per Bacco” nessuno può credere che io sia una adoratore delle divinità pagane, tuttavia quelle espressioni sono una prova che la civiltà moderna è anche uno sviluppo del paganesimo e dell'astrologia.”6
Ma ripeto, chi insista sulla sola logica formale finisce per sembrare più realista del re, poiché né l'ambiente di studi studi aristotelico (il Liceo) né lo stesso Aristotele diedero appunto alla logica particolare importanza.7
Che dire? Purtroppo saranno sempre all'erta quelli che esamineranno con comica anzi ridicola severità (ben lontani quindi dalla latina gravitas) le tesi altrui. Abelardo chiamò costoro “pseudodialettici” cioè falsi dialettici: si riferiva a quei “professori di dialettica” che presumevano di poter spingere il proprio pensiero oltre quello di chiunque altro.8
Ma in questo, essi finivano paradossalmente per assolutizzare la loro filosofia: il paradosso consiste nel fatto che l'autentica dialettica, la vera filosofia deve criticare anche sé stessa e se non fa questo, della vera dialettica ha solo la maschera.
La vera dialettica deve invece trovare alimento anche nei propri errori, vale a dire correggendoli in modo da far progredire realmente il proprio discorso... e forse, contribuendo in questo al miglioramento anche alle riflessioni altrui. Una filosofia così intesa si presenta quindi come un sistema animato da una permanente, continua volontà di automiglioramento.
Bene,con questa 16/a parte chiudo con l'esame dell'eccesso di critica, esame che spero d'aver concluso in modo soddisfacente.
Buoni mondiali!

Note

* Ho pubblicato su questo blog le precedenti parti di questo post rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011;
La 6/a il 15/11/2012; la 7/a l'8/12/2012.
Il riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il 21/02/2013.
Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013; la 10/a il 5/10/2013, l'11/a il 30/10/2013, la 12/a il 16/11/213.
Il riepilogo di questo post (dall'8/a all'11/a parte) è stato pubblicato il 13/12/2013.
La 13/a parte è stata pubblicata il 19/01/2014 e la 14/a l'8/02/2014.
La 15/a è stata pubblicata l'8/03/2104.


1 Platone, La repubblica, Fabbri Editori/Bur, Milano, 2000, vol. II, p.276. Il corsivo è mio.
2 G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Laterza, Roma-Bari, 1980, Vol. I, §5, p.8.
3 G. W. F. Hegel, Enciclopedia, op. cit.,p.8.
4 Pietro Abelardo, Teologia del sommo bene, a cura di Marco Rossini, Rusconi, Milano, 1996, p.45.
5 M. Rossini, Introduzione a P. Abelardo, Teologia del sommo bene, op. cit., p.23. La citazione è tratta dal Prologo alla più nota e controversa opera di Abelardo, il Sic et non (Sì e no).
6 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell'Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 2007, p.438.
7 Eric Weil, Filosofia e politica, Vallecchi Editore, Firenze, 1965, pp.51-52.

8 P. Abelardo, Teologia del sommo bene, op. cit., p.100.

lunedì 2 giugno 2014

Cronaca di un simpatico pomeriggio


In questo momento sono le 16.45 del 21 ottobre 2013; quindi sono passati 51 anni dalla mia irruzione in this world, insomma in questo mondo.
Sono comodamente assiso sul 19 (un bus ultramoderno) e viaggio in compagnia del Bue Muto e della Vecchia Signora, destinazione Quartu S. Elena.
Farei a meno dell'aria condizionata ma visto che a Kalaris, Caller, Kar-El, Casteddu, insomma Cagliari stiamo ancora andando al mare, penso che vada bene anche l'aria complessata; pardon, condizionata...
Non so se la Vecchia Signora ed il Bue Muto accetteranno di farsi mettere alla porta, ma in questo periodo ho altro ed altri per la testa.
Per esempio (o come dicono i Tedeutschi, zumspiel) rimettere mano a quel libro di filosofia che secondo me, vorrebbe farsi finire di scrivere.
Oppure comprarmi una bicicletta, o clettabici che dir si voglia.
O anche cercarmi una nuova casa editrice... visto che la vecchia ha chiuso.
Soprattutto, cucinare quella cena medievale di cui parlo invano da tanti, troppi anni.
Insomma, la Alte Dame ed il Bue Muto dovranno aver pazienza... come dicevano le belve ai cristiani mentre li divoravano.
La serata non è più calda ma è ancora tiepida. Signor autista, perchè non spegne la maledetta aria condizionata? Sento un freddino...
Mi ricordo della visita alla Grande Diga (Groet Dam, in olandese?) di Volendam. Si trattava di Volendam, ja? Devo chiederlo a mia moglie, lei lo ricorderà senz'altro.
Ah: non devo dimenticare, a giugno, di presentare le domande di supplenza.
Ora una piccola pausa, ladies and gentleman: sto per arrivare a Quartu, devo prepararmi per scendere dal bus... conservare la penna, il quaderno, rimettermi gli occhiali ecc. A tra poco, non cambiate blog.
Rieccomi!
Sapete che la Vecchia ed il Bue hanno hanno fatto un sacco di storie, per scendere dal pulmo? Ho dovuto prenderli a calci.
In biblio (teca) la bibliotecaria aveva in mano dei cd dei … Kiss! Volevo chiederle. “Ah, segue anche lei i Kiss?”
Ma non ne ho avuto il coraggio.
Così ho preso in prestito qualcosa sulla Germania di Nicolao Merker e sono scappato via mentre la Vecchia Signora si è staccata una gamba di legno (o di ferro) e brandendo quella ha iniziato a rincorrermi fino alla fermata del QS.
Il Bue Muto, invece, muggiva in latino!
Uno scandalo, amici miei... una vergogna, amiche mie!
Comunque la serata è ancora molto tiepida e mi sto immettendo in un viale Marconi inondato di sole ottobrino ed appena velato da un leggero pulviscolo... o forse, si tratta di una delicata nebbiolina.
Sono le 17.53 del 21 ottobre 2013 ed anche se leggerete questo pezzo con mesi di ritardo, sappiate che son contento.
Un salutone a tutte voi ed
a tutti voi!



sabato 24 maggio 2014

Su “Senza tregua”, di Giovanni Pesce


Presentazione generale

Giovanni Pesce (1918-2007) è stato uno dei grandi comandanti dei GAP (Gruppi di azione patriottica) una formazione partigiana che durante la Resistenza davvero non diede tregua ai nazifascisti. Il suo libro non possiede però il carattere spesso retorico o accademico della memorialistica e di certi lavori storici, quel che non di rado allontana molti lettori.
Senza tregua è infatti scritto col ritmo e la densa concisione di un ottimo romanzo, ma le vicende narrate dall'A. non sono frutto di fantasia: le scene delle battaglie contro i franchisti (i fascisti spagnoli), quelle delle azioni contro le spie repubblichine (i fascisti italiani che aderirono al regime-fantoccio di Salò, che agiva alle dirette dipendenze dei nazisti) sono vere, così come lo sono le descrizioni dei vari scontri armati in montagna ed in città, l'esecuzione di traditori, torturatori (nazisti e fascisti), di soldati e poliziotti, rastrellatori ecc.
Né è meno vera la descrizione di quel perverso insieme di ferocia e scherno che guidava l'azione repressiva e criminale oltre che dei nazisti, anche dei loro complici fascisti: quel che si manifestava perfino davanti ai corpi “massacrati” e “quasi irriconoscibili” di quindici uomini appena fucilati e lasciati per quasi una giornata sotto il sole, senza sepoltura, a cui si negarono i conforti religiosi ed ammucchiati per strada come nient'altro che spazzatura.1
Eppure Giovanni non indugia su questi orrori: li ricorda con grande dolore e con un senso di umana pietas, così come denuncia con un senso di repulsione il “volto” di un repubblichino che di fronte allo scempio fatto da lui e dai suoi compagni di quelle povere vite, “ride istericamente”2
Ma poi Giovanni va avanti, perché sa leggere le vicende di quella guerra in un modo che non si limita solo ad essa: egli inquadra infatti gli scontri della II guerra mondiale come uno scontro tra visioni inconciliabili della vita e del mondo.

Lo scenario nazifascista

Del resto, i nazisti cercarono di giustificare la loro barbarie con la “proclamazione del principio della superiorità del popolo germanico come Herrenvolk”;3 Herrenvolk cioè popolo di signori mentre pressoché tutti gli altri “gruppi etnici o anche sociali” erano considerati “minderwertig (inferiori) razzialmente.”4
Queste deliranti idee prevedevano l'occupazione di vastissime aree di territori europei (soprattutto ad est), la loro “germanizzazione”, ciò che comportava come conseguenza finale la progressiva soppressione fisica dei popoli ivi residenti.5
All'eliminazione quindi di circa 6 milioni di ebrei, 3 di zingari, 1 di omosessuali e di varie centinaia di migliaia di resistenti, avrebbe dovuto seguire anche quella di vari altri milioni di slavi, persone per vari motivi ritenute anch'esse inferiori come per es. artisti “depravati”, vecchi, oppositori politici, “asociali”, uomini e donne con gravi handicap fisici, mentali ecc. Ed in non piccola misura, il regime hitleriano realizzò questi piani.
Comunque, alla fine della guerra si contarono oltre 50 milioni di morti e le crudeltà e le violazioni di ogni norma morale, civile, razionale e giuridica da parte nazifascista sono rimaste tragicamente proverbiali.
Basti pensare oltre ai lager ed alle camere a gas, alle stragi di Marzabotto, Sant'Anna, Cefalonia, Fosse Ardeatine ecc., all'esempio costituito dalla città olandese di Rotterdam. I militari olandesi accettarono la resa imposta dai nazisti che avevano minacciato “di radere al suolo la città. Gli olandesi accettarono la resa, ma mentre si svolgevano le trattative, la Luftwaffe, a buon conto, distrusse la città.”6 Tale bombardamento costò la vita a circa 900 persone e provocò quasi 80mila senzatetto.
Ed il regime fascista condivise i piani nazisti, rendendosi per esempio complice della deportazione degli ebrei italiani.7
Del resto, a riprova del carattere indiscutibilmente criminale del fascismo, Mussolini dichiarò che esso: “Non crede alla possibilità né all'utilità della pace perpetua”; per esso: “Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla.”8
L'esaltazione quindi della guerra, considerata dal fascismo addirittura come fatto dotato di dignità morale, il disprezzo per i valori della pace, della giustizia e della riflessione critica, si collegavano alla negazione della stessa uguaglianza, se Mussolini disse che: “Il Fascismo (…) afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini.”9
Esisteva dunque tra fascismo e nazismo un'affinità, un forte e comune sentire che condusse i due regimi ad un'alleanza che si rivelò del tutto naturale. Questo, benchè la Germania nazista possedesse rispetto all'Italia fascista una netta superiorità economica, tecnologica e militare che del resto, Hitler non mancava mai di far pesare all'alleato italiano. Si tratta: “Dell'ambigua situazione dell''alleato occupato' ricostruita di recente dal Klinkhammer”, alleato cui però Hitler riconosceva una “'primogenitura' sul piano politico”10

La guerra di Giovanni e dei GAP

Giovanni, nome di battaglia Visone (probabilmente perché originario di Visone d'Acqui, in Piemonte) esordì come combattente antifascista nella guerra civile spagnola.11
Già nei primissimi capitoli del libro si spiegano bene senso e direzione della lotta di quest'uomo, che non si atteggia mai a “superuomo” (falso mito, quello, tipico della sottocultura nazifascista): Giovanni, che da ragazzo fu minatore sente per natura un legame speciale col mondo del lavoro ed appunto coi suoi componenti, se scrive: “Cento fili mi legavano ai minatori: i loro sigari e le loro pipe m'erano familiari non meno del cigolio intermittente della porta d'ingresso: di ognuno conoscevo il volto, l'umore, anche se non capivo sempre la lingua.” 12
L'incomprensione (iniziale) della lingua derivava dall'essere egli “il figlio dell'operaio piemontese fuggito in Francia per non subire la prepotenza dei Cesarini di ieri e di oggi.”13 Cesarini, responsabile della deportazione di “centinaia di operai e di tecnici, quasi tutti ad Auschwitz”, era infatti “l'immagine stessa del fascismo repubblichino.”14
Così, ogni partigiano conduceva una lotta che non era solo militare ma che anzi coinvolgeva visioni morali, politiche, culturali diametralmente opposte a quelle nazifasciste. Infatti, ad un certo punto Visone scrive: “Mando a dire ai miei gappisti che ci sarà una breve pausa e che ne approfittino per leggere e studiare, come insegnava Gramsci.”15
Possiamo immaginare un ufficiale nazista o repubblichino raccomandare ai suoi sgherri di leggere alcunché? E' molto più facile che invece costoro andassero (come testimonia Visone) per bar ed osterie, dove si rilassavano dopo un'infame giornata di rastrellamenti, torture e massacri, in compagnia di prostitute e dandosi a grossolane chiassate, volgari scherzi, sbronze ecc.
Ben diversa la statura morale di un uomo come Curiel 16 , così come quella di Matteotti, di Gobetti, don Minzoni, Pertini, Gramsci, dello stesso Pesce e di tanti altri, grandi figure di uomini e donne rimaste magari anonime.
Qui penso alle staffette, penso soprattutto a certe giovanissime ragazze che pur consapevoli dei rischi mortali e delle intollerabili offese che potevano subire sul piano intimo, non solo accettarono di correre certi rischi, ma mantennero una freschezza ed una naturalezza davvero commoventi. E con pochi ma poetici tratti di penna, l'A. ha saputo consegnarle al nostro ricordo. Ed alla nostra riconoscenza.
Del resto quel legame speciale che il movimento partigiano ebbe con la classe operaia e col mondo contadino, dipendeva dal provenire partigiani/e proprio da quello, o (quando l'origine sociale di alcuni/e di loro era altra), comunque dal loro battersi per chi ha sempre subito il peso della struttura sociale. Partigiani come “avanguardia in armi” dei lavoratori17; lavoratori che col grandioso sciopero del marzo 1944 nell'Italia del nord, che la “Voce di Londra” definì “unico, finora, nella storia della guerra”18, diedero alla lotta contro il nazifascismo uno straordinario appoggio morale, politico ed anche pratico: per es. sabotando la produzione bellica di cui appunto il nazifascismo si avvaleva.19
Certo non vi sarebbe stata liberazione dal nazifascismo se la Resistenza non avesse potuto contare su un coraggioso e costante appoggio popolare. Come dice magistralmente Giovanni, si trattava di: “Brava gente che non aveva nulla da guadagnare con me, ma tutto da perdere.”; ed aggiunge: “Questo è qualcosa di più della bontà. E' l'antica aspirazione alla giustizia.”20

Giustizia e diritto di resistenza

La distinzione di cui sopra è fondamentale perché quelle che Gramsci ha definito “classi subalterne”, hanno dovuto vivere una bontà che era poi sottomissione, rinuncia ai propri diritti e spesso alla stessa vita, accettazione di abusi, umiliazioni, sfruttamento lavorativo, abbruttimento psicofisico, violazione della propria sfera intima, repressione militare e poliziesca... negazione insomma di quella irrinunciabile dignità cui ha diritto ogni essere umano.
Ma la giustizia distrugge questa crudele e complessa trappola: la giustizia, che Ulpiano definì come “volontà costante e perpetua di dare a ciascuno il suo”21 e che per Aristotele è la “virtù più eccellente”: anche perchè appunto egli citando il poeta Teognide la dipinge come ciò in cui “si riassume ogni virtù.”22 E tutto questo perché chi possiede ed attua la virtù della giustizia è capace di servirsene “anche nei riguardi del prossimo; e non solo in relazione a se stesso”; soprattutto, “noi diciamo 'giusto' ciò che produce e preserva la felicità, e le parti di essa, nell'interesse della comunità politica.”23
Attenzione: il Greco parla di comunità politica, non di alcune sue parti o di determinate classi; parla quindi di una giustizia che deve esistere per tutta la comunità e senza limitazioni di tempo, di spazio, di cultura ecc. Per essere tale, la giustizia deve quindi essere completa, totale: di essa, insomma, devono godere tutti e sempre.
Ma quando sia negata la natura sociale ed egualitaria appunto della giustizia, allora non si potrà pretendere che chi subisce la violenza di un potere ingiusto, continui a subirlo. La stessa bontà fornirebbe il miglior puntello ad una tirannide che a quel punto non incontrerebbe più alcuna opposizione.
Nel corso della storia tanti pensatori hanno elaborato il concetto di un diritto di resistenza dei popoli ad un potere che violi le leggi di giustizia. Già nel XII secolo un allievo di Abelardo, Giovanni di Salisbury, parlò della legittimità del tirannicidio che consiste nell'uccisione di un sovrano ingiusto o comunque nella ribellione ad un potere brutale.24 Tali atti sono giustificati dal fatto che chi governa è tenuto alla strettissima osservanza di legge ed appunto giustizia, sì che propriamente parlando, egli più che un governante è un servo di legge e bene comune: che non può tradire in nessun caso.25
Dopo l'uomo di Salisbury il concetto di tirannicidio fu ripreso anche da altri26 e perfino prima che ai rivoluzionari francesi, a quelli marxisti o a quelli anarchici, dobbiamo ad un teorico del liberalismo (!) come l'inglese Locke un'esplicita teorizzazione del diritto di resistenza, che lui chiama anche di guerra. Egli formula chiaramente quel diritto nell'opera Due trattati sul governo (1689). 27

Conclusioni

Si vede quindi bene come nel nostro (ed in ogni altro) Paese ferocemente oltraggiato dal nazifascismo, il diritto di resistenza fosse indiscutibile. Inoltre, tale diritto condusse all'effettiva liberazione perché tra masse popolari e movimento partigiano si realizzò una fortissima e naturale saldatura.
Quel che sarebbe stato impossibile se di fronte ad uno spietato ed organizzatissimo avversario come quello nazifascista e di fronte al servile complice fascista, lo scontro si fosse svolto solo sul terreno militare: dimensione in cui la Resistenza era più debole.
Ma la Liberazione avvenne perché (per citare Pascal): “Il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce.”28
La ragione avrebbe detto ai resistenti che i nazisti erano invincibili, o almeno che era meglio attendere l'arrivo degli Alleati; il cuore diceva che bisognava battersi comunque e quello, il cuore, vinse.
Così, ricordando il 25 aprile a Milano, Giovanni scrive: “Io, in mezzo a tutta questa gente, a questi operai, a questi giovani, a queste donne mi sento immerso in un grande mare di affetto”; ed ancora: “Dietro di noi a sorreggerci, ad aiutarci, a sfamarci, a informarci, c'è sempre stata questa massa di popolo.”29
A noi, oggi, il compito così difficile ma anche così bello di saper essere degni eredi di una lotta tanto gloriosa, soprattutto oggi... quando perfino chi dovrebbe situarsi nel campo progressista ed antifascista, non fa davvero molto per difendere le conquiste (penso per es. alla Costituzione) e la memoria di quella lotta.


Note
1G. Pesce, Senza tregua (1967), Feltrinelli, Milano, 2009, pp.202-204. Cfr. anche http://www.anpi.it/piazzale-loreto-15-martiri-per-comunicare-ferocia/
2 G. Pesce, Senza tregua, op. cit., p.204.
3 Enzo Collotti, Hitler e il nazismo, Giunti, Firenze, 1996, p.110. In tedesco nel testo.
4 E. Collotti, Hitler e il nazismo, op. cit., p110. In tedesco nel testo.
5 E. Collotti, op. cit., pp.112-113 e 125-128.
6 Robert Katz, Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine (1967), Editori Riuniti, Roma, 1996. Nuova edizione aggiornata. La Luftwaffe era l'aviazione militare tedesca.
7 E. Collotti, La soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei, Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp.15-18 e 65, 71.
8 Marco Palla, Mussolini e il fascismo, Giunti, Firenze, 1996, p.67. I corsivi sono miei.
9 M. Palla, Mussolini e il fascismo, op. cit., p.67. Il corsivo è mio.
10 Cfr. E. Collotti, Hitler e il nazismo, op. cit., rispettivamente alle pp. 107 e 106-107.
11 G. Pesce, Senza tregua,, op. cit., p.27.
12 G. Pesce, op. cit.,. p.2813 Ibid., p.299.
14 Ibid., pp.299 e 293.
15 Ibid., p.297. I corsivi sono miei.
16 Ibid., pp.301-302.
17 Ibid., p.69.
18 Ibid., p.77.
19 Per l'intreccio tra scioperi del marzo '44 e lotta partigiana cfr. Ibid., pp.68-77.
20 Ibid., p.151.
21 Ulpiano, Digesto, I, 1, 10. I corsivi sono miei.
22 Aristotele, Etica nicomachea, Laterza, Roma-Bari, 2001, V, 3, p.175.
23 Aristotele, Etica nicomachea, op. cit., V, 3, p.175. Il corsivo è mio.
24 Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Le bugie di Isotta. Immagini della mente medievale (1987), Laterza, Roma-Bari, 2002, pp.60 e 67-68.
25 Maria Teresa F. B. Brocchieri, Le bugie di Isotta, op. cit. pp.50-60.
26 Cfr. voci monarcomaco e tirannide in Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Tea, Milano, (1971), 1999, pp. 594 e 877.
27 Cfr. N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, op. cit., p.877; Luigi Bonanate, Diritto naturale e relazioni tra gli Stati (1976), Loescher, Torino, 1978, pp.63-64 e 176-177; Rosario Villari, Storia moderna, Laterza, Roma-Bari, 1973, pp.247-249.
28 Blaise Pascal, Pensieri, Edipem, Novara, 1974, Articolo IV, 277.
29 G. Pesce, Senza tregua, op. cit., p.306.


lunedì 7 aprile 2014

Cenni riassuntivi su Roosevelt*


Roosevelt apparteneva ad un'antica famiglia statunitense d'origine olandese: il suo primo antenato (Claese Van Rosenvelt) si stabilì in quelli che diventarono i Nuovi Paesi Bassi ed a Nuova Amsterdam (rispettivamente gli attuali Stati Uniti e l'attuale New York) nella prima metà del Seicento.
Gli antenati di Roosevelt ricoprirono fin da allora nel “Nuovo Mondo” prestigiosi incarichi direttivi in campo politico ed economico-amministrativo, così quando egli decise d'occuparsi di politica, fece questa scelta come membro di un'èlite storicamente molto importante ed influente.
Del resto, Roosevelt avrebbe potuto optare per una carriere prestigiosa e vantaggiosa almeno quanto quella politica come per esempio quella forense, dato che nel 1908 (ad appena 26 anni) entrò nel “prestigioso studio legale Carter, Ladyard & Milburn.”1
Egli scelse invece la carriera politica e nel 1910, a soli 28 anni fu eletto senatore per lo Stato di New York.
Ma il suo compito di presidente degli USA fu davvero complesso: il Paese era infatti devastato da una crisi economico-sociale senza precedenti: “I mesi intercorsi tra le elezioni (novembre 1932) e l'insediamento del neo-eletto (marzo 1933) furono durissimi per il popolo americano: quindici milioni di lavoratori erano disoccupati, sei milioni di agricoltori erano schiacciati da 10 miliardi di debiti ipotecari, cinquemila banche erano chiuse, gli investimenti industriali erano crollati a 74 milioni di dollari dal miliardo del 1929.”2
Ma la crisi non aveva travolto solo l'economia, aveva compromesso anche la credibilità delle maggiori istituzioni politiche.
“Racconta uno storico americano che Hoover, recatosi a Detroit, il maggior centro della produzione automobilistica americana, per un comizio”, dovette assistere a questo penoso spettacolo: “Nella città dell'automobile per chilometri la macchina presidenziale sfilò tra due ali di gente cupa e silenziosa; quando Hoover si alzò a parlare, la sua faccia era terrea, le mani gli tremavano. Verso la fine della campagna era ormai una figura patetica, un uomo stanco, avvilito, fischiato dalla folla come nessun presidente era mai stato.”3
Così l'azione di Roosevelt fu economica ma nello stesso tempo di tipo politico-morale: egli non si limitò a constatare la crisi ma varò una serie di attività che produssero un “ampio piano di lavori pubblici finanziati dallo Stato”, portò ad un “aumento dei salari”, fissazione di “prezzi minimi dei prodotti”, “riconoscimento di sindacati nelle aziende” ecc.4
Il tutto abbatté il tasso di disoccupazione, modernizzò il Paese e favorì la ripresa economica: infatti tra i lavoratori il prestigio di Roosevelt raggiunse livelli che fino a quel momento non si erano ancora visti... e che non lo sarebbero stati neanche in seguito, se egli fu l'unico presidente americano rieletto per più di due mandati consecutivi.
Inoltre, egli non arrivò “solo” a sconfiggere speculazione e disoccupazione: questo perché Roosevelt scorse lucidamente la radice di quei mali.
Come dichiarò fin dal suo discorso di insediamento: “A colpirci non è un'avversità naturale, come il flagello delle cavallette.” Nel denunciare la crisi egli disse: “Principalmente questo succede perché chi aveva il controllo degli scambi commerciali dell'umanità ha fallito per la propria pervicacia e la propria incompetenza.”5
La crisi dipende quindi dall'azione dell'uomo; soprattutto da quella di uomini che hanno pensato solo alle “regole di una generazione di egoisti. Non hanno lungimiranza, e quando non c'è lungimiranza il popolo va in rovina.” Roosevelt puntò quindi sull'applicazione di “valori sociali più nobili del mero profitto monetario.”6
Quei valori non si basavano né su discorsi astrattamente morali né su ricette aridamente tecniche ma su qualcosa di molto valido e pratico: per esempio sul rifiuto dell'idea che la “ricchezza materiale” debba essere “parametro di successo.”
I valori in questione si basavano poi sull'abbandono della “falsa credenza che le cariche pubbliche e gli incarichi politici siano da valutare solamente con il metro dell'orgoglio per un posto prestigioso e del profitto personale.”7
Superando poi la tradizionale politica economica americana, egli varò una “stretta supervisione su tutte le attività bancarie, del credito e degli investimenti”; dichiarò inoltre che si doveva “porre termine alla speculazione fatta con il denaro altrui.”8
Come visto, il programma del Nostro era piuttosto concreto ed anche se fu duramente osteggiato da quel mondo finanziario che peraltro aveva determinato la crisi, appunto il programma rooselveltiano trasse gli USA fuori da essa.
In questo quadro risultarono preziosi anche gli studi e le riflessioni in campo economico di Keynes e comunque: “L'età della libera attività economica, intesa almeno nel senso ottocentesco, e della fiducia nei meccanismi spontanei del mercato poteva allora dirsi definitivamente conclusa anche sul piano teorico.”9
Del resto, Roosevelt aveva ben capito in seguito al crack di Wall Street come una fiducia acritica (e per alcuni spesso interessata) in un mercato lasciato privo di qualsiasi controllo, causasse inevitabilmente crisi economica, disoccupazione, inflazione, forti tensioni sociali ecc.
Non poteva quindi darsi altra soluzione che non fosse ispirata a valori di solidarietà, di controllo e di equità sociale. Per questo, probabilmente, molte delle soluzioni rooselveltiane mantengono una loro validità anche al giorno d'oggi.
L'alternativa a tutto questo, cioè l'affidarsi senza riserve ad un'economia da intendersi come al di sopra di qualsiasi regola o legge, ricorda invece l'immagine di quella “società borghese che ha evocato come per incanto così colossali mezzi di produzione e di scambio”, ma che poi “rassomiglia allo stregone che si trovi impotente a dominare le potenze sotterranee che lui stesso abbia invocate.”10

Note

* Questo brano fa parte di un mio saggio ancora inedito dal titolo Dinamiche e prospettive dello Stato sociale.

 1 Franklin Delano Roosevelt, Superare la crisi economica: il New Deal, Gruppo editoriale L'Espresso,     Roma, 2011, p. 11.
 2 Rosario Villari, Storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1978, p.492.
 3 R. Villari, Storia contemporanea, op. cit., pp.492-493.
 4 R. Villari, op. cit., p.493.
 5 F. D. Roosevelt, Superare la crisi economica, op. cit., 19.
 6 F. D. Roosevelt, op. cit., p.21.
 7 F. D. Roosevelt, op. cit., pp. 21 e 23.
 8 F. D. Roosevelt, op. cit., p. 25.
 9 R. Villari, Storia contemporanea, op. cit., p.495.
10 Karl Marx Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista (1848), Tascabili economici Newton,         Roma, 1994, p.23. Traduzione di Antonio Labriola. Nel citare questo celeberrimo brano, non si intende       evidentemente assimilare la figura e l'opera di Roosevelt a quella del movimento operaio, dal quale il             presidente statunitense si mantenne in effetti sempre lontano.     


mercoledì 12 marzo 2014

“La visita della vecchia signora”, di Friedrich Dürrenmatt


Quando avevo 11 o 12 anni vidi alla tv questa pièce dello scrittore e drammaturgo svizzero F. Dürrenmatt. La visita mi turbò molto e quel turbamento mi accompagnò per non poco tempo.
Negli anni ho approfondito (leggendo alcuni romanzi di F. D.) la conoscenza del suo mondo, che trovo notevolissimo. I suoi “gialli” o “polizieschi”, per es., superano il solito discorso assassino-vittima-detective, magari condito da abbondanti dosi di whisky, sesso e cocaina.
Esattamente al contrario, i gialli del Nostro sembrano dei pretesti per parlare di questioni etiche, morali e sociali. In Dürrenmatt il giallo è la cornice, ma il il quadro è la condizione dell'uomo nel mondo, le ingiustizie e l'assurdo che deve subire ed anche imporre agli altri. Insomma, a D. più che raccontare la morte della vittima, preme raccontare quella della società.
Veniamo ora a La visita.
Dopo tantissimi anni nella cittadina di Güllen torna la signora Zachanassian.
In realtà si tratta di quella che da ragazza si chiamava Kläri Wäscher. Ora, di solito un romanziere (e penso anche un drammaturgo) non sceglie i nomi a caso: seguitemi perchè farò un discorso apparentemente contorto.
In tedesco, “lavare” si dice “waschen” e “lavandaia”, wäscherin. L'assonanza quindi tra il termine tedesco per “lavandaia” (wäscherin) ed il nome da ragazza della vecchia signora (Wäscher) è evidente. Sempre in lingua tedesca, “lavanderia” si dice Wascherei.
Bene, secondo me D. con questo ci vuol dire che quando era giovane, quella che ora è una vecchia e ricca signora, era una donna povera, umile e che lavorava duro; ma che per vivere doveva lavare lo sporco degli altri.
Tutto questo a livello simbolico, perché ne La visita non lo si dice esplicitamente, ma ripeto: chi scrive non usa a caso neanche i nomi delle persone, che spesso sono come delle spie che l'Autore utilizza per segnalare qualcosa al lettore o allo spettatore.
Bene, la Zachanassian, ormai miliardaria in seguito al matrimonio col sig. Zachanassian (e dopo quelli con altri 8-9 uomini) torna in una Güllen ormai a pezzi e viene accolta come una star.
Sì, quella che una volta era una ragazzina come tante o meno di tante, ora si degna di visitare per qualche giorno i luoghi della sua gioventù.
Decide così di far risplendere la sua fama & ricchezza su una città ormai devastata da miseria, disoccupazione ed assoluta mancanza di fiducia nel futuro.
La signora è infatti disposta a donare alla città un miliardo (non si sa se di dollari, franchi svizzeri o marchi tedeschi)... ma ad una condizione: che i suoi vecchi concittadini uccidano l'uomo che in passato le fece un grave torto.
Lei chiede: “Giustizia per un miliardo.
Così siamo portati domandarci: fino a che punto possiamo spingerci pur di uscire dalla miseria? Di fronte ad essa quanto valgono i nostri concetti morali, giuridici, religiosi ecc.?
E soprattutto, dove si situa il confine tra giustizia e vendetta?
Come vedete, in questo dramma (ed in effetti anche nei polizieschi) al grande Dürrenmatt non interessa raccontare semplicemente una “storia.”
Comunque ne La visita troviamo anche molti momenti divertenti: spassosissimo il discorso del sindaco. Quest'uomo, non si sa se più per servilismo, per amnesia o per entrambe le cose, esalta la famiglia della Zachanassian.
La madre, magnifica, il ritratto della salute.”
Ma qualcuno gli fa notare, discretamente, che la donna morì di “tubercolosi polmonare.”
Il padre”, che “costruì accanto alla stazione un edificio assai frequentato.
Si trattava di un vespasiano.
Il sindaco esalta poi il profitto scolastico della ragazza, il suo “amore di giustizia e il suo spirito di beneficenza.
La signora replica che a scuola era tutt'altro che studiosa, tanto che veniva “picchiata.” Ed una volta non comprò delle patate ad una vedova per salvarla “dall'inedia”, ma solo per “stare una volta tanto in letto insieme ad Ill, più comodi che nel bosco.”
E potrei continuare a lungo...
Certo, il riso de La visita è un riso amaro: ma molte volte quello è un riso salutare. Ci sveglia da torpore, indifferenza ed ipocrisia; mentre ridiamo ci fa guardare allo specchio.



sabato 8 marzo 2014

La discussione filosofica (15/a parte)*


Bene, chi fa della teratologia dunque vede nell'avversario filosofico solo un mostro, può anche credere d'averlo liquidato. Lasciamo che questo non-filosofo si culli pure nelle sue illusioni. Ma secondo me per non ripetere o riprodurre questo deleterio meccanismo dobbiamo cercare di capire la sua dinamica.
Anche qui torna molto utile il ragionamento di Gramsci che col criticare il Manuale di Bucharin osservava che la demonizzazione del pensiero altrui è un grave errore sia perché contiene la “pretesa anacronistica che nel passato si dovesse pensare come oggi”, sia perché si presenta come un “residuo di metafisica perché suppone un pensiero dogmatico valido in tutti i tempi e in tutti i paesi, alla cui stregua si giudica tutto il passato.”1
Chiariamo ulteriormente il discorso svolto da Gramsci.
Nel passo citato, egli ci mette in guardia dal pericolo di credere che nelle varie epoche storiche le opinioni filosofiche, sociali, culturali ecc. siano state errate perché non si uniformavano a quello che noi pensiamo oggi. Il che era ovviamente impossibile: uomini e donne dell'epoca classica, del Medioevo, del '500, del '600 ecc. pensavano secondo quello che Hegel ha chiamato Zeitgeist, spirito del (loro) tempo.2
Tutto ciò che noi pensiamo, infatti, dipende sì da condizioni filosofico-culturali “pure”: conoscenza per es. della storia del pensiero, dell'arte, del diritto, delle varie religioni ecc.; ma nello stesso tempo tutto ciò dipende dalle condizioni materiali e soprattutto sociali in cui viviamo.3
Per es. nel Medioevo, escludendo dal quadro che sto dipingendo re, nobili, alto clero, capi dell'esercito, teologi e filosofi (meno quindi dell'1% di quella società), agli uomini ed alle donne del tempo risultava impossibile una costante riflessione autonoma e critica. Analfabetismo, epidemie, carestie, sfruttamento economico e lavorativo pressoché schiavistico (servitù della gleba), violenze fisiche e/o sessuali, superstizione, repressione militare e religiosa soffocavano anche la semplice ipotesi di una riflessione.
Come del resto affermato da Marx ed Engels, di solito le idee prevalenti di un determinato tempo e di una determinata società sono le idee che le classi dominanti hanno imposto alla società da esse dominata. Così, uomini e donne finiscono per assorbire, pur soffrendo, la mentalità che consente ai loro dominatori di continuare... a dominarli!4
A proposito infatti della coscienza, Marx ed Engels affermano: “Anche questa non esiste fin dall'inizio, come 'pura coscienza.'” Lo stesso linguaggio, del resto: “E' antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini.” Così: “La coscienza è dunque fin dall'inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in genere esistono uomini.”5
Un prodotto sociale: qualcosa che quindi nasce in società, ma in una società che è fortemente controllata da chi controlla integralmente. Se così non fosse, il dominato si ribellerebbe; invece soffre ma pensa: è stato così da sempre, ma perfino una vita come la mia è in fondo naturale anzi giusta.
Poi come non pensarla così quando fin da bambini si deve assorbire la mentalità che il dominatore spaccia per vera? Diritto, religione, filosofia, informazione ecc. ribadiscono continuamente questo concetto; certo non giustificano la ribellione.
Fino allo scoppio della Rivoluzione francese, la struttura della società e la sua ideologia di fondo sancivano (non solo in Francia) la “legittimità” di una separazione netta tra alcuni e pochi che avevano ogni diritto, agio, lusso ecc. e moltitudini che non ne avevano nessuno. Sul versante quindi dei rapporti di forza dice bene il Le Goff quando sostiene (in modo solo apparentemente paradossale) che il Medioevo non finì nel 1492 ma proseguì fino all''800.6
Nel Medioevo, tutto ciò riposava sul: “Revival dell'antichissima dottrina dei tre ordini: la società umana divisa in tre schiere, coloro che pregano, coloro che combattono e quelli, la maggior parte, che faticano lavorando la terra. Ripartizione che affonda le radici in tempi lontanissimi, all'origine della civiltà indo-europea e ripete la scansione famosa di Platone nella sua Repubblica; nell'XI secolo il vescovo Adalberone di Laon la riconferma a sostegno e struttura portante della monarchia.”7
Dalla rivoluzione industriale ad oggi, a “coloro che pregano” ed alla teologia subentrano i magnati di industria, economia e finanza, ma la struttura di fondo rimane in effetti immutata. L'agricoltura è in buona parte sostituita da attività lavorative più complesse (industria pesante, peraltro presto ultra-tecnologizzata, informatica, servizi ecc.) ma la subordinazione del lavoratore salariato rimane dura, benché un po' tutelata dall'ambito giuridico.
Si dirà: ma dato questo dominio, allora come mai sono scoppiate e scoppiano rivolte e rivoluzioni? Esso avrebbe dovuto rendere la ribellione impossibile.
La risposta è che l'uomo non è una macchina o un bruto. Come diceva Gramsci: “L'uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura.”8 L'uomo, insomma, non subisce passivamente la sua condizione ma nel tempo sa prendere coscienza della sua situazione e può lavorare per modificarla. 
Certo, questo processo non è facile né automatico: perché il punto è acquisire “coscienza del proprio valore.”9 E l'acquisto di tale coscienza è sempre stato ostacolato da chi ha tutto l'interesse a mantenere le masse in condizioni di non-coscienza.
Il giro è stato molto lungo ma penso che si sia capito perché Gramsci denunciasse la sommarietà del pensiero di Bucharin: non vedere quanto nel pensiero altrui possa esservi o esservi stato di positivo, conduce ad una del tutto infondata autocelebrazione e ad abbandonare un pensiero realmente dialettico.
Comunque: “Che i sistemi filosofici passati siano stati superati non esclude che essi siano stati validi storicamente e abbiano svolto una funzione necessaria: la loro caducità è da considerare da un punto di vista dell'intero svolgimento storico e della dialettica reale; che essi fossero degni di cadere non è un giudizio morale o di igiene del pensiero emesso da un punto di vista 'obiettivo', ma un giudizio dialettico-storico.”10
Vediamo quindi come nella discussione filosofica abbiano pieno diritto di cittadinanza anche filosofie da noi lontane; il che, beninteso, non significa approvarle o accoglierle a priori. La filosofia non esclude dunque lo scontro ma non si limita a tale ambito.
Inoltre, dall'ambito in questione dobbiamo escludere attacchi ad personam. Qui penso allo sconcertante attacco portato da Roscellino al suo vecchio allievo Abelardo che (in quanto segnato dalla tragica esperienza dell'evirazione) dovette leggere quanto segue: “Tolta quella parte che ti rendeva uomo tu non devi più esser chiamato Pietro ma 'quasi Pietro'.”11
Ma vedo che circa il problema del primo pericolo cioè l'eccesso di critica non potrò concludere neanche stavolta. Alla prossima.

Note

* Ho pubblicato su questo blog le precedenti parti di questo post rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la 2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il 27/11/2011;
La 6/a il 15/11/2012; la 7/a l'8/12/2012.
Il riepilogo di questo post (sino alla 7/a parte) è stato pubblicato il 21/02/2013.
Ho pubblicato l'8/a parte il 20/03/2013 e la 9/a il 14/09/2013; la 10/a il 5/10/2013, l'11/a il 30/10/2013, la 12/a il 16/11/213.
Il riepilogo di questo post (dall'8/a all'11/a parte) è stato pubblicato il 13/12/2013.
La 13/a parte è stata pubblicata il 19/01/2014 e la 14/a l'8/02/2014.

1 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell'Istituto Gramsci,, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 2007, p.1417.
2 “La storia mondiale, lo sappiamo, è dunque in generale l'esposizione dello spirito.” G.W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari, 2003, p.64.
3 Karl Marx, Prefazione a Per la critica dell'economia politica, Edizioni Lotta comunista, Milano, pp.16-17.
4 K. Marx Friedrich Engels, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1958, pp.43-44 sgg.
5 K. Marx F. Engels, L'ideologia tedesca, op. cit., pp.26-27. Il corsivo è degli AA.
6 Jacques Le Goff, Intervista sulla storia, a cura di Francesco Maiello, Mondadori “Oscar”, Laterza, Roma-Bari, pp.81-85.
7 Maria Teresa F. B. Brocchieri, Eloisa e Abelardo, Mondadori “Oscar”, Milano, 1987, p.149. In inglese nel testo.
8 A. Gramsci, Socialismo e cultura, in Id., Le opere. Antologia, a cura di Antonio A. Santucci, Editori Riuniti/l'Unità, Roma, 2007, p.14. I corsivi sono miei.
9 A. Gramsci, Socialismo e cultura, op. cit., p.14. Il corsivo è mio.
10 Id., Quaderni del carcere, op. cit., p.1417. Corsivo dell'A. Sui gravi limiti di Bucharin (il che non significa certo giustificare il suo carnefice Stalin) già Lenin trovava che “le sue concezioni teoriche solo con grandissima perplessità possono essere considerate pienamente marxiste, perché in lui vi è qualcosa di scolastico (egli non ha mai appreso e, penso, mai compreso pienamente la dialettica).” Vladimir Ilic Lenin, “Le tesi di aprile e il testamento, Edizioni Alegre, Roma, 2006, pp.34-35.
11 Maria Teresa F. B. Brocchieri, Storia della filosofia medievale, Laterza, Roma-Bari, 1989, p.173.

venerdì 14 febbraio 2014

Cinema: ieri ed oggi


Per me un bel film ti accompagna anche dopo averlo visto.
Sì, forse possiamo dir questo anche dopo aver ascoltato un certo disco, gruppo o dopo aver letto un buon libro.
Probabilmente possiamo fare un discorso simile anche per la filosofia.
Ma sempre secondo me, il cinema ed un bel film ci accompagnano con più forza e persuasione.
Forse perché quel determinato film ci trasmette l'illusione della vita, i personaggi che si muovono sullo schermo sembra che si trovino nella vita reale, i loro sentimenti e le loro passioni acquistano un rilievo che supera la finzione. In apparenza, certo: perché un film non è la vita reale.
D'altronde non lo è neanche un romanzo come Delitto e castigo di Dostoevskij... eppure sembra che da quelle pagine Raskolnikov possa saltar fuori da un momento all'altro: magari con la scure da cui gocciola il sangue dell'usuraia e quello di sua sorella!
Che per il suo Shining Kubrick si sia ispirato proprio all'eroe dostoevskiano?
Comunque il cinema (e l'arte in generale) ci sembra reale quando è verosimile: insomma, tutto deve esser rappresentato in modo naturale...
Ricordate gli sketches che ironizzavano sulla frase: “Mangia qualcosa, Pedro; Pedro, perché non mangi qualcosa?
Ora, talvolta diciamo anche noi al Pedro (o al Mario, alla Lucia ecc.) frasi simili; la situazione è abbastanza frequente. Situazione che forse qualcuno vorrebbe risolvere ficcando in bocca a Pedro un imbuto per nutrirlo a forza, ma questo è un altro discorso.
Il nostro discorso è convincere quell'ingrato di Pedro, Tom o Karl a mangiare... facendo sembrare quell'invito del tutto naturale. Antonio, Mary, Jean-Claude e Suzie Wong sono davvero preoccupati per il deperimento organico di questo maledettissimo Pedro, accidenti a lui!
Ma perchè non mangia, ma che ha?! Frank ha cucinato per lui tutto il santo giorno, non è neanche andato a Wall Street per giocare in Borsa... ed aveva anche lo zainetto nuovo! Ma che mangi almeno le crocchette di patate cucinategli dalla nonna di Luca Brasi, dopo tutta la fatica che ha fatto per ottenere un'ora di permesso dal Padrino...
Insomma, avete capito. Ora andiamo avanti.
Ah, ma prima ringrazio: Antonio Banderas, Jean-Claude Van Damme, Tom Cruise, Suzie Wong, Luca Brasi, sua nonna, il Padrino, Kubrick e Jack Nicholson: un po' d'educazione, altrimenti dove andiamo a finire?
Bene, secondo me al cinema è molto importante la sala. Sì, ormai esistono le multisale. Eppure datemi pure del vecchiaccio romantico, ma a me le sale d'una volta piacevano! Certo, spesso i sedili erano in legno e dovevano risalire agli anni '40 o '50; le poltrone delle multisale sono molto più comode.
Quei sedili non erano (come le poltrone multisaliche) sistemate in ordine decrescente: bastava che davanti a te sedesse una persona leggermente più alta di una spiga nana, perché il film te lo dovessi letteralmente sognare.
Spesso la gente fumava oppure entrava in sala a film già iniziato, talvolta i bagni erano come le latrine della fanteria di Attila.
Ma quelle sale presentavano anche dei vantaggi: si faceva la sosta tra il 1° ed il 2° tempo, durante la quale potevi andare in bagno e/o portarci i bambini, bere o mangiare qualcosa, sgranchirti le gambe e scambiare con la bella o con gli amici un parere sul film.
Finita la proiezione, potevi restare in sala a rivedere il film tutte le volte che volevi. Tanti artisti hanno trovato la loro strada proprio in certe vecchie, scalcinatissime sale.
So che ora mi domanderete: “Ma tu rivorresti quelle sale?”
Be', di questo riparleremo... sapete, ho Pedro che sta litigando con Ratatouille per una questione di melanzane: non vorrei che ci scappasse il morto! Ed un topo morto, benché cuoco, non sarebbe esattamente il massimo.

Alla prossima!   

sabato 8 febbraio 2014

La discussione filosofica (14/a parte)


Ecco quali sono per me i due “grandissimi pericoli” cui accennavo nella 13/a parte; si tratta di pericoli tra loro molto diversi ma che in fondo sortiscono lo stesso effetto.
Il primo: l'eccesso di critica.
Il secondo: non l'assoluta mancanza di critica quanto una radicale sfiducia verso la filosofia. Così non è che alcuni decidano di non esercitare più il proprio senso critico; lo esercitano... ma contro la filosofia.
Tuttavia, come abbiamo visto nella 12/a parte, questo non è possibile né desiderabile: equivale a filosofare sul rifiuto della filosofia e del ragionamento in generale... che significa comunque filosofare.
Spesso si ritiene che in filosofia si proceda polemizzando con tutti, talvolta anche denigrandoli; oppure esaltando sé stessi. Come abbiamo visto nella 1/a parte, spesso questo errore è stato commesso anche da grandi filosofi.
Per me, qui scattano motivazioni legate più che al ragionamento, a questioni di tipo personale, di carriera o anche volgarmente economiche. Il caso delle invettive lanciate da Schopenhauer (alle cui lezioni per molto tempo non assisteva quasi nessuno) verso Hegel ed il suo sistema è tipico... né purtroppo, isolato.1
Il pericolo consistente in tale eccesso di critica (spesso non sostenuto da validi contro-ragionamenti) trova uno dei suoi esempi più eclatanti per es. nel XII secolo, nel modo in cui S. Bernardo attaccò Abelardo. Bernardo, infatti, scrisse: “Noi siamo come guerrieri che vivono accampati sotto una tenda o cercando di conquistare il cielo con la violenza.”2
Ora, per un uomo che aveva questa visione della vita religiosa e dell'attività filosofica, con l'avversario non si discuteva: lo si schiacciava. Circa poi chi leggesse opere di Abelardo come la Teologia ed il Conosci te stesso, Bernardo sentenzia: “Sia chiusa per sempre la bocca di chi parla male.”3
In una visione sul piano letterario peraltro piuttosto suggestiva, Bernardo definisce un allievo di Abelardo come Arnaldo da Brescia, suo “armigero” ed inoltre “serpente” che appunto ad Abelardo “si unisce squama a squama”4 C'è in effetti qualcosa di inquietante ma che colpisce, stimola la fantasia nell'immagine di questo bi-uomo che per la ”pretesa” di spiegare in termini umani quelle che Bernardo chiama “le cose divine”, finisce per essere abbassato dal suo avversario alla condizione del rettile... animale spregevole che spregevolmente striscia per terra, si confonde nello sporco  o comunque si nasconde per poi attaccare.
Del resto, fin dal libro della Genesi il Serpente rappresenta il Diavolo: quello che stando alla tradizione cristiana ed all'etimo greco sarebbe il Diàbolos cioè il calunniatore. Il Malvagio, colui che accusa su basi del tutto false sia Dio che l'uomo.
Ed a chi parla così si può forse rispondere? Mai! Infatti Bernardo tuona: “Non sarebbe più giusto colpire e frustare una bocca che parla così, piuttosto che ribattere con argomenti?5
Inoltre, la tradizione ebraica vede in Satana colui che: “Compie tre funzioni: seduce gli uomini, li accusa dinanzi a Dio, e infligge la pena di morte”; altra sua funzione consiste nel “seminare discordia sulla terra.”6
Ora, per Bernardo, un uomo che come Abelardo era dotato di “diabolica” abilità nell'arte della discussione, incarnava in pieno il perverso ideale satanico. Dal punto di vista di Bernardo si poteva anche affermare che la filosofia di Abelardo seminasse intollerabile spirito di divisione, di discordia ecc..; ragionare equivaleva per l'avversario del Bretone a sragionare... o a bestemmiare.
Infatti nella sua Etica Abelardo contestava alla Chiesa il diritto di “sciogliere e legare” (cioè assolvere e condannare) dai peccati; in fondo, egli contestava anche il diritto di ricorrere essa alla scomunica. Per Abelardo la Chiesa aveva quei diritti solo a patto che i prelati fossero dotati di specchiate qualità morali e religiose.7
Certo qui il Nostro si manteneva su un terreno prevalentemente filosofico-teologico. Ma il suo allievo Arnaldo da Brescia trasse dagli insegnamenti del maestro conseguenze anche politiche se dichiarò con nettezza: ”I chierici che hanno proprietà, i vescovi che hanno diritti sulle cose (regalia), i monaci che posseggono la terra non possono salvarsi.”8
Fautore di una Chiesa povera per i poveri, Arnaldo “abate a Brescia aveva sollevato il popolo contro il vescovo corrotto.”9 Ed a Roma, dove sostenne con forza un movimento popolare-comunale che si opponeva al papa, fu condannato a morte (1155). La motivazione ufficiale della condanna fu l'esser stato egli ereticus10 ma a mio avviso i reali motivi furono più che di tipo teologico o religioso, di tipo invece politico-sociale.
Insomma, da quanto detto sinora emerge come talvolta, nella discussione filosofica alcuni puntino a demonizzare l'avversario. E' quel che Gramsci scorgeva e denunciava nel Manuale di sociologia popolare di Bucharin: “Nel Saggio si giudica il passato come 'irrazionale' e 'mostruoso' e la storia della filosofia diventa un trattato di teratologia.”11
Teratologia significa “discorso sui mostri”: l'avversario filosofico diventa così un essere a cui per definizione non si può né si deve dar credito; coi mostri non si discute, semmai li si scaccia. Tutto ciò che non rientra nella nostra filosofia è così tranquillamente scartato perché considerato al di fuori di qualsiasi dimensione sociale e razionale.
Ovviamente questa soluzione è molto comoda perché ci esenta dalla fatica del ragionamento! Ma tale “soluzione” fa sprofondare anche noi nel pericolo della teratologia; non ragionando, infatti, diventiamo noi stessi gli ipotetici mostri che condannavamo.
C'è ancora molto altro da dire sia per quanto riguarda il 1° pericolo (eccesso di critica) sia per quanto riguarda il (assoluta mancanza); ma non vorrei mettere troppa carne al fuoco. Alla prossima, quindi. Volta, non carne.
Note

1 Sul “caso” Hegel-Schopenhauer cfr. la 1/a parte della presente Discussione dove ricordo che il 2° definì il pensiero hegeliano “una buffonata filosofica”; soprattutto cfr. Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Utet, Torino, 1979, vol. III, p.141.
2 Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Eloisa e Abelardo, Mondadori “Oscar”, Milano, 1987, p.167. I corsivi sono miei.
3 Maria Teresa F. B. Brocchieri, Eloisa e Abelardo, op. cit., p.168. Il corsivo è mio.
4 Id., Storia della filosofia medievale. Da Boezio a Wyclif, Laterza, Roma-Bari, 1989, p.190. I corsivi sono miei.
5 Id., Eloisa e Abelardo, op. cit., p.177. Il corsivo è mio.
6 Dr. A. Cohen, Il Talmud (1935), Laterza, Bari, 1989, p.86.
7 Pietro Abelardo, Etica o conosci te stesso, La Nuova Italia, Firenze, 1976, pp.107-121 e spec. pp.112-113.
8 Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Storia della filosofia medievale, op. cit., p.191. In latino nel testo.
9 Ibid., p.190.
10 Ibid, p.191.

11 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere (1975), Edizione critica dell'Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 2007, p.1417.

sabato 25 gennaio 2014

“America 1929: sterminateli senza pietà”, di Martin Scorsese


Uno dei primi films di Scorsese. Protagonisti: Barbara Hershey, David Corradine e suo padre John. Il film è liberamente tratto dall'autobiografia di Bertha Thompson, Sister of the road (sorella della strada), però Scorsese ha saputo trarre dal libro un gran bel film. Egli ha infatti colto benissimo lo spirito irrequieto di Bertha, che non era una semplice vagabonda bensì una donna curiosa, intelligente ed appassionata.
Figura centrale è naturalmente Bertha (la Herhey): la sua sensualità, unita alla sua iniziale ingenuità, l'esser lei anche guardinga ma più spesso pronta a lasciarsi andare alla corrente della vita, magari con una franca risata, la sua innocenza anche nel crimine, l'amore incondizionato per Bill (D. Corradine) oltre che per i lavoratori... be', tutto questo fa di lei una figura unica.
In questo film (sebbene ambientato durante la Grande Depressione del '29) la Hershey mi ha ricordato molte delle ragazze degli anni '70: scanzonate & anche naif ma pronte a prendere fuoco di fronte all'ingiustizia. Del resto, sebbene il libro della Thompson sia del '37, ha forse anticipato alcuni temi degli anni '60-'70.
Accanto a Bertha-Barbara abbiamo anche un'altra grande figura, quella di Big Bill Shelly (D. Corradine): sindacalista rivoluzionario che viene suo malgrado coinvolto in una serie di rapine. Bill non è fatto per quella vita: ma risulta difficile uscirne, quando alle calcagna hai la polizia e le guardie del padrone della ferrovia (il miliardario Sartoris, J. Corradine).
Inoltre, Bill viene cacciato proprio dal suo sindacato. Così, dopo essersi bruciato tutti i ponti alle spalle e consapevole che le sole alternative a quella vita sono costituite dalla sedia elettrica, dall'essere ucciso dai poliziotti o dagli sgherri di Sartoris, Bill non può che continuare...
Però lui (versione americana di Robin Hood) e la sua banda rubano solo ai ricchi e destinano agli operai parte del bottino.
Rubano poi a Sartoris, uomo che usa il pugno di ferro coi lavoratori... fino a farli prendere a fucilate e ad incendiare le loro povere tende o baracche.
Risulta così a suo modo divertente la scena della rapina in casa Sartoris, con una Bertha mozzafiato che pistola in pugno, fasciata in un elegante vestito rosso e con uno smagliante sorriso si rivolge così a Sartoris e ad i suoi amici miliardari: “Volevo... volevo dirvi che questa è una rapina, ma se vi metterete contro il muro ci eviterete la fatica di spararvi.”
Scorsese non si limita a rappresentare rapine, assalti armati ai treni, sparatorie ecc. No, quelli sono gli elementi necessari del film, quelle sono le cose che una banda fa.
Ma insieme a quegli elementi troviamo anche quello sociale o sociologico: il razzismo, le lotte e gli scioperi dei ferrovieri, la crisi economica, lo sfruttamento della prostituzione, la diffusione a tutti i livelli del gioco d'azzardo, l'alcolismo...
Poi, la storia d'amore di Bertha e Bill, benché si svolga tra una rapina e l'altra ed abbia come “luoghi” treni merci e case diroccate, è rappresentata mantenendo un certo equilibrio tra loro tenerezza e la loro (spesso incosciente) passione. Anche in questo la Hershey e Corradine riescono benissimo.
Comunque il film scorre alla grande, con in sottofondo una colonna sonora blues; blues eseguito però senza strumenti elettrici: solo voce, chitarra acustica ed armonica. Troviamo soltanto un rock, del resto necessario in un momento piuttosto drammatico del film.

Mi fermo qui perché come faccio spesso quando parlo di cinema, vorrei darvi un'idea, spero stuzzicante dei films che commento; ma vi assicuro che quello che non vi ho detto è molto più stimolante...