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martedì 24 novembre 2009

Un altro libro che ho amato e che amo ancora


Molto presto di mattina di Dylan Thomas. Il titolo originale inglese è Early in the morning: si intitola così anche un famoso blues, perciò che cosa potrei chiedere di più?
Inoltre, Thomas era un bevitore, diciamo pure un alcolizzato. Pazienza, che volete che vi dica?
Naturalmente, se uno sta lontano dalla bottiglia mica fa un’idiozia.
Anche se poi c’è tanta gente che non beve ed usa la penna per giocare a dadi coi topi. La qual cosa, a mio modesto avviso, è inutilmente stupida… nonché parecchio difficile.
Comunque lessi Molto presto all’età di 23 anni… sì, sono stato giovane anch’io, tuttavia non mi considero vecchio.
Ed anche se da allora di anni ne sono passati 24, per me il libro mantiene il suo mixtum di poesia, follia e profondità.
Penso ad una frase in cui Thomas si presenta con “le vene piene di primavera come le scarpe d’un ballerino dovrebbero essere piene di champagne.”
Fenomenale!
Thomas era un gallese.
Ora, si dice che i gallesi siano molto emotivi. L’emotività è una caratteristica (forse decadente) anche dei latini e degli italiani in particolare…
Sarà anche per questo che mi piace questo scrittore?
Ma allora io sono un decadente?!
No o almeno, non credo…
E poi mi piace anche Boll che non era né emotivo né gallese; era tedesco, il vecchio Hein.
Ma con la logica non si fa letteratura, care e cari miei!
Nell’ottobre del 1949 Thomas lesse alla Bbc una prosa dal titolo Il Galles e l’artista.
In quel pezzo egli ironizzava sui gallesi che si stabiliscono a Londra e “si comprimono la voce come in un busto perché non sporga o non schizzi fuori qualche cadenza o inflessione d’entusiasmo gallese.”
E condannava così sia il provincialismo che il falso cosmopolitismo di tanti, non solo gallesi: “C’è una sola posizione per gli artisti, ovunque: ed è quella eretta” (D. Thomas, Molto presto di mattina, Einaudi, Torino, 1980; le citazioni alle pp.67, 151-152. I corsivi sono miei).

lunedì 16 novembre 2009

Sui films e su qualche attore


Un film è una creazione molto complessa: in esso troviamo elementi come la trama, la regia, la fotografia, la colonna sonora, la sceneggiatura, le riprese in esterni, quella in interni, le luci ecc.
Del resto, come dice Adele Parrillo, Autrice del grande romanzo-rèportage Nemmeno il dolore (che consiglio a tutti) nonché aiuto regista di Alberto Lattuada, Beppe Cino, Lamberto Bava ecc., è sfibrante lo stesso lavoro dell’aiutoregista. Richiede un paziente lavoro di mediazione con la produzione, con gli attori, la distribuzione, con lo stesso regista…
Quello che quindi a noi sembra un prodotto facile e divertente, in realtà non lo è. Anche l’arte è lavoro. Certo non è come lavorare in fabbrica o in miniera, non voglio mica dire questo.
Ma per me anche il film che realizzi la miglior alchimia tra gli elementi che ho sin qui nominato necessita di un particolare tipo umano. Si tratta degli attori. Senza nulla togliere a tutto l’entourage artistico-organizzativo che ruota attorno a un film, gli attori e le attrici sono quelli che si espongono al fuoco degli sguardi degli spettatori.
Ho ammirato moltissimo Mastroianni, che secondo me passò in modo davvero convincente dal tipo quasi del latin lover a quello dell’uomo che soffre, pieno di dubbi, di paure e comunque, insicuro. Ricordate film come Una giornata particolare di Scola, Oci ciornie di Mikhalkov e Sostiene Pereira di Faenza?
Inoltre, secondo me il Pereira tratto dall’omonimo romanzo di Tabucchi regge senz’altro il confronto col libro.
Vedo un nuovo Mastroianni in Gerard Depardieu, immenso in un film come Il colonnello Chabert di Yves Angelo: la stessa o almeno molto simile umanità dolente portata in scena dal grande romano negli anni della maturità.
Depardieu mi era già piaciuto in Ciao maschio di Ferreri. Vabbe’, qualche mia maliziosa lettrice dirà che in quella pellicola mi era piaciuta molto di più Ornella Muti. Andiamo avanti, va bene?
A Mastroianni ed a Depardieu associo Sean Penn, straordinario in Mystic river di Eastwood e nel Mistero dell’acqua della Bigelow. Sean dovrebbe gigioneggiare un po’ meno; ma pian piano ci sta riuscendo, il ragazzo.
Del resto, gigioneggiano anche De Niro e Jack Nicholson che arrivati a questo punto della carriera, temo proprio che non la smetteranno più. Al Pacino, invece, mi sembra più libero… da sé stesso.
Ma ho trovato De Niro fenomenale nel Padrino parte 2/a (in cui interpretava Don Corleone giovane) ed in Mean streets di Scorsese. Guardavo i ragazzi dei miei corsi, difficilmente cresciuti nei quartieri difficili di Cagliari e rivedevo De Niro…
Di Nicholson ho amato, davvero!, Cinque pezzi facili, regia di Bob Rafelson. Mi basterebbe rivedere la scena in cui in un certo senso si confessa col padre, per commuovermi vergognosamente!
Vorrei parlarvi anche di Sophia Loren, Claudia Cardinale, Stefania Sandrelli, Sophie Marceau, Theresa Russell, Emmanuelle Bèart, Catherine Zeta-Jones ecc. perché non ho niente contro le attrici belle e brave.
Certo, non chiedetemi di considerare brava (e neanche attrice) Monica Bellucci.
Senti, Monica, non ce l’ho con te: sei una bravissima ragazza e la prossima volta che capiti a Cagliari per un seminario su Kant sarò lieto di invitarti un limoncello, ma secondo me tu ed il cinema non andate d’accordo.
Niente di personale… come dicono i killers nei films americani.
Comunque di attrici parlerò la prossima volta.







giovedì 5 novembre 2009

Qualche libro che ho amato e che amo ancora


Da oggi parlerò ogni tanto di qualche libro con cui sono cresciuto, che ha esercitato su di me un’influenza profonda, mi ha fatto molto bene e continua a farmene.
In fondo, perché non dovrebbe?
Largo quindi ai Racconti umoristici e satirici di Heinrich Boll, che lessi quando avevo 14 anni.
Penso che senza quel libro la mia strada verso la scrittura sarebbe stata molto più accidentata.
Nel Boll di quei Racconti ho ammirato molto la capacità, sul piano dei contenuti di descrivere realtà anche dolorose… ma con uno spirito leggero, mai frivolo o ingenuo.
Sul piano dello stile ho ammirato la musicalità cioè la fusione nello spazio anche di poche frasi, di una vasta gamma di sentimenti. E’ quel che appunto fa il musicista con le note.
La stessa satira di Boll, in Qualcosa accadrà. Racconto denso di avvenimenti sembra quasi che si basi su un refrain.
La frase appunto “qualcosa accadrà”, con le sue variazioni “accadrà certo qualcosa”, bisogna che avvenga qualcosa”, “è accaduto qualcosa” ecc., risuona di continuo nella fabbrica del signor Wunsiedel.
Simbolo, quella frase, d’efficienza e chiarezza di idee (?).
I dipendenti, poi, sembrano dei maghi.
Per es., sentite di che cosa era capace la segretaria di Herr Wunsiedel, il principale…
Costei aveva “sfamato un paralitico e i suoi quattro bambini, lavorando a maglia e nello stesso tempo si era laureata in etnologia e psicologia, si era dedicata all’allevamento di cani da pastori ed era divenuta famosa come cantante in un locale notturno col nome di Vamp 7.”
Wunsiedel sintetizzava così il suo credo: “Dormire è peccato” (H. Boll, Racconti umoristici e satirici, Bompiani “Tascabili”, Milano, 1977; per le citazioni cfr. pp.136 sgg.).
Ma se continuo vi racconto tutto il libro mentre dovreste leggerlo.
Ah, dovreste leggere anche i miei (scusa, Heinrich).

mercoledì 28 ottobre 2009

Terzo sguardo su rock ed infinito


La sete di cui ho parlato in Premessa a rock ed infinito tormenta i protagonisti di Born to run e può anche finire con un incidente mortale.
E’ quel che accade nella countreggiante Wreck on the highway, quando il protagonista del pezzo scorge un giovane steso by the side of the road, al lato della strada che implora il suo aiuto… prima che un’ambulanza lo porti all’ospedale.
Il testimone di Wreck (il brano che chiude il doppio in studio The river, 1980) a volte sta sveglio in the darkness, al buio, scruta la sua donna che dorme e l’abbraccia thinking ‘bout the wreck on the highway, pensando all’incidente sull’autostrada.
Sembra quasi che l’estrema ricerca di vita possa condurre a morte certa.
Tentare d’uscire attraverso la velocità e l’intensità appunto di vita (rock incluso) dai limiti più duri, che non sono solo quelli delle convenzioni morali e sociali ma innanzitutto quelli dello spazio e del tempo, bene, forse tutto questo può portare all’autodistruzione.
Che in quella spasmodica ricerca ci sia magari un che di satanico, nel senso di Faust che voleva appunto sottrarsi all’invecchiamento ed alla comune condizione umana?
Nella My generation di Pete Townshend gli Who cantavano I hope to die before I get old, spero di morire prima di diventare vecchio.
Forse in questo c’era del satanismo cosciente e consapevole (benchè non nel senso classico, antireligioso) .
Penso che My generation possa aver condotto in un certo senso la gente del rock ad un punto di non-ritorno…

mercoledì 21 ottobre 2009

I miei rapporti col dolore


Saltabeccando come un’ape di blog in blog, mi capita spesso d’imbattermi in bloggers che spesso parlano delle loro ansie esistenziali, delle loro pene d’amore, di problemi lavorativi, personali, di dubbi religiosi, filosofici, politici ecc.
Ed in questo non c’è niente di male; il dolore è uno degli elementi più presenti nella nostra vita.
Io, infatti, se in un romanzo, un film o un poema non ne trovo neanche un po’, considero quell’opera ridicola o irreale.
Benché l’arte si fondi in buona parte sulla fantasia e sull’invenzione, non può però prescindere totalmente dalla vita reale… col rappresentare un mondo di fiaba.
Quindi, il dolore è uno degli ingredienti che permettono di distinguere tra fiaba e vita reale.
Solo che mi è purtroppo venuto il sospetto d’aver commesso un errore molto simile…
Non tanto nei miei libri, dove per fortuna risse, alcol, amori infelici, entità sataniche, disoccupati, extraterrestri, ex-galeotti, fantasmi, killers, pazzi e criminali d’ogni sorta abbondano…
No, tra quelle pagine il Male c’è e si trova benissimo, sebbene in esse vi sia anche un po’ di gioia.
Ma nel blog, non mentiamo, di Male e di dolore se ne trova pochino.
Non vorrei, insomma, care lettrici e cari lettori, avervi fatto pensare che io stia benissimo.
Sappiate perciò che ogni tanto e forse anche di frequente, sto malissimo… Eh già!
Mi premeva molto puntualizzare questo concetto, perché spesso mi trovo in a crossfire hurricane, in un uragano di fuoco incrociato, come dicono i Rolling Stones in Jumpin’ Jack flash.
Voglio dire: cos’è, soffrono tutti quanti come cani (scusate il termine) e solo io devo sembrare quello che se la spassa?
Non sarebbe giusto e diciamo la verità, non sarebbe neanche credibile.

mercoledì 14 ottobre 2009

Un’importante vittoria


“Alcuni giorni fa” il “Collegio di conciliazione ha accolto le richieste dei ricorrenti e ha respinto quelle della Geas, condannando la società al pagamento delle spese d’ufficio” (L’Unione sarda, 02/06/2009, p.19).
I fatti. Nel novembre 2008 i dipendenti della Geas, “ditta consortile di Piacenza che si occupa della pulizia dei treni in Sardegna, aveva “punito” i suoi dipendenti “con nove giorni di sospensione non retribuiti per assenza ingiustificata dal lavoro” (L’Unione sarda, n° cit.).
Tale misura era gravemente lesiva dei diritti dei lavoratori, poiché gli uomini della Geas non si erano, come sostiene la ditta, assentati dal lavoro senza giustificazione.
L’assenza dal lavoro era infatti motivata dal fatto che i lavoratori avevano scioperato “per protestare contro 39 licenziamenti” (L’Unione, n° cit.).
Il motivo era quindi validissimo: nel momento in cui dei lavoratori vedono minacciato il posto di lavoro, che è la loro unica fonte di sussistenza, per esser più chiari di pane, hanno diritto di protestare e di scioperare.
Del resto, il diritto di sciopero è sancito dalla Costituzione (Costituzione della Repubblica italiana, parte1/a, tit. III, rapporti economici, art.40).
Di fronte alla punizione decisa dalla Geas, i sindacati “(Salpas Orsa in testa)”, avevano presentato “un ricorso all’Ispettorato del lavoro”. Ed il già citato Collegio “ha respinto inoltre qualsiasi sanzione disciplinare da parte della Geas nei confronti dei suoi lavoratori” (L’Unione, n° cit.).
Peraltro, come sostiene Davide Fenu del Salpas Orsa: “L’iniziativa di protesta non ha violato in alcun modo le disposizioni contrattuali né gli ordini di servizio e tra l’altro era stata preventivamente segnalata dalle segreterie regionali sindacali” (L’Unione, n° cit.).
Del resto, c’è un diritto garantito ai lavoratori dal Testo che tutti sono tenuti a rispettare: la Costituzione.
Quel Testo, infatti, assicura che “l’iniziativa economica privata è libera” ma che: “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (Costituzione, parte 1/a, tit. III, art. 41).
Fenu aggiunge: “Eravamo certi dell’esito positivo del ricorso. Per noi si tratta comunque di un’importante vittoria e non possiamo che essere soddisfatti” (L’Unione, n° cit.).
Ma per me, si può anche essere sicuri degli esiti positivi di un ricorso, di una protesta, d’aver ragione ecc.
Però, come ha scritto una volta la cara amica Emma, citando un detto in dialetto reggiano: “Un’ basta avè la rasomi, bsgna ch’i t’la dega”, “non basta aver ragione, bisogna anche che te la diano.”
Il Collegio ha dato ragione ai lavoratori della Geas, il che è molto importante sui piani giuridico, morale e sociale.
Complimenti perciò ai sindacati, che hanno presentato ricorso ed al Collegio che l’ha accolto. E complimenti soprattutto a loro: ai lavoratori.

martedì 6 ottobre 2009

Secondo sguardo su rock ed infinito


Penso che nelle arti moderne il rock abbia rappresentato (e possa farlo ancora) l’estremo tentativo, almeno per la gente del rock (che non è poca) di rompere gli schemi.
Certo, spesso, quel tentativo è stato letteralmente assassinato da abusi alcolici, di svariate droghe ecc.
In questo, troppi hanno seguito acriticamente la tesi già enunciata nel ‘700 dal poeta inglese William Blake che dichiarò: “Il sentiero dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza.”
Blake pensava che The Doors, le porte della conoscenza si sarebbero aperte proprio grazie all’eccesso.
Come è noto, Jim Morrison coi suoi… Doors fu un devoto seguace di questa idea.
Ma se Morrison fino alla “sua” End, fine, si staccò dal suo personalissimo rock-blues per avvicinarsi alla poesia ed alla filosofia, non per questo abbandonò l’eccesso teorizzato da Blake. Che quel sentiero possa aver condotto l’uomo all’infelicità o alla disperazione?
Forse contiene della disperazione perfino la grandiosa Born to run di Springsteen e della “E” Street Band.
La corsa di Wendy e del suo uomo può essere intesa come un’eterna fuga. Non si può far altro che fuggire in the streets of a runaway American dream, lungo le strade di un effimero (o fuggitivo) sogno americano.
In tale ottica il libero arbitrio non esiste né si è liberi di correre; si è costretti a farlo e non ci si può fermare. Sembra una maledizione
Anzi, per Dave Marsh Born “è una canzone che parla della morte, pur essendo uno dei brani più pieni di vita mai registrati”
Il suo è “un messaggio di speranza, ma anche fatalista. Come gli amanti-fantasmi di Thunder road, gli eroi di Born to run sono condannati a errare lungo quel rettilineo per sempre, alla ricerca di ciò che non si potrà mai trovare” (Dave Marsh, Bruce Springsteen. Nato per correre, Gammalibri, Milano, 1983, pp.219-220).

martedì 29 settembre 2009

Presentazione de “Il gioioso tormento” alla Vetreria


Sabato 26 alle 18.30 ho presentato nella Sala Rubino della Vetreria di Cagliari-Pirri il mio 3° libro, il romanzo Il gioioso tormento.
La Vetreria era un’antica fabbrica che fu abbandonata parecchio tempo fa; pensate che era già un rudere quando io avevo 10 anni…
Vabbe’, chiederò a Springsteen di scrivere un’altra Factory, fabbrica e lo costringerò a dedicarmela, così saremo tutti contenti.
Bene, arrivo sul luogo del delitto alle 18 e dopo 2 minuti perdo la famiglia; altri 30 secondi e non vedo più i miei amici. Gli ex-colleghi non si erano neanche fatti vedere. Certo che le cose si mettevano proprio bene!
Alle 18.15 incontro l’editore, Davide “big man” Zedda, il suo fedele e caustico vice Roberto Sanna e l’amica e poetessa Carmen Salis.
Alle 18.30, calcio d’inizio. Veloce introduzione di Dav & Rob, i Blues Brothers dell’editoria cagliaritana, poi Carmen inizia a leggere un brano dal Gioioso tormento.
Il pubblico segue con piacere ed interesse l’incrociarsi della voce suadente di Carmen col timbro sicuro della chitarra di Davide. Applausi.
Alla lettura with music si alternano gli interventi di Rob, che in modo sintetico ma denso accenna ad alcuni aspetti del romanzo.
Mica facile: infatti il Gioioso fonde (o almeno spero che sia così) tra loro lati umoristici, riflessivi ed anche drammatici. Ma lui riesce a presentarli in modo chiaro e distinto (scusa, Cartesio).
Quando mi cede la parola penso: “Ora cominciano i guai.” Per me, parlare in pubblico è sempre difficile… benché mi si assicuri il contrario. Mah… sarà. Comunque, dico qualcosa ed il pubblico sembra soddisfatto.
Guardo Dav che secondo me, vorrebbe lanciarsi in un rock-blues alla J.L. Hooker, qualcosa come Boom boom; sceglie un accompagnamento classico ma per fortuna, ogni tanto il blues gli scivola dalle dita!
La voce di Carmen evoca dal libro antichi pescatori, castelli fuori dal tempo, cucina francese e vecchia Praga. Rob mi interroga su ruolo e problemi di chi scrive, in un mondo che bada più al danaro ed all’immagine.
Rispondo che chi scrive deve dire sempre ciò che pensa e senza paura, benché la sua azione possa avere molto più peso se non agisce da solo.
Mi premeva sottolineare il lato talvolta molto umoristico del libro, ma mancavo della tranquillità per fare delle battute decenti; ero tesino…
Comunque evidenzio il fatto che per me un romanzo deve essere vario come una città: ogni suo capitolo un rione, ogni frase una strada.
Inoltre, affermo che una trama deve svilupparsi non in base a schemi ma in base alla vita, che ne sa sempre più di qualsiasi schema; è una dannatissima volpe la vita, no?!
Ok, ulteriori arpeggi di Dav; gli interventi puntuali, anche taglienti (ma non con me) di Rob; la voce castellana di Carmen… tutto questo termina. Ultimi applausi, in tanti si avvicinano per farsi dedicare il libro. Fine.
Grazie a tutti voi, pubblico (anche numerosetto, eh? Bravi!) e grazie a voi, 3 moschettieri.
Sere come questa, non si possono dimenticare…




venerdì 18 settembre 2009

…E dopo mi chiameranno “Terzolibro”


Sabato 26 settembre uscirà il mio nuovo libro, Il gioioso tormento.
Dove? Presso la sala Diamante - Centro Culturale - La Vetreria, in Viale Italia, Pirri-Cagliari, alle ore 18.30.
Siete tutti invitati!
Ora, il titolo di questo post è un chiaro, evidente omaggio ai western all’italiana. Sì, quelli del ciclo de Lo chiamavano Trinità, …Continuavano a chiamarlo Trinità ecc. con Bud Spencer e Terence Hill.
Benché io sia un grande appassionato del cinema d’Autore (Truffaut, Bergman, Fellini ecc.) ed un entusiasta lettore di Gramsci, S. Agostino, Joyce, Kafka e Dostoevskij, mi diverto ancora molto quando vedo un film con Bud e Terence.
Quando poi becco qualcosa di Sergio Leone, allora per me è davvero il massimo!
Tutto questo per dire che nella mia scrittura c’è (o almeno spero che ci sia) qualcosa dello spirito di quei films.
Certo, potevo dirlo subito e con meno parole.
Ma è proprio questo il punto: la vita e la letteratura sono così strane, complicate e meravigliose che secondo me, di solito non bisogna aver troppa fretta nel concludere e nel dire le cose.
C’è il rischio d’essere troppo schematici e categorici ed io, con gli schemi e le categorie non sono mai andato d’accordo.
Di che cosa parla questo 3° libro?
Ma quando mai dovrei dirvelo!
Facciamo così: leggete il libro e poi mi farete sapere di che cosa parli secondo voi.
Di sicuro, stavolta Giacomo Porcheddu, il protagonista è più vecchio di quanto non fosse nel 2°, Lune a scoppio.
E nel Gioioso tormento Giacomo che con orgoglio si definisce vecchio ragazzo, potrebbe arrivare ad un regolamento di conti coi suoi amati fantasmi ed in generale, col gentilissimo mondo dell’oltretomba.
Kalaris, Casteddu, Caller, Kar-El, Cagliari o come la vogliamo chiamare, cede talvolta il passo a Praga e quel regolamento potrebbe segnare la fine di Giacomo.
Come andrà a finire?
Lo scoprirete.
Lo so, questa può sembrare una promessa.
O una minaccia

giovedì 10 settembre 2009

La sede di un convegno


Il 27/04/09 a Cagliari, nella Sala dei ritratti della Fondazione Istituto Storico Giuseppe Siotto ho seguito il convegno che aveva per tema L’autografo di Gramsci. Considerazioni sull’importanza di un accesso diretto ai testi gramsciani.
La Sala, sfarzosa ed insieme austera ha per me un che di misterioso: si trova infatti all’interno di un antico palazzo della città vecchia. E pare quasi che il palazzo voglia nascondersi o sottrarsi alla complessa, intricata rete di vicoli e viuzze appunto della Cagliari vecchia.
All’interno della sala, uno specchio rifletteva parte dei relatori e del pubblico; ma come se il vetro fosse appannato ed il tempo scorresse in modo lento e veloce; comunque, discontinuo. Ciò mi ha quasi turbato.
Considero queste immagini una metafora (spero buona) di quella macchina di pensiero-guida per l’azione che chiamiamo Quaderni del carcere.
I Qq., infatti, inizialmente possono sembrare intricati o frammentari e che si dirigano in mille, opposte direzioni; talvolta pare che siano tenuti insieme da un’armoniosa unità di temi e motivi. Ma Gramsci aveva sottolineato in partenza il carattere di work in progress (lavori in corso) dell’op.
“In generale ricordare che tutte queste note sono provvisorie e scritte a penna corrente: esse sono da rivedere e da controllare minutamente, perché certamente contengono inesattezze, anacronismi, falsi accostamenti ecc. che non importano danno perché le note hanno solo l’ufficio di promemoria rapido” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, a c. di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, p.438).
Ma chi legga i Qq. attentamente non avrà più l’iniziale impressione di caoticità. Infatti, scrisse Gramsci, da “tali note e appunti”, “potranno risultare dei saggi indipendenti”; questo, pur tenendo conto del “carattere provvisorio” di quei materiali (A. Gramsci, Quaderni, op. cit., p.935; cfr. anche p.1365).
Questo piano di lavoro rispondeva a costanti e precedenti interessi culturali nonché al rigore metodologico del Nostro. Gramsci, insomma, non improvvisava ma sviluppava temi di cui si interessava da tempo. “Non si possono infatti capire i Quaderni senza aver letto con attenzione le Lettere (V. Gerratana, Gramsci. Problemi di metodo, Editori Riuniti, Roma, 1997, p.76).
Certo, i Qq. esigono lettori che sappiano leggerli ed interrogarli e che quindi conoscano i complessi temi da Gramsci trattati. Così, potremmo dire che i Qq. non sono per tutti… ma non per colpa di Gramsci.
E’ possibile istituire uno parallelo con lo sport, che è certo duro, sfiancante. Ma è tale soprattutto per chi scansi l’allenamento serio, metodico e certo, anche intelligente.



venerdì 4 settembre 2009

“Prestami una vita”, di Gianni Zanata


E’ con gioia mista ad imbarazzo che oggi vi parlo del 1° romanzo di G. Zanata, Prestami una vita, Edizioni Rebus.
Gioia perché si tratta di un libro togu; imbarazzo perché lui è un caro amico e non vorrei sembrare di parte.
Ma il prof. Hans von Objektivus, dell’università di Jena-Magdeburgo mi ha detto: “Lascia ’sti scrupoli a noi vecchi prussiani e studiosi di ferro!”
Ho obbedito. Prestami è un libro che si sviluppa sulla base di un disastroso incidente aereo; sì, perché gli incidenti aerei sono così, disastrosi.
Ma ben presto Gianni, anzi il suo alter-ego Duilio Settembrini compie una sorta di inversione “a u” sul proprio passato…
Dove ci troviamo? Forse a Cagliari. Il modo in cui Duilio descrive il cortile di un certo liceo, il saluto “ciao bestia” tipico di noi (quasi- vecchi) cagliaritani...
Ma i soggiorni ed amori romani del padre di Duilio ed il lessico (che definirei porno-trilussiano) della madre dell’amante di Duilio, fanno pensare che siamo nell’Urbe.
Gianni- Duilio non risolve questa ambiguità, il che è un bene perché nessuno dei 2 è un realista.
Altro bene: per molte delle pagine iniziali incontriamo delle scoppiettanti metafore; poi, con nonchalance, Duilio-Gianni sceglie una narrazione più sobria… ma senza tralasciare un uso incisivo del linguaggio, come quando definisce la particolarissima casa Settembrini “famiglia intermittente.”
Notevole la figura dell’amante di Duilio, Dorotea Lucci; disinibita almeno quanto il balletto del Crazy Horse al gran completo… ma in modo fresco, naturale e del tutto priva di sensi di colpa o del peccato. Lei, insieme a Duilio è la figura più riuscita del libro.
Dorotea aiuterà Duilio oltre che nel loro sesso esplosivo, anche nella ricerca di una sorella di cui aveva sempre ignorato l’esistenza e di una principesca eredità.
Duilio si situa tra Charlot e Keith Richards: oscilla quindi tra il candore ed il cinismo; ma ha un codice che lo guida lungo una strada fatta di ricordi, sogni, improvvisa ricchezza, sexus, disillusioni, viaggi da Londra agli States…
Del libro vanno anche riletti certi capitoli o alcuni flash.
Come per es. come quello in cui Duilio incontra un vicino che: “Non si sa bene per quale motivo, si era convinto che fossi il nipote di un suo lontano parente.”
Gianni sa infatti dipingere dei personaggi kafkiani, ma animati da una vena di sottile umorismo.
Leggetelo, Prestami una vita.
Non solo non ve ne pentirete, ma ve ne… rallegrerete.

giovedì 27 agosto 2009

Premesse storiche ed artistiche ad una questione d’attualità


In Italia tanti problemi hanno radici antiche. Questo è un Paese in cui la stessa criminalità organizzata, ancor prima che astuta e spietata, parte da un passato davvero remoto. Abbiamo quindi un problema di tempo, un lato cronologico del fenomeno criminoso.
Ma la “remoticità” di tale lato, il suo muovere da questa grande lontananza temporale, agli occhi di alcuni pare quasi che conferisca alle varie organizzazioni criminali che incarnano la criminalità, un che di misterioso se non di leggendario.
Eccoci quindi di fronte ad una dimensione quasi morale o poetica della criminalità. Qui troviamo anche visioni romanticoidi o pesudosociali: come quella che vede nel criminale un eroe che combatte per il popolo (vedi il film Il siciliano con C. Lambert) sorta di cavaliere errante in lotta contro i potenti.
Tale visione prescinde in toto dalla constatazione che il criminale è poi al servizio di chi talvolta può sembrare abbia combattuto; nella “migliore” delle ipotesi, è al servizio di sé stesso.
In Sardegna spesso sono stati esaltati (non solo dal poeta Sebastiano Satta) come “belli, feroci e prodi” dei banditi che al massimo erano feroci.
Il romanzo Il padrino di Mario Puzo ha presentato nella figura di Don Vito Corleone un “mafioso morale”… vera contraddizione in termini; altrettanto dicasi, forse, per il Don Gaspare del romanzo di Sciascia Il giorno della civetta.
Nella canzone Joey, Dylan idealizza il killer del clan Profaci, nonché uccisore del boss Albert Anastasia, Joe “Crazy” Gallo.
Il fatto poi che dal Padrino e dal Giorno siano stati tratti dei film di successo, ha conferito appunto ai Don citati pubbliche caratteristiche di moralità e poeticità.
Ma non intendo criticare gli artisti di cui sopra.
Degli artisti creano ed il loro, forse unico dovere è quello che hanno di fronte alla loro arte; non sono responsabili di fraintendimenti o idealizzazioni.
Spetta però a governanti, intellettuali, media, educatori e società civile vigilare affinché al pubblico non pervengano messaggi eventualmente (e sottolineo questo avverbio) distorti.
Inoltre, lo stesso artista può spiegare in interviste, saggi e dibattiti quale sia la sua posizione.
Naturalmente, egli descrive ciò che vede e tra i personaggi di un’opera di invenzione e le persone della vita (e della delinquenza) reale c’è una bella differenza…

lunedì 17 agosto 2009

Nel giorno del mio centesimo compleanno


I miei guai coincidono col giorno del mio 100° compleanno. Il robofattorino mi aveva appena consegnato la torta, quando in strada sentii delle urla miste a fischi e ad antiche bestemmie.
Pagai il metallico garzone, inciampai (però con molta eleganza) in una delle sue gambe ed in pochi istanti mi trovai giù. Forse, perché ero caduto dalla finestra.
Chiesi che cosa fosse successo…
Poi tutto si fece vago, indistinto.
Ricordo solo il riff di chitarra di Radio nowhere di Springsteen che veniva da una baracca ed un foglio elettronico che secondo qualcuno dovevo “firmare assolutamente.”
Risposi che non avevo con me la ciberbic; non mi è mai piaciuto firmare nulla “assolutamente.” Prima devo leggere e fingere di capire…
Va bene, insomma: si trattava di una liberatoria che mi autorizzava a partecipare al linciaggio di un vagabondo, forse sospettato d’aver tirato la coda al gatto del proprietario del palazzo (un famoso calciatore).
Mi rifiutai e questo sì, assolutamente.
Mi furono offerte queste alternative: partecipare al linciaggio o autoesiliarmi nello spazio. Decisi d’autoesiliarmi. La sera stessa mi imbarcai sull’astronave Abaelardus.
20 giorni di navigazione e raggiunsi Planetus, un pianetino niente male che somigliava parecchio alla Terra.
2 giorni dopo fui convocato da Rektor I, un boss che controllava il locale racket universitario.
Mi ordinò di sedermi con aria particolarmente violento-gentile poi buttò lì: “Carissimo, so che tu, sulla Terra, consideravi addirittura inumano sottoporre gli studenti a tortura, mutilazione laser e roulette russa…”
Tossicchiai e chiesi: “Emh… dov’è il bagno?”
Sul lavandino vidi una ranocchia volante che mi rassicurò: “Stai tranquillo, ho una moto d’acqua parcheggiata sul tetto.”
Poi, ridendo: “Io sono un’ex-docente di filosofia morale degradata a vice-bidello, perciò so che se ti scontri con Rektor, quello ti trasforma in sandwich per topi!!!”
Estrasse un Kalalaser, disintegrò la porta e raggiungemmo il tetto. Da lì spiccammo il volo verso le nuvole…
Sono almeno 30 anni che io e Ranocchia facciamo il nostro, unicissimo, surf in cielo.
Mica lo so se ci torno, sulla Terra… anche perché tra le nuvole io e la mia bella non surfiamo soltanto.
L’unico problema è che grazie a Rektor, su di noi pende un ordine di “fucilazione a vista”; inoltre, soffro di vertigini.
Comunque, come si dice? Non si può avere tutto, nella vita.

lunedì 10 agosto 2009

Primo sguardo su rock ed infinito


Dati i miei molteplici limiti, di cui sono ben conscio, non vi terrò (neanche oggi) una lezione di teologia. Perciò, abbiate pazienza!
Parlerò di rock, benché molti rockers e bluesmen si siano interessati se non a Dio, almeno al Maledetto Rivale.
Sì, insomma, Satana, il Dannatissimo Serpente.
Un Tipaccio sul Quale, in effetti, c'è poco da scherzare...
Bene, nella storia del rock troviamo spesso riferimenti anche espliciti a figure legate al mondo della religione.
Il caso più eclatante è costituto dal Dylan della conversione al cristianesimo, che in ben 3 dischi (Slow train coming, 1979; Saved, 1980; Shot of love, 1981) dichiarava costantemente e con forza la sua nuova fede.
Col successivo Infidels (1983) Dylan tornò ai consueti simbolismi, spesso criptici ma non per questo meno interessanti.
Il discorso religioso fu dall’uomo di Duluth accantonato, benché anche Infidels contenesse rimandi al mondo ebraico-cristiano.
Ma quel disco era dominato da maggior inquietudine ed il dubbio prevaleva sulla professio fidei, la professione di fede.
Del resto, parlando di Infidels Dylan aveva quasi vagheggiato la ricerca di una forse impossibile via di mezzo tra il non voler cambiare mai ed il cambiare tutto “ogni volta”, come per una “frenesia.”
Ed il grande Bob concludeva, enigmatico come sempre: “Se non ti confronti col futuro, perché dovresti confrontarti col passato?” (Nemesio Ala, Bob Dylan, Gammalibri, Milano, 1984, p.184).

domenica 2 agosto 2009

2 agosto 1980, stazione di Bologna






Il 2 agosto 1980 una bomba esplose nella sala d’aspetto di 2/a classe della stazione di Bologna.
Quella maledetta bomba straziò 85 persone e ne ferì 200.
L’orologio che vedete nella foto è quello della stazione… l’ora è quella dell’orribile massacro… le 10.25 del mattino.
Tra le vittime la piccola Angela Fresu, di appena 3 anni.
Penso che i sopravvissuti ed i feriti non abbiano dimenticato, né dimenticheranno mai quell’orrore.
Del resto, chi potrebbe?! Come potrebbe?!
L’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini parlò a ragione dell’”impresa più criminale che sia avvenuta in Italia.”
Io aggiungo “solo” che è stata la più grande compiuta nell’Europa del tempo… e forse non solo di quel tempo.
Come leggo sul sito dell’associazione familiari vittime della strage, appunto “solo 7 vittime ebbero il funerale di Stato".
Il motivo è per me arduo da comprendere: erano, infatti, tutti cittadini del nostro Paese, morti anzi assassinati in modo atroce e totalmente innocenti
C’erano ragioni burocratiche, giuridiche o di genere simile per non concedere a tutti gli altri dei funerali di Stato?
Questo è senz’altro possibile ed in uno Stato di diritto, appunto il diritto (lo ius) va osservato.
Eppure, i Latini (per es. Cicerone) dicevano: “Summum ius, summa iniuria.” Essi consideravano l’applicazione letterale ed acritica del diritto, fonte di gravissima ingiustizia.
Naturalmente, poiché non sono un giurista parlo da persona che considera fondamentale (nel senso di “ciò che fonda, dà fondamento”) il senso di umanità e di pietas.
E forse, sono solo uno che è nato, cresciuto e vive tuttora in una regione dedita da millenni all’agricoltura ed alla pastorizia, per addentrarmi nei meandri del diritto.
Sia perciò ascritta la mia citazione a scrupoli e ad interessi filosofico-morali e fine della questione.
Comunque, oggi voglio solo ricordare i nostri poveri connazionali, la cui vita è stata stroncata per sempre. Voglio inoltre abbracciare idealmente i loro familiari, che certo in questi 29(!) anni si saranno nutriti di dolore e di amarezza.
Presto, però, cercherò d’occuparmi anche dei vari risvolti della tragedia, sui cui mandanti molti dubitano sia stata fatta piena luce.

lunedì 27 luglio 2009

Sete d’infinito sì… ma rockeggiante!


Il post del 7 luglio Premessa a rock ed infinito non vi avrà fatto dire: “Ohi, ora questo attacca con la filosofia?!” Rilassatevi: si tratterà comunque di una filosofia potabile.
Inoltre ai post su quella sete si alterneranno o seguiranno altri in cui regnerà il rock in carne e… elettricità!
Comunque, io penso che per sua natura il rock conduca a cercare qualcosa di più, a non accontentarsi solo della straordinaria esaltazione che esso procura né ad amare soltanto la vita on the road.
Certo, il rock è anche un bisogno fisico: in Misery di Stephen King il protagonista, prigioniero di una psicopatica desidera assolutamente “un rock”; gli andrebbe bene perfino Girls just want to have fun della Lauper.
Per Maria Mc Kee, cantante dei Lone Justice (band definita di “aftercountryrock”): “Il rock è come la religione, ti coinvolge ad un livello sia fisico che emotivo.”
Parallelo estremo, forse anche paradossale ma da intendersi così: il mistico e l’eremita bruciano il loro corpo rifiutando la materia e la carne per proiettarsi oltre questo mondo; il rocker brucia il proprio affermando tutta la vita, ma per superarla anch’egli. I mezzi sono opposti, il fine è identico.
Un concerto rock è un momento al di fuori dello spazio e del tempo, per certi quasi una sospensione delle leggi morali… Townshend diceva che se uno fosse salito sul palco mentre suonava , avrebbe potuto ucciderlo.
Patti Smith ricordava che durante un concerto dei R. Stones cercò di salire on stage, un poliziotto cercò di fermarla e Keith Richards lo stese con un calcio.
Impossibile, poi, ascoltare del rock trascurando la chitarra ritmica… che fa già capire che aria tiri! In Sweet Jane di Lou Reed senti Ian Hunter e Dick Wagner, ritmica e solista che si incrociano e quella è davvero una rock ‘n roll celebration!
O prendi perfino la Hot legs di quel bizzarro personaggio che è Rod Stewart: come puoi star fermo, con quel formicolante rock-boogie? Voglio dire: anche senza pensare alle gambe calde, hot legs cantate dal Rod…
Ed il riff della chitarra di Joe Walsh in In the city, che un mio amico definì simpaticamente “rockaccio”, dà anche ai melodici Eagles una (certo episodica) verniciatura rock.
Il piano martellante di Let’s spend the night together degli Stones t’afferra per le tempie e ti fa saltare su & giù.
La voce strappata di Daltrey e la chitarra dura, nervosa ed essenziale di Townshend in Long live rock ti fanno evadere dalla prigione della noia.
L’insistito, trasognato ed un po’ acido assolo di Neil Young in Cortez the killer ti fa rivedere i milioni di indios massacrati dai conquistadores.
In Good eye la voce ringhiante di Bruce e l’armonica rabbiosa nell’ossessivo, implacabile ritmo della “E” Street ti trasportano oltre ogni cold black water, fredda acqua nera.
Potrei continuare. E continuerò!

martedì 21 luglio 2009

Il 17 luglio 1992 il massacro di Via D’Amelio


La mafia avrebbe sterminato Borsellino e la scorta anche utilizzando dei cecchini o comunque molto meno esplosivo.
Ma credo che il messaggio fosse quello dell’overkill, lo strauccidere di cui parlava Vacca nel Medioevo prossimo venturo: il potere che (col loro arsenale nucleare) avevano Usa ed Urss d’uccidere più volte ogni singolo essere umano.
Poiché credo che la mafia agisca anche a livello simbolico, il messaggio consiste nel trasmettere l’idea che il suo nemico sia da straziare distruggendo /umiliando la sua stessa appartenenza alla specie umana.
Infatti, come ricorda il giudice Ayala: “Inciampai in un tronco d’uomo bruciato. Era quello che restava di Paolo Borsellino” (Giuseppe Ayala, Chi ha paura muore ogni giorno, Mondadori, Milano, 2008, p.5).
Nell’Antico Testamento si parla di Dio che fecit potentiam in brachio suo, dispiegò la potenza del suo braccio. Ora, la mafia opera un rovesciamento dei valori (mi collego qui liberamente a Nietzche) sì che i concetti di famiglia, onore, rispetto assumono connotazioni opposte e volte alla legittimazione di un’ideologia di morte, pressoché demoniaca.
Così, famiglia sta per clan rigidamente strutturato in senso militare, rispetto per terrore davanti ad un dominus, il don il cui onore consiste nell’esercitare un potere di vita e di morte. La stessa nozione religiosa di padrino si rovescia in quello di dittatore legibus solutus, sciolto da leggi… civili, morali e certo, anche religiose.
Questa perversa ideologia svia tanti che della mafia vedono solo il lato dell’”onnipotenza” militare e subiscono il “fascino” della sua simbologia.
Ma 4 giorni fa il fratello del giudice, Salvatore ha definito Via D’Amelio “strage di Stato”, adducendo come prova fatti davvero inquietanti e che risulterebbero da vari processi. Il più grave: una “trattativa che avrebbe voluto firmare il boss mafioso Totò Riina con lo Stato in cambio dell’abolizione del carcere duro” (Corriere della sera.it, 17/07/09).
Per Salvatore, suo fratello fu informato della notizia, che lo sconvolse “come testimonia il pentito Gaspare Mutolo” (Corriere, cit.). Del resto, sulla “trattativa” sarebbero state “avviate delle inchieste dalle procure di Milano e Firenze” (Ivi). Su tali tesi si potrà anche discutere, ma sarebbe grave liquidarle con sufficienza, magari perché si identifica la mafia con coppole e lupare.
Falcone e Borsellino videro che la mafia aveva messo radici nella società e nella finanza se: “Raccontò Rocco Chinnici che, durante l’istruttoria del cosiddetto “processo Spatola”, l’allora procuratore generale Giovanni Pizzillo lo convocò per redarguirlo severamente: “Ma che credete di fare all’ufficio istruzione? La devi smettere di fare indagini nelle banche, perché così rovini l’economia siciliana. A quel Falcone caricalo di processi, così farà quello che deve fare un giudice istruttore. Niente” (G. Ayala, op. cit., p.17).
E per il procuratore aggiunto presso la Procura antimafia di Palermo, dott. Scarpinato “la mafia è anche uno dei tanti complicati ingranaggi che nel loro insieme costituiscono la macchina del potere reale nazionale; macchina che scrive il corso della storia collettiva operando in parte sulla scena, ma in gran parte dietro le quinte” (S. Lodato R. Scarpinato, Il ritorno del Principe, Chiarelettere, Milano, 2008, p.179).
Vorrei poter dire al giudice ed a chi morì con lui: “Che la terra vi sia lieve.” Ma so che non potrà esserlo, finchè non saranno fatte piena luce e giustizia.

martedì 14 luglio 2009

Liberté, egalité, fraternité. 220 anni fa la Rivoluzione francese



Il 14 luglio 1789 il popolo di Parigi in rivolta attaccò e prese la Bastiglia, fortezza e carcere che considerava luogo-simbolo della tirannide e dell’oppressione.
Quello che vedete è il quadro del pittore Eugéne Delacroix La libertà che guida il popolo. La libertà, noterete, è una donna dal portamento fiero e che come la stessa giustizia non teme di scoprirsi.
Anzi, penso che attraverso questo scoprire sé stessa, la libertà (quella vera cioè quella che vuol essere per tutti) aiuti a scoprire l’io, la dignità e la coscienza di chi crede d’essere destinato ad una vita di sottomissione.
La libertà, come la verità non teme di mostrarsi com’è: chi deve temere e vergognarsi è solo chi intende soffocarle.
Per Gramsci: “La verità deve essere rispettata sempre, qualsiasi conseguenza possa apportare, e le proprie convinzioni, se sono fede viva, devono trovare in se stesse, nella propria logica, la giustificazione degli atti che si ritiene necessario siano compiti.”
Ed aggiungeva: “Sulla bugia, sulla falsificazione facilona non si costruiscono che castelli di vento, che altre bugie e altre falsificazioni possono far svanire” (A. Gramsci, La conferenza e la verità, L’Avanti!, 19/02/16).
La verità si mostra insomma nuda: così come la giustizia, che se non è per tutti è solo per pochi privilegiati; ma allora si chiama ingiustizia.
Tutti gli aristocratici del ‘700 consideravano segno di depravazione morale o di confusione mentale i discorsi che tendevano alla diffusione di leggi universali; ironizzavano sui “presunti diritti dell’uomo”...
Perché per loro pensare che tutti avessero uguali diritti significava procedere “dispoticamente” contro “tutti i privilegi e le libertà particolari” (Domenico Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Bari, 1996, pp.41-42).
Era quindi quello il problema: i privilegi. Nessuna complessa questione filosofica, morale, teologica o giuridica ma solo i privilegi che fruttavano ai nobili ricchezze ed impunità di fronte alla legge.
Cioran in Squartamento cita la lettera di un nobile che si era impadronito del cadavere di un artigiano e che sulla base di tale possesso ne reclamava l’eredità… contro gli eredi. Questo abuso/orrore doveva rientrare in una dimensione sancita dal diritto, o il reclamo non sarebbe neanche stato concepito.
Vediamo quanto scrisse, con tono diabolicamente divertito certa Madame de Sevigné. In seguito ad una rivolta popolare scoppiata in Bretagna e repressa per Tocqueville “con un’atrocità senza esempio”, furono infatti prese misure che dalla sfera militare sconfinarono in quella sadica.
Madame, certo graziosamente elegante, profumatissima e dai modi impeccabili, scrive: “Si è cacciato e bandito tutto un quartiere, e proibito di riceverne gli abitanti sotto pena della vita; così si vedevano tutti questi miserabili, donne incinte, vecchi, bambini, errare piangendo all’uscita della città, senza sapere dove andare, senza avere cibo né riparo.”
Madame accenna en passant ad un “imbecille” che considera responsabile di un “tumulto” e che “venne squartato, e i suoi quarti esposti ai quattro angoli della città. Una sessantina sono stati arrestati e domani cominceranno a impiccarli” (D. Losurdo, op.cit., p.63).
I resti del corpo di un uomo fatto a pezzi sono definiti quarti; come i quarti di bue. L’essere umano se appartenente al popolo, abbassato alla dimensione animale… Passibile, per la nobiltà francese, solo di divertito disprezzo. Lo spettacolo dello squartamento, una sadica gioia di cui godere come antidoto, forse, alla monotonia della vita di corte.
M.me osserva con nonchalance che “ora non siamo tanto arrotati, appena uno in otto giorni, per far funzionare la giustizia. E’ vero che l’impiccagione è in ripresa…” (D. Losurdo, op. cit., pp.63-64).
Si noti quel “non siamo tanto arrotati”, questo apparente porsi tra le vittime della spietata repressione; forse per sbeffeggiare meglio l’insieme delle crudeltà loro riservato. E si noti la pena dell’impiccagione definita in ripresa, come se si trattasse delle azioni di una società commerciale…

martedì 7 luglio 2009

Premessa a rock ed infinito


Da oggi e per un po’ in “Parliamo di musica” mi occuperò del tema della ricerca, talvolta generosa, talaltra autodistruttiva, comunque sempre inquieta di ideale e di una vita più piena da parte della gente del rock. Chiamerò il tutto “infinito.”
Talvolta questo infinito può somigliare ad una ricerca religiosa o anche avere esiti religiosi. Ma perlopiù, per la gente del rock questa ricerca non sfocia in adesioni a chiese o fedi definite; è più una sorta di sete di bellezza e verità, totalmente libera, che un seguire formule teologiche o un rispettare precetti morali.
Con gente del rock non intendo solo i musicisti e tutto il personale che gravita attorno ad essi (discografici, tecnici del suono, amministratori, promoters o organizzatori) ma anche i fans, le groupies (le… disponibilisssime ragazze al seguito delle bands) e perfino coloro che detesteranno il rock ma ne subiscono comunque l’influenza.
Perché: “Il rock ormai è entrato nella storia” (Chuck Berry, L’autobiografia, Sperling & Kupfer, Milano, 1989, p.337).
Il rock e pop-rock cui mi riferirò è quello che mi piace di più e col quale sono cresciuto:
Bob Dylan, Neil Young, Springsteen & the “E” Street Band, i Beatles, i Creedence, Johnny Winter, John Lennon post-Beatles, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Keith Richards anche da solista, gli Who, Chuck Berry, Elliot Murphy, i Clash, Willie Nile, Steve Earle, John Mellecamp, i Los Lobos…
Se conosco il vecchio ragazzo che sono, questo elenco si allungherà ancora!
Si tratta di rock (e di rockers) che parte da basi culturali e da radici musicali spesso disparate. Ma hanno dei punti in comune: il blues (quello tradizionale e quello elettrico di Chicago), il country di Hank Williams, il rythm ‘n blues, il soul, il rock ‘n roll nero di Little Richard e quello bianco di Elvis e Jerry Lee Lewis.
Ed ora, buon ascolto; oops, buona lettura!

Viareggio: dolore, rabbia e domande (parte 1/a)


Nella tragedia di Viareggio sono morte 22 persone, compresi dei bambini e tante sono rimaste gravemente ustionate. Un migliaio gli sfollati.
La stazione e le palazzine attorno… il tutto è ora devastato come dopo un attentato terroristico o un bombardamento.
Infatti, gli scampati hanno avuto l’impressione di una vera e propria azione di guerra. La madre di Chiara B. dice che: “Al momento dello scoppio eravamo entrambe in casa. Le pareti sono diventate arancioni dal bagliore” (Liberazione, 2/07/09, p.2). Alice D. dichiara “ho visto gente cadermi accanto bruciare viva” (Liberazione, n° cit, p.3).
Potremmo riportare anche altre testimonianze, forse perfino più drammatiche. Comunque, oltre ai viareggini ed alle viareggine, piangono quei morti tutti gli italiani.
Ora, abbiamo il sacrosanto diritto di sapere: sono stati effettuati dei controlli sulla sicurezza dei materiali trasportati? Come sono stati effettuati tali controlli e da chi? Esiste un personale tecnico specializzato in controlli come questi? Qui chi è legalmente e penalmente responsabile?
Si parla tanto di sicurezza ma quanto è sicuro far transitare un convoglio carico di materiali che possono diventare altrettante bombe, all’interno di un centro abitato? Non sarebbe molto più sicuro smistare certi convogli fuori dai centri abitati?
Da militare ho prestato servizio di guardia presso navi che trasportavano materiali potenzialmente infiammabili ed esplosivi. Ma quelle navi attraccavano ai moli più lontani, la città si vedeva appena; non attraccavano in pieno porto.
Comunque, già nel 2008 la “direzione tecnica di Rete ferroviaria italiana”, in un rapporto “dell’ufficio monitoraggio del Cesifer, la struttura operativa che fino all’anno scorso si occupava delle certificazioni sulla sicurezza delle imprese ferroviarie” dichiarava: “Una attenzione particolare va posta in merito alle non conformità rilevate sul materiale rotabile merci per il trasporto di merci pericolose” (L’Espresso, n°27, 9/07/09, p.31).
Il rapporto riguarda anche Trenitalia (la “responsabile del trasporto” di Viareggio) che “da sola l’anno scorso ha trasportato l’85,2 per cento delle merci su rotaia” (L’Espresso, p.32, n° cit.).
Quel rapporto individuava una “condizione di criticità” e delle “anormalità di tutte le imprese certificate” in manovra e formazione dei treni, con particolare riguardo alle condizioni di accettazione dei convogli, alla corrispondenza tra dati reali del treno e quelli indicati sui documenti di scorta.”
Il Cesifer rilevava anche il “mancato addestramento dei dipendenti” (L’Espresso, n° cit., p.32).