giovedì 22 settembre 2016
“I rusteghi”, di Carlo Goldoni
Si tratta di una commedia che
Goldoni scrisse nel 1760 e che: “Fu recitata al teatro San Luca il
16 febbraio e poi per due sere consecutive alla fine del Carnevale,
col titolo La compagnia dei salvadeghi ossia i rusteghi.”1 Ora,
egli scriveva in veneziano e:
“Nella Repubblica di Venezia la lingua ufficiale era il veneto
colto.”2
Forse,
lo stesso veneziano utilizzato da Goldoni, era più una lingua
che un dialetto,
infatti Gaspare Gozzi scrisse nella “Gazzetta Veneta” (20
febbraio 1760): “Lo stile è colto e senza espressioni plebee o
idiotismi vili”.3
A questo
punto i miei lettori e le mie lettrici sbufferanno: ma questo qui
perché la fa tanto lunga, con la questione della lingua? Semplice:
perché se dovessi tradurre male questa gustosissima lingua, voi
continuereste a volermi bene... attribuireste i miei strafalcioni ad
ignoranza, non a disprezzo dell'Autore.
Bene,
proseguiamo.
(Era
ora!, direte voi; ed infatti, lo
dico anch'io).
Cediamo
la parola al grande Carlo: “Noi intendiamo in Venezia per uomo
rustego un uomo aspro,
zotico, nemico della civiltà, della cultura, e del conversare.”4
Questi
rusteghi sono uomini,
ma lo sono in modo perlopiù odioso. Non sembrano mariti e
padri bensì sergenti o
inquisitori, amano la solitudine, detestano i divertimenti, non
desiderano che il resto della famiglia (soprattutto mogli e
figlie) si diverta o possa
farlo.
A
loro piace stare a casa: “E soli.”
“E co le porte serae”,
con le porte chiuse.
“E co i balconi inchiodai”,
coi balconi inchiodati.
Quelli
che non impongono alle donne la propria volontà: “No xè
omini”, non sono uomini.5
Su
tutto prevale il lavoro,
il danaro e la
“gloria” d'averne accumulato fin da piccoli; negandosi da
sé ogni divertimento, anche il
più innocente. Tutto è improntato ad un'austerità di costumi
addirittura ridicola, come quando Simon dice: “Mi no
parlava squasi mai gnanca co mia siora mare”,
io non parlavo quasi mai neanche con la mia signora madre; o come
quando Lunardo (il padre di Lucietta) e sempre Simon, si vantano di
non sapere neanche che cosa siano un'opera o una commedia.
E
se qualcuno spreca, ozia etc. etc., “E tuto xè causa la
libertà”, è tutta colpa
della libertà.6
Alla
fine, certa gente è sempre lì, che va a finire: è sempre colpa
della libertà. Chi
libero non è e non vuol esserlo, pretende che non lo siano neanche
gli altri. Ed al di là dell'apparente bonomia,
non fa altro che covare rancore, rabbia, nutrire sospetti...
soprattutto verso i giovani e
le donne, tanto che
Lucietta dice del padre: “El xè impastà de velen”,
è intriso di veleno.7
Ne
I Rusteghi le donne
sono totalmente sottomesse agli uomini. Come dirà Felice (moglie di
Canciano), le donne: “Le ve considera no marii, no padri,
ma tartari, orsi e aguzini”,
non vi considerano mariti, padri, ma tartari, orsi ed aguzzini.8
Questa
sottomissione può lasciar perplessi, perché le fonti storiche
dipingono le donne veneziane come
molto autonome ed anche come parecchio disinibite: illuminante, al
riguardo, il testo del veronese Silvino Gonzato Venezia
libertina.9
Ma
forse potremmo fugare ogni dubbio e/o perplessità vedendo la
faccenda in questo modo: la donna veneziana era tutt'altro che
sottomessa quando apparteneva all'aristocrazia,
poteva quindi disporre di mezzi economici, cultura, conoscenze
altolocate etc. etc.
Del
resto, anche la donna non aristocratica come per es. Felice,
poteva opporsi, poteva ribellarsi: infatti lei rintuzza spesso e con
una certa grinta le obiezioni del marito, sì che lui bofonchia
(quasi intimorito): “Oh che bestia!
No se pol parlar!”,
oh che bestia! Non si può parlare!10
Appunto
Felice svetta su tutti non solo per la fierezza, ma anche perché
essa è sostenuta da cuore, intelligenza e capacità argomentativa.
Essa
dice infatti ai rusteghi, e soprattutto al caro, amorevole marito che urla, sbraita e minaccia di picchiarla: “M'aveu
trovà in t'un gatolo?”, mi
avete trovata in un rigagnolo? Mi no perdo el respetto a
vu, e vu no l'avè da perder a mi”,
io non manco di rispetto a voi e voi non dovete mancare di rispetto a
me.11
Poi
aggiunge: “Disè, sior Cancian, v'ali messu su sti
patroni? (…). Ste
asenate l'aveu imparade da lori?
Se sé un galantomo, tratè da quelo che sè”,
dite, signor Canciano, vi hanno istigato questi signori? Avete
imparato da loro queste asinerie? Se siete un galantuomo, trattatemi
da tale.12
Egli è,
infatti, un brav'uomo: ma i suoi amici lo manipolano per abbassarlo
al loro livello.
Felice
ammonisce invece i rusteghi a
non spargere zizzania tra lei ed il marito ed evangelicamente,
aggiunge: “E quel che non volessi che i altri, fasse cun
vu, gnanca vu coi altri no l'avè da far”,
non fate agli altri quel che non volete sia fatto a voi.13
Ma
oltre al lato morale-religioso, nel discorso di Felice ne troviamo
uno anche razionale,
se premette: “Perchè se me dirè le vostre razon, son
donna giusta, e se gh'ho torto, sarò pronta a darve sodisfazion”,
perché se esporrete le vostre ragioni, sono una donna ragionevole,
sarò pronta a riconoscerlo.14
Qui lei
cerca un confronto dialettico e razionale, non si spreca in scuse e/o
accuse: quel che dice, nasce dall'analisi dei fatti e da quella della
selvatichezza di certi uomini. Inoltre, vuol trovare una conclusione
giusta e ragionevole.
L'atteggiamento
sospettoso, malevolo e potenzialmente foriero di violenza dei
rusteghi è esaminato
anche a livello di costume e del vivere civile,
se Felice afferma: “La maniera che tegnì co le donne
(…), la xè cusì
stravagante fora de l'ordinario, che mai in eterno le ve poderà
voler ben”, l'atteggiamento
che tenete con le donne (…), è così stravagante, fuori
dall'ordinario, che non vi si potrà voler bene in eterno.15
E'
proprio questo il punto: tra esseri umani,
il comportamento di questi orsi è
non solo offensivo, ma anche folle, al di fuori di qualsiasi logica;
una famiglia ed una società dominate da loro, è tenuta insieme solo
dalla paura, da
continue ed immotivate punizioni,
assurdi sensi di colpa
etc. etc. Così Felice li invita ad essere in effetti: “Un poco più
civili, tratabili, umani.”16
Quest'opera
si presta quindi a varie considerazioni: sulla famiglia, sul potere
della triade uomo-padre-marito, su un lavoro per il lavoro e non per
l'uomo, su un'austerità di costumi che diventa negazione
dei nostri impulsi sociali,
culturali e così via.
Ma Goldoni
intreccia tutti questi temi da maestro e ricorrendo al castigat
ridendo mores (punisci i costumi col riso). Inoltre sa farci
sorridere ed anche ridere di cuore; mai però sguaiatamente.
Del resto,
egli osservava il mondo in modo attento ed umano e come osservò
Gramsci: “Goldoni è quasi 'unico' nella tradizione letteraria
italiana. I suoi atteggiamenti ideologici: democratico prima di
aver letto Rousseau e della Rivoluzione francese. Contenuto popolare
delle sue commedie: lingua popolare nella sua espressione, mordace
critico dell'aristocrazia corrotta e imputridita.”17
Insomma: la
commedia I rusteghi poteva esser scritta solo da un uomo che
solidarizzava col popolo e che sapeva vedere quel che doveva ancora
manifestarsi: cioè il nuovo ruolo che avrebbero assunto i giovani e
soprattutto le donne.
E se su
tutto questo si poteva anche rider su... perché no? Ci sono già
abbastanza rusteghi, a questo mondo!
Note
1
Nota in Carlo Goldoni, I rusteghi,
Einaudi, Torino, 1970, p.99.
2
C. Salinari C. Ricci, Storia della letteratura italiana,
Laterza, Roma-Bari, 1990, p.1161, vol.2.
3
Nota in C. Goldoni, I rusteghi,
op. cit., p.100.
4
L'Autore a chi legge,
in C. Goldoni, I rusteghi,
op. cit., p.18.
5
Cfr. C. Goldoni, op. cit., atto secondo, scena quinta,
p.60.
6
Cfr. C. Goldoni, op. cit., atto secondo, scena quinta,
p.28.
7
C. Goldoni, op. cit., atto primo, scena seconda,
p.58.
8
Ibid., atto terzo, scena seconda,
p.85.
9
Silvino Gonzato, Venezia libertina,
Neri Pozza, Vicenza, 2015.
10
C. Goldoni, op. cit., atto terzo, scena seconda,
p.85.
11
Ibid., atto terzo, scena seconda,
p.83.
12
Ibid., atto terzo, scena seconda,
p.83.
13
Ibid., atto terzo, scena seconda,
p.84.
14
Ibid., atto terzo, scena seconda,
p.84.
15
Ibid., atto terzo, scena seconda,
p.85.
16
Ibid., atto terzo, scena ultima,
p.94.
17
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere,
Edizione critica dell'Istituto Gramsci, a c. di Valentino Gerratana,
Einaudi, Torino, 2007, p.810. I corsivi sono miei.
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