Si tratta di un racconto di A.
Arslan, docente, saggista e scrittrice padovana d’origine armena. Le luci possiede,
nonostante l’epoca storica in cui si colloca e gli avvenimenti di cui si
occupa, una grazia particolare.
E’ come se l’Autrice avesse
ceduto la parola alla bambina che era in quegli anni: con tutta l’ingenuità ma
anche la tristezza che appunto una bambina poteva provare in un’Italia
straziata dalla barbarie nazifascista e dalle distruzioni della guerra.
Ma si tratta di un insieme di
emozioni, ricordi e sensazioni non certo infantili, direi invece piuttosto
maturi e consapevoli.
La vicenda si dipana dal febbraio
del ’45 nella zona di Dolo (a metà strada tra Venezia e Padova) ed il 25
aprile, quando la famiglia Arslan ritorna appunto a Padova.
Oltre alla piccola Antonia,
secondo me spicca la figura di nonno Yerwant, il patriarca della famiglia:
nobile figura di medico che gira la campagna in calesse e cura le persone per
poche uova… che accetta a malincuore.
Egli è amareggiato dagli orrori
della guerra e ricorda il genocidio del suo popolo, che decenni prima vide
trucidate dai turchi oltre un milione di persone.
Antonia dice con straordinario
candore: “Avevamo degli stretti golf a quadretti, fatti di lana ricuperata di
tutti i colori, e le guance rosse dal freddo.”1
In effetti, ancora molto tempo
dopo la fine della guerra molte famiglie italiane (boom o non boom) dovettero
fare parecchi sacrifici: sul vestiario (e non solo) quando per es. i fratelli o
le sorelle più grandi passavano ai più piccoli i loro vecchi maglioni, o
giacche, scarpe ecc.…
L’ingenuità dei piccoli Arslan fa
chiamare un aereo Alleato Pippo, comunque essi sono adorabilmente
lontani dai moralismi dei “grandi”. Infatti di Teresa, “la bambinaia che amava
molto i soldati”, perché come diceva: “Sono così bisognosi di affetto,
poverini, e io li consolo”2, non pensano niente di male.
Inoltre, nessuno si scandalizza
per le prostitute che all’alba sono ospitate per un pasto ed un po’ di fuoco
nella cucina della casa. Anzi, l’A. le presenta quasi come delle figure da
sogno, con parrucche, trucchi fantasiosi “e un bisbigliare di vocette
squillanti, come di uccellini.”3
E spesso una di loro, Noemi,
libera dagli abiti che doveva indossare per la sua attività, “si annodava in testa
un fazzoletto a scacchi” e con un grembiulone lavorava in casa Arslan. La
piccola Antonia dice: “E io la seguivo dappertutto, persa in ammirazione.”4
In questo rispetto, direi anzi in
questo affetto trovo un’eco, sia pure inconsapevole dell’atteggiamento assunto
da Cristo verso la Maddalena.
Ne Le luci troviamo anche
personaggi particolari, dei veri originali, figure stralunate di tipo quasi
felliniano come per esempio “Bugno Luigia”, per la quale (a circa 200 anni dalla
fine della potenza e dai fasti di Venezia) “la Repubblica Serenissima esisteva
ancora.”5
Nel racconto troviamo anche
dell’altro, che può risultare buffo ed anche tenero: per es., l’A. ricorda che
“con la seta bianca del paracadute” di Bob, un parà inglese, le avevano fatto
“il vestito per la prima comunione.”6
Ma Le luci testimoniano
anche la reale e rischiosissima solidarietà dimostrata dagli Arslan e
dai loro vicini per Bob, che non denunciano né consegnano ai nazifascisti ma
che anzi nascondono nel granaio.
La stessa Noemi, che in un’Italia
straziata da fame, bombardamenti, deportazioni, rastrellamenti, torture, saccheggi e
stupri vende il suo corpo per sopravvivere, perse in precedenza due gemelli
sotto un bombardamento ed ha il marito disperso in Russia.7
E la presenza, costante e mista a
terrore della morte è un elemento in apparenza nascosto di questo
testo… ma sempre ricorrente.
Così come la presenza della fame, che compare quando l’A.
ricorda che c’era chi finiva per mangiarsi i topi.8
Eppure, gli Arslan
nascondono e salvano (oltre a Bob) anche alcuni armeni.
Le luci prova come la
Resistenza al nazifascismo sia stata fenomeno non solo militare (benché sacrosanto)
ma qualcosa che ha inoltre goduto del sostegno e dei valori di tanta parte del nostro
popolo… che amava la giustizia, la pace, il lavoro e dimostrava la solidarietà
in modo concreto: spesso rischiando la vita ed altrettanto spesso, perdendola.
Del resto, molte zone strappate
ai nazifascisti vedevano sorgere varie iniziative oltre che politiche anche a
carattere sociale, scolastico, artistico, di partecipazione dal basso alla
gestione del territorio: quel che talvolta conduceva al recupero d’usi e
costumi direi di tipo comunitario.9
Torniamo ora alla piccola
Antonia. Il 21 aprile annuncia per il 30 (giorno del suo compleanno) la fine
della guerra; le crede solo nonno Yerwant: egli allude al dono della profezia,
che al suo Paese natale si ritiene appartenga spesso si bambini.10
Antonia sbagliò di poco perché il
25 avverrà la Liberazione e poi, curioso(!), la credenza del nonno è molto
vicina ad una simile ebraica.11
Ed il 25 aprile del ’45, come
sappiamo, il nostro Paese fu finalmente liberato dal nazifascismo ed in tutte
le case si accesero le luci; non solo quelle elettriche.
Note
1) A.
Arslan, Le luci del ’45, Corriere della sera, Inediti d’Autore, pp.11-12.
2) A.
Arslan, Le luci del ’45, op. cit., p.24.
3) A. Arslan,
op. cit., p.37.
4) Ibid.,
p.38.
5) Ibid.,
p.34.
6) Ibid.,
p.32.
7) Ibid.,
p.38.
8) Ibid.,
p. 35.
9) Roberto
Battaglia Giuseppe Garritano, Breve storia della Resistenza italiana,
Editori Riuniti, Roma, 1997, pp. 171-183 e pp. 225-226.
10)
A.
Arslan, op. cit., pp. 39-40.
11) Cfr. Elio Toaff, Perfidi
giudei, fratelli maggiori, Mondadori “Oscar”, Milano, 1990, p.109 e
Dr. A. Cohen, Il Talmud (1935), Laterza, Bari, 1989, p.162.
L’espressione, davvero odiosa “perfidi giudei”, era contenuta nella liturgia
del sabato santo; cfr. E. Toaff, Perfidi giudei, fratelli maggiori, op. cit.,
p. 219.
Lo stesso termine “giudeo”, anche quando non sia preceduta da
“perfido”, contiene fortissime connotazioni antisemite. Come ricorda Toaff, si
deve a Giovanni XXIII l’abolizione di questa sconcertante preghiera; cfr. E.
Toaff, op. cit., p. 219.