lunedì 24 dicembre 2012
Il Natale di Giovanni Piras
Le galere del duca non erano proprio l’ideale per passarci
la vigilia di Natale, così siano benedetti quei pochi pezzi d’argento che hanno
favorito la mia fuga. Qualche ora fa stavo tra i topi ed i vermi ma ora sono di
nuovo libero. La notte è buia, per fortuna: per quei cani di spagnoli sarà più
difficile, trovarmi!
Anno Domini 1576, anno del
Signore… ma a volte questi anni e questo mondo sembrano Diaboli, del
Diavolo…
Il povero lavora come una bestia
da soma per il ricco, che così diventa sempre più ricco; donne e vedove sono il
trastullo di qualche puzzolente hidalgo; il bambino è un fragile,
indifeso essere che chiunque può prendere a calci sulla pubblica via, come se
fosse un cane; il prete parla dell’amore di Cristo ma sbava e ringhia
predicandoci l’Inferno; il dotto usa il suo latino e la sua filosofia non per
scacciare le tenebre dell’ignoranza e della superstizione ma per sbertucciarci
e per confonderci.
Fui “preso a lavorare” (come si
dice da noi) dal duca in quel suo schifoso palazzo che andava in rovina ogni
giorno di più; maledetta sia la mia
fama di bravo muratore!
I miei amici dicono che penso
“troppo” e forse è vero, ma secondo me gli uomini non vengono al mondo per
pensare solo al lavoro, al vino ed alle donne. Mah. Certo che il mondo sarà
sempre un grande mistero.
Quando il duca mi prese a
lavorare mi parlò un po’ in sardo ed un po’ in spagnolo; seppi rispondergli in
entrambe le lingue: in sardo perché è la mia lingua, in spagnolo perché è
quella impostaci dai nostri dominatori.
Mi disse qualcosa anche in
latino… attaccava i sardi che tempo prima (in un villaggio alle porte di Caller)
avevano “osato” astenersi dal lavoro per un’intera giornata.
“E questo perché?!”, aveva
ripreso in spagnolo. “Solo perché non li pagavo da qualche mese, o da un anno!
Come se il loro padrone e signore avesse degli obblighi, dei doveri verso
quell’accozzaglia di pastori, minatori, pescatori ed operai!”
Aveva ripreso in latino, ma anche
se da fra’ Mario ne avevo imparato un po’, finsi di non capire; un uomo
istruito, anche se non molto, poteva essere accusato d’eresia… e per
quella c’era il rogo.
Mi piacerebbe studiare, ma
nell’anno Domini 1576 e sotto i re di Spagna, è già tanto se puoi lavorare come
un mulo e non beccare troppe bastonate…
Un amico di fra’ Mario mi ha
prestato dei pezzi, degli estratti (non so come si dica) di libri greci da lui
tradotti in sardo. Ne ricordo soprattutto uno che diceva: “Le leggi si
pronunciano su tutto e tendono all’utile comune.”
Quella frase mi piace molto perché
per me significa che non conta se sei un pastore, un muratore, un principe o un
ufficiale del re: le leggi sono come un padre che pensa a tutti i
suoi figli.
Certo, i nostri padroni non la
pensano così: le leggi che fanno, le fanno solo per il loro utile.
Comunque io ho capito questo: la
giustizia (che come diceva qualcuno è “virtù completa”) non può arrivare da
sola, come per magia; arriva se tu la fai arrivare.
Ecco perché dopo aver corrotto i
miei carcerieri, prima di scappare ho piantato il mio coltello nel petto del
duca… non volevo essere un evaso o un fuggiasco come tanti. Se non vuoi che la
giustizia sia solo roba per filosofi, giudici e poeti, allora devi prendere
qualche scorciatoia.
Di certo non puoi essere gentile
con chi prende a frustate, deruba, oltraggia o spedisce sul rogo te e la tua
gente. Chi è gentile con l’aguzzino e col succhiatore di sangue, beh, allora
vuol dire che gli dà quel diritto. Il duca è stato il primo a pagare
e spero proprio che non sia l’ultimo.
Spesso sogno uomini e donne che
si muovono in massa per la giustizia, sogno case pulite e ben
riscaldate, acqua e cibo per tutti, sogno che anche quelli come me potranno
leggere e scrivere quello che vorranno senza il terrore d’essere scoperti,
sogno un lavoro che non sia più roba da schiavi, che nessun re ci ordini
più di massacrare in guerre senza senso poveracci come me, sogno medicine che
curano e che curano anche la mia gente.
E’ la notte di Natale del 1576 e
mi piace pensare agli uomini ed alle donne che verranno… chissà, tra 100 anni,
tra 200, 300, 400, 500…
Ed anche se sembra un sogno da
fuggiasco o da ubriaco, vorrei augurare ai fratelli non ancora nati un sereno
Natale. Forse quella gente vivrà quello che io posso solo sognare.
lunedì 17 dicembre 2012
Quelli di “Borgo Polesinino”, di Franca Fusetti (1/a parte)
Tempo fa la cara amica blogger Franca Fusetti (Nou) mi
ha inviato alcuni suoi scritti, sia in versi che in prosa. Si tratta di lavori
che nella sua modestia lei non ha ritenuto meritevoli di pubblicazione, ma
per me questo è un male, perché non di rado in libreria troviamo volumi che non
possiedono di certo la freschezza della scrittura appunto di Franca…
Io spero che lei cambi idea, così
come penso che in Veneto non manchino case editrici in grado di “lanciarla”
come merita.
Comunque oggi vorrei parlarvi
della raccolta di racconti Quelli di Borgo Polesinino. Si tratta di
racconti brevi, bozzetti pieni di garbo ma che sono nello stesso testimonianze
autentiche e sofferte di un mondo forse oggi scomparso.
Come leggiamo in Lungo
l’argine: “Borgo Polesinino era una località sperduta, un gruppuscolo di
case”; “Polesnin, così era chiamato il borgo per semplificare.”
Si trattava di una piccola
cittadina situata nel Delta del Po, un micromondo di contadini, artigiani,
pescatori ed altri umili lavoratori che conducevano una dura vita di lavoro ma
che si aiutavano reciprocamente.
L’economia del Borgo non
permetteva troppi sogni o svolazzi, se come leggiamo in Rosa e Tonino il
fatto di sposarsi in inverno era considerato un “vantaggio” perché permetteva
di “aggiungere al corredo un bel cappotto nuovo rispetto a chi sposa nella
stagione calda.”
Ogni passo nella vita delle
persone era insomma strettamente commisurata a quanto ed a quel che
occorreva loro; l’idea del lusso (non parliamo nemmeno dello spreco) non
esisteva proprio.
Sempre in Rosa e Tonino assistiamo
ai preparativi per le nozze ed all’atteggiamento irritante e colpevolizzante
del parroco, che non sopporta affatto il fatto che Rosa debba sposarsi in stato
interessante...
In segno di “penitenza” la peccatrice non poteva
sposarsi con l’abito bianco e quel che è peggio, non durante la messa grande
bensì a quella delle 8 del mattino… come se dovesse nascondere chissà quale
colpa o infamia.
Questo nonostante Bice, la madre
di Rosa, si batta per difendere la figlia da quell’umiliazione. Nella sua
saggezza, infatti, Bice afferma che Rosa e Tonino: “Hanno seguito una legge
naturale”… quella cioè che porta un uomo ed una donna che si amino ad unire
oltre che i loro corpi, anche i cuori.
Ma malgrado l’intransigenza del
sacerdote, che viene percepito come uno che “sembrava contro di loro”,
la comunità accoglie e festeggia i due senza assurdi moralismi… a riprova di
come, tante volte, la cosiddetta povera gente possieda un cuore ben più ricco.
In Inseguendo un toast la
protagonista (Nara) è una ragazza che alle soglie del diploma assiste
all’irruzione all’interno della nostra lingua di varie parole straniere.
“Parole di lingue diverse erano
inserite qua e là con una certa noncuranza, nonchalance appunto, da persone
ricercate nei loro discorsi. Vocaboli come cocktail, sandwich, yogurt,
pass-partout, reception, suite, knock-out ed altri ancora, venivano usati a
profusione.”
Subisce questa irruzione anche
quel mondo rurale a cui Nara appartiene e che Franca sa dipingere con
affettuosa ironia. Ma quel che colpisce la fantasia di Nara e delle sue amiche
è la parola “toast”, alimento di cui lei e la sorella si toglieranno lo sfizio
a Milano.
La pagina in cui le due sorelle e
compagne d’avventura sbarcano alla stazione centrale della metropoli lombarda,
beh, a me ha ricordato la gag di Totò e Peppino in un famoso film… con in più,
da parte delle ragazze della provincia veneta, una grande compostezza, un… aplomb
di tutto rispetto.
Del resto: “Contrariamente alle
sue abitudini, Nara lasciò un pourboire.”
Molto bello l’incontro di Nara
con alcuni ragazzi delle borgate romane da lei incontrati “quando, con la
solita valigia, modello emigrante, Nara scese dall’autobus in Via Appia
Nuova.”
In Viaggio a Roma Nara
presenta questi ragazzini senza pesanti finalità pedagogiche; del resto, loro
non le mancarono di rispetto anzi la scortarono “a destinazione, in Via Appia
Antica, dove la stavano aspettando.”
In Ragazza alla pari troviamo
Nara a Bruxelles. In seguito alla tragica alluvione del 4 o 5 novembre del 1966
la Nostra perse l’impiego che aveva a Ca’ Tiepolo ma nella capitale belga sa
farsi benvolere; inoltre acquisisce “un buon livello di conoscenza del francese
parlato e scritto.”
Il carattere di Nara:
quando M.me Dumais (la donna del cui bebè si occupa) si pone come intermediaria
tra lei ed un suo lontano parente… ed inoltre si offre di trovarle un impiego
presso l’ambasciata italiana… ma a quel punto Nara opta per il rientro in patria.
Forse altre donne avrebbero colto
quelle occasioni al volo: un possibile marito (probabilmente ricco) ed un
lavoro sicuro… ma non Nara, che volle rimanere padrona della sua vita. E lo
rimase.
Benché i racconti di Borgo siano
tutti in italiano, ogni fa tanto fa capolino anche il dialetto veneto, con
effetti devo dire spesso molto divertenti.
Per es., in Comari si
parla di uomini ormai attempati che riprendono a “vardarse”, guardarsi
(attorno). Ma: “Tanto cossa voto che i trova? Più de qualche gallinassa
vecia, gnanca più bona per el brodo, no ghe xe altro in giro!” Più di
qualche vecchia gallina, neanche più buona per fare il brodo, in giro non c’è
altro!”
Franca mi scuserà se la mia traduzione non è abbastanza
accurata; del resto, spesso i dialetti possiedono un’incisività che talvolta
alla lingua manca. Tuttavia io ho capito sempre almeno il senso delle frasi in
veneto.
In Nina e Baldo troviamo
una famiglia il cui capo (?) beve troppo e picchia la moglie, tanto che “un
infausto giorno sono intervenute le assistenti sociali togliendo loro le
figlie.”
Questi dell’alcol e della
violenza domestica sono problemi che in varie parti del Paese rendono la vita
di molte famiglie un inferno, ma Franca ha saputo affrontarli evitando
d’assumere “abiti” morbosi o scandalistici… ma senza per questo dimostrare
superficialità o fatalismo.
2/a parte
Per ragioni di spazio non posso
parlare di tutti i racconti di Borgo, comunque ora vorrei ricordare Parole,
in cui Franca cede la… parola alla signora Elena Zerbin.
La signora appartiene ad un tempo
in cui, come scrive: “Non si conosceva nemmeno una stuffa a legna e si poteva
anche contrarre il tifo ma: “Allora si pagava tutto, medicine e pure
l’ospedale.”
La vita, nella valle del Po, era
durissima: si lavorava nelle risaie, anche: “Dieci campi di risaia, come dire,
melma si zappava! Non ci conoscevamo se eravamo persone o bestie: tutti
pieni di terra sporca. E a fine anno quando andavamo a fare i conti col
padrone, eravamo rimasti in debito.”
La drammaticità di questo quadro
era poi simile a quella di tantissime famiglie operaie e contadine del nostro
Paese e questo, per tanto, troppo tempo. Così è fondamentale che certe realtà
siano ricordate e denunciate da chi le visse sulla propria pelle e non cede
alla tentazione o alla menzogna del “bel tempo antico.”
La signora Elena ricorda inoltre
il suo sicuro rifiuto del nazifascismo quando dice: “Dentro di me non mi
sentivo per quel fare, mi sentivo ad essere alleata con tutti e
aiutarsi nel modo più umano della nostra vita.”
Ecco, forse è questa la sintesi
migliore sia del suo breve scritto che delle prose di Franca: questo sentimento
di umanità e di giustizia che rifugge dalla retorica, dalla violenza e
dall’inganno perché si desidera ardentemente un mondo più giusto… che non sia
insomma né una giungla né una caserma.
3/a ed ultima parte
Ciò che costituisce la parte più
autentica di uomini e donne oggi anziani e che furono duri ed umili lavoratori,
è questo profondo sentimento e desiderio di una vita migliore: una vita cioè
che non punta certo a lussi, applausi e riverenze ma solo a potersi godere in
pace i frutti del loro lavoro coi loro cari, senza essere più tormentati dagli
spettri della fame, della guerra e dell’ingiustizia… che purtroppo, ai nostri
giorni sono ben più che spettri!
Per quegli anziani ed anche per
noi, una vita migliore significa davvero “aiutarsi nel modo più umano”; il che
non significa né correre come dannati per ammassare più danaro possibile,
magari calpestando gli altri né vivere nell’ozio.
No, vuol dire fare in modo che
ognuno possa avere qualcosa in proporzione a quanto ha fatto ed a quanto gli
spetta.
Spesso è difficile, a volte
sembra quasi impossibile esprimere con parole chiare queste più che legittime
aspirazioni: ma quali mezzi possiamo utilizzare se non le parole? E
talvolta quelle possono essere fraintese: non sempre in buona fede.
Ma come dice benissimo Franca:
“Elena, abbiamo scritto le nostre parole. Ora si sono incamminate. Non
conosceremo il loro percorso. Sicuramente non cesseranno, mai più, di vivere.”
E questo è verissimo: soprattutto quando si tratta di parole che nascono dall'esperienza e dal cuore di persone generose.... persone che oltretutto non hanno subito la vita ma hanno cercato di capirne il senso, hanno tentato (secondo me con successo) di ricomporre quello che spesso sembra un puzzle assurdo, incomprensibile e talvolta anche crudele.
sabato 8 dicembre 2012
La discussione filosofica (parte settima)*
Ma anche quanto detto finora su sensibilità e dimensione
intuitiva dell’artista presenta il classico rovescio della medaglia, l’altra parte dello specchio o come vogliamo dire.
Infatti, proprio il complesso e
spesso contraddittorio sentire dell’artista può presentarsi come il suo
punto debole, poiché si fonda su elementi se non irrazionali almeno a-razionali
o meta-razionali, che quindi non si oppongono necessariamente alla
dimensione logico-razionale…
Ma nella mente e nel cuore
dell’artista gli altri elementi premono con tutta la loro drammaticità
ed urgenza fino a non fargli considerare la dimensione appunto
razionale, fondamentale e forse, neanche tanto auspicabile.
Egli, infatti, vede (o crede
di vedere, ma in campo artistico questa distinzione ha davvero poca importanza)
lati che prescindono dalla razionalità o che la superano.
Inoltre, l’importanza della fantasia,
della creatività, il ruolo insomma che nella creazione artistica riveste
l’aspetto ludico, di gioco1, tutto questo può condurre l’artista
o a credere egli nelle sue creazioni.
O ad instillare negli altri
l’idea che esse siano reali.
O ad entrambe le cose.
Comunque non dimentichiamo quella
che per me (e forse anche per tanti e tante) deve essere la stella polare della creazione artistica… come diceva
infatti il Socrate di Platone: “Un poeta per essere veramente tale deve
scrivere per immagini e non per deduzioni logiche.”2
L’artista che crei così cioè
in modo, come potrei dire, oltrelogico sarà davvero un artista perché
sapràabbandonarsi alla forza
della sua ispirazione senza temere di passare per un adolescente, un folle, un
ingenuo, un romantico fuori tempo massimo o chissà che altro ancora.
Le creazione di quel tipo
di creatore (ovviamente bisognerà giudicare anche la qualità, il valore delle
sue opere) saranno così fonte o occasione di godimento estetico, di sogno e di
stimolo anche sul piano filosofico.
E la natura non logico-razionale
dell’opera d’arte e dell’artista era del resto provata e difesa da un uomo ben
poco incline a concessioni romantiche come Kant, che scrisse: “Il genio
è il talento (dono naturale) che dà la regola all’arte.”3
Questa frase sintetizza la
convinzione fondamentale di Kant rispetto al problema estetico: non può
esistere alcun criterio oggettivo del gusto, che non può essere inculcato
da argomenti, tesi, ragionamenti, prove ecc.
Infatti, l’opera d’arte è libera
da qualsiasi regola o complesso di norme e “il genio stesso non può mostrare
scientificamente come le idee si trovino in lui.”4
Note
Le precedenti parti di questo
post sono comparse su questo blog rispettivamente: la 1/a il 25 /03/2008; la
2/a il 4/4/2008; la 3/a il 17/6/2010; la 4/a l’11/10/2011, la 5/a il
27/11/2011; la 6/a il 15/11/2012.
1) E’
stato osservato che nel caso per es. di un’opera di Joyce come l’Ulisse il
suo “modello (non solo strutturale) era quello del poema eroicomico in
prosa. Così: “Il modello è sempre il medesimo: anche Finnegans Wake è
un poema eroicomico in prosa; troppo spesso ci si dimentica che alla base delle
due opere maggiori di Joyce vi è un elemento ludico, di gioco, di divertimento.
Anzi, questo elemento è ancora più accentuato in Finnegans Wake, dove la
parodia diviene struttura portante sul piano linguistico.” Giorgio Melchiori, Introduzione
a James Joyce, Finnegans Wake, Mondatori, Milano, 1982, p.XI.
Cfr. anche G. Melchiori, “I funamboli
del romanzo: il manierismo nella letteratura inglese da Joyce ai giovani arrabbiati, Einaudi, Torino, 1974, pp. 48-64.
2) Platone,
Fedone, Garzanti, Milano, 1980, IV, p. 77.
3) Immanuel
Kant, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari, 1982, p. 166.
4) I
Kant, Critica del giudizio, op. cit., pp. 166-167.
Per una trattazione più sistematica ed esaustiva di questi temi in Kant cfr.
almeno Ibid., pp. 134-221.
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